Felicità senza soggetto di Mario Santagostini, uscito ad aprile di quest’anno nella collana “Lo specchio” Mondadori, è un libro bello e invadente. Un’opera che porta avanti, nella sua struttura, argomenti radicati nell’autore che tornano costanti. Si sa, nella carriera di ogni autore c’è sempre una ripetitività, un ritorno maniacale di determinate dinamiche e temi; come se, con il passare del tempo, i libri già scritti non avessero esaurito i contenuti o le ritmiche interne. Chi conosce l’opera di Santagostini, sa che dal primo libro Uscire di città fino a Felicità senza soggetto il nostro autore ha sempre scritto in maniera ruvida e imprescindibile.
L’estrema esattezza del dettato di questo libro sta nello stabilire ancora una volta il parallelo fra vivi e morti, fra storia e attualità. Si parte dalle utopie vinte del passato (il comunismo) che non si possono più riprodurre nella nostra contemporaneità orizzontale e demagogica: “Ancora adesso, non mi è chiaro/ quale disegno stava/ dietro all’occupazione delle case/ nei primi anni Settanta./ E a tutte le forme di autoriduzione,/ o d’esproprio. Forse,/ erano quei piani alti e dalle/ pareti appena imbiancate, quelle merci ingloriose/ e non pagate, a volere/ il comunismo. Più e meglio di noi./ Ricordo le sere quando/ la proprietà quasi non esisteva”. Santagostini si muove attraverso frammenti asciutti e densi, citando grandi nomi di artisti e poeti: Petrarca, Manzoni, Pascoli, Sereni, Van Gogh, Sironi, Hopper e lo scienziato Nikola Tesla; protagonisti che vengono usati non solo come figure culturali di riferimento, ma come vere e proprie ‘aperture’ nel testo.
In Mario Santagostini le pause sono interne, creano false interazioni, sciolgono ogni metafisica e ogni oggettività religiosa, che può solo essere accolta come una deriva, una dislocazione di eventi che l’intimità umana raccoglie e racconta: “ Non ha mai ricordato nessuno/ e non può farlo. Ma è immensa/ la fretta di concludere/ che ogni figura di Dio è Dio,/ è anarchismo puro”. Non si può non pensare al modo in cui Santagostini usi se stesso, la propria vita ed il proprio passato per decifrare un presente alterato. Ogni emotività dell’umano, come la percezione del passato, del presente e del futuro sono collegati, sono avanzi di memoria, entità da controbilanciare: “Era il ’60, qualcuno/ parlava di sterminate domeniche… e ancora “Pensavo: non amo me stesso,/ amo questi anni,/ la loro felicità senza soggetto”.
La perdita del soggetto può anche diventare sogno (il sogno di Sironi), una lunga fantasia interiore, come un’allucinazione che si compie interamente e scardina ogni cosa restituendo una realtà destrutturata: “- Ho seguito le idolatrie/ della prospettiva, o / qualche ricordo d’architetture staliniane./ Ma nella sua cecità verso/ il tutto, il Novecento m’ha insegnato/anche a pensare/ a una seconda Milano…”. Inoltre, la presenza, in Felicità senza soggetto, dei Mangiatori di patate di Van Gogh, è l’urlo svuotato della malattia, passata e contemporanea, che dal basso verso le altezze smuove il suo fiato di morte; in questo caso la peste: “Qui, quattro secoli fa c’è stata la peste./ Dicono che la portava/ il vento, quando/ era ancora una forma di vita”.
Ora, il concetto di oblio per Mario Santagostini, si insinua come qualcosa di benevolo e audace, sistema di sogni e misure. Come un ricordo annientato dal presente, che sorge atteso, che spazia negli svuotamenti dell’animo umano che aspira alla fermezza di qualcosa di puro: “Del dopoguerra, ricordo poco./ Ma invasi dal sogno/ d’una forma abitativa allo stato purissimo,/ si tiravano su palazzi,/ rimesse, hangar. La speranza/ era di vederli, un giorno,/ svuotati. Lo spirito, quello/ di chi già abita una Gerusalemme/ celeste, città della/ resurrezione senza morti”.
Nell’ultima sezione del libro Postcreatura, che riprende quasi interamente con alcune varianti la bella plaquette A. (pubblicata nel 2010 da LietoColle), dove la “A” puntata è l’iniziale del nome Alfonso, ognuno di noi è condizionato da una vita da postcreatura, da una realtà vissuta e da vivere a posteriori di ogni cosa. Verso una nuova integrazione della vita, verso una nuova forma di attualità e futuro, in un presente totale e selettivo.
Queste epifanie inconcludenti, sono metafore di Postcreature, siamo tutti noi, è Mario Santagostini, è Alfonso: “Forse, voleva l’eterno/ e ha trovato solo la salvezza”.
Immagine: Mario Sironi, Paesaggio urbano, 1920.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).