Se una volta o l’altra davvero cesseremo di mettere nero su bianco, una cosa ci resterà: la voluttà di guardare il prossimo sconosciuto e congetturare chi sia cosa pensi cosa faccia. Questo appassionato intrattenerci con le sagome umane. E c’è una frase di Tolstoj che non mi esce di mente: «La storia di Ivan Ilijč era la più semplice e comune e delle più terribili».
Una sera di questo luglio, a un altro tavolo c’è una bionda sui trenta, niente male, fronte alta, capelli sciolti, occhi che balzano qua e là. E’ insieme a un tipo sportivo, spalle larghe, bella faccia arrogante, mani nervose. Dai gesti si deduce che sono una coppia. Afferro uno spazientito “Fatima, senti…” e un supplice “Rirì, per favore!” e poi un altro “Fatima, io domattina devo alzarmi alle cinque”, poi perdo delle frasi sino a un malinconico “che bella scusa!” di lei. Non sembrano andare molto d’accordo.
Fatima è insonne. Immagino un risveglio notturno di lei, sola nel letto. Di solito avviene sulle due.
Andato… tre ore fa. Sarà ancora in viaggio. Sta via due giorni, per lavoro. Perché quando in macchina prende le curve come un pazzo non finisce in mare e non crepa e non se lo mangiano gli squali? Oh dio… Ma come posso anche solo pensare…Cosa sono diventata?
Fatima accende la luce sul comodino. Dormono tutti in casa, e anche fuori. Neppure un uccello. Neppure il mare: calma assoluta, è come se non ci fosse.
Ma è così, mio caro: tra noi è finita.
Davanti al gran letto, sopra la ribaltina, c’è un poster con una tigre nella giungla. Affonda in un groviglio di felci e di fiori strani, ha due occhi-lanterna, è in agguato, e lei sa cosa vuole, la mangiatrice di uomini. Così, una bestia feroce bisognerebbe essere – sospira Fatima e il petto le si solleva. A volte basta la più balorda delle immagini a dare sollievo.
Mio fratello Nino sostiene che le donne non capiscono la rassegnazione, che le donne sono sempre un po’ irresponsabili. Ma allora perché quando mi stavo per sposare non mi ha detto cosa fai, fermati, indietro? Invece non ha battuto ciglio.
Il matrimonio ti farà bene, mi dicevano tutti, lui è caro, simpatico, ha davanti una carriera e poi non negherai che vi volete bene. E quando obbiettavo che io gli volevo bene ma forse non abbastanza e che lui mi riempiva sì di attenzioni ma era così strano, così diverso da me, non mi ascoltavano. Tu prova con gli altri, anche gli intimi, a tirar fuori le tue incertezze, le tue angosce! E’ come quando a tavola ti fai una macchia sul vestito: accorrono col talco, con l’acqua, con lo smacchiatore per farla sparire. Mia sorella Nena mi derideva: ma cosa vai cercando, Fatima, il grande amore? Non lo so, dicevo io, ma io con un uomo vorrei sentirmi…ecco, come una palla dorata sull’albero di Natale.
Fatima, tu sei sempre speciale! No, non sono speciale. O forse solo in questo, che non so difendermi, accetto subito le ragioni degli altri e gli altri, invece di apprezzare, alla fine mi mettono sotto i piedi. Mia madre dice che mi succedeva già quand’ero all’asilo.
Mai mi sono sentita più miserabile di quel dicembre prima del matrimonio che andavo in stivali e pelliccia per i negozi e c’era la neve e il fango e mia madre. Non ti sporcare, Fatima, attenta alla pozzanghera. Come la tengono bene una che sta per sposarsi. Certo, è un investimento. E il 26, due giorni prima, mi scoppia una cosa strana, che mi fa un male tremendo, sotto le grandi labbra: un favo. Un sintomo da vergine…da non credere. Allora proprio non mi vuoi, brontolava Rirì. Ma il ginecologo ci assicurò che non era niente, che mi sposassi pure.
Era un bravo medico, aveva anche un nome. Almeno coi medici ho fortuna. Anche adesso con lo psicologo, il behaviourista, il b.h., come lo chiama Rirì. Se stesse in lui, non ci verrebbe, ma c’è sua madre che non gli dà requie, perché ci vuole vedere uniti – pensate alla bambina! – e lui di sua madre lui ha soggezione. Con me sbraita: cosa ci faccio io da quel figlio di puttana che bada solo a far soldi, io non ho niente, io non sono matto, tutti mi trovano normale tranne te. Quel rottinculo con le sue fregnacce! Quanto tempo dobbiamo continuare con questa pantomima? Poi appena è davanti a lui diventa un modello di sposo, di buonsenso: ma è ovvio, professore, ma s’immagini se non voglio fare il possibile, professore – e così il b.h. non può mai rendersi conto della realtà.
Lui Rirì dovrebbe vederlo fuori, al naturale. Allora non avrebbe il coraggio di raccomandarci rapporti sessuali “frequenti e soddisfacenti”. L’altra mattina – c’era quella luce del mattino sul mare che è così bella, così distensiva, e dopo si andava tutti al bagno, con Nena e i bambini, col picnic, sul gommone. Anche lui pareva contento, rilassato. Tanto che si era alzato per primo, aveva fatto qualche piegamento davanti alla finestra, poi era tornato verso il letto, si era buttato in ginocchio a cercare le mie ciabatte: “Tu sta’ qui, adesso ti faccio il caffè e l’uovo sbattuto e te lo porto. Non hai sentito l’internista? Hai bisogno di nutrirti! Non vedi come sei ridotta, le tette ti ancora stanno su, e ti credo, erano fior di tette, ma il culo dove te lo sei messo?” – ed esce di stanza per andare in cucina. Poi arriva l’urlo, lacerante, un fracasso di calci, un rotolio, e un deficiente, troia, cos’è questa merda qui in mezzo…Madonna, forse erano i giocattoli, i giocattoli di nostra figlia rimasti in mezzo al corridoio la sera prima.
Tu sei sicura che non abbia un’altra? dice mia sorella mentre mettiamo i piatti nella lavastoviglie: perché, sai, loro quando si sentono in colpa te la fanno pagare a te. Un’altra dove? dico io. Sul posto di lavoro, Fatima, è sempre lì che rimorchiano, per loro è facile, molto più che per noi.
Lei, signora, dice il b.h, è un groviglio di sintomi, ma aspettiamo a vedere i risultati di questa prova. Con certe coppie ha avuto successo. Il modello “No comment and smile” che le ho proposto va seguito per almeno tre mesi, dopodiché avremo dati affidabili per stabilire se dovete separarvi o restare assieme. E curi il più possibile il suo corpo, il vestire, il trucco. E niente sensi di colpa! Si voglia bene: lo sa che questo è sempre il punto di partenza.
Sì, se io sapessi volermi bene quando gli altri non me ne vogliono.
L’altra sera lui è tornato con un acquisto per il sub: una muta ultimo modello. Io ho osservato mitemente che la vecchia era ancora perfetta. Lui si è limitato a un arcigno vero niente.
Verso mattina, nel sonno, smaniava. Quando si sveglia racconta confusamente di un sogno, dove c’era un pullover color ferro tutto buchi e vermi. Secondo me quel pullover era la muta, ma io dico soltanto “ah sì?”, come un automa. Lui alza la voce: “Dove sei con la testa? E’ ben vero che non ho un cane che mi ascolti”. “Scusa, ho preso la mia fiala ma non sto bene”. Lui caccia un urlo: “Sì, sì, sì, lo so, con me non si può che stare male”, e afferra la sveglia dal comodino e la scaglia lontano. Poi mugola “dio, dio”, si butta dal letto e va a mettersi ginocchioni per terra, in fondo alla stanza, a raccogliere i pezzi. Poi si copre la faccia: era…era la sua sveglia da trent’anni, la sveglia che gli avevano regalato per la cresima!
Forse ciò che lo rende pazzo è stare con me.
Il marito di Carla se n’è andato con una puttana, dice mia sorella. Tanto meglio, dico io, ci andasse anche il mio invece di comprarsi come fa i giornalini pornografici. Mia sorella alza le spalle: cosa vuoi che sia. Ma, Nena, a volte se li porta anche a letto! E’ solo per provocarti, Fatima.
Adesso però non è una visione, anche questa notte le bestie ci sono sul serio.
Fatima si è rizzata a sedere sul letto. Sono…tre, quattro, cinque. La stessa specie di quelle che ieri risalivano la parete del bagno piccolo. Però dopo quell’apocalisse di spray che ho fatto erano scomparse, nemmeno i resti, la polvere pareva un campo da sci intatto – e Fatima gira gli occhi intorno, cercando qualcosa, per fare un altro sterminio. Ma non c’è niente che serva: sulla ribaltina il deodorcasa alla mela verde, sul comodino un pacchetto di biscotti sigillato. Di dove viene allora quella grossa briciola rosacarne, dietro cui arrancano gli altri, neri, con tutte le forze?
E se passassero il soffitto e discendessero dalla mia parte?
Fatima, aveva già strillato Nena giorni addietro, lo sai che non c’è un bel nulla, che è una tua visione, e ci mancherebbe, coi quintali di prodotti che usiamo! La filippina ci guardava spaventata. Ma io dico: non serve, si riproducono dal nulla. Sì, fa Nena, ma nella tua testa.
Un velo di sudore le copre la schiena, il sudore le goccia lungo l’interno delle braccia fino ai gomiti. Si guarda addosso, con apprensione: si vede fragile, scoperta, con quel dorso su cui si possono contare le costole e con quei capezzoli ritti sotto la camicia. La mussola forma su ognuno una piccola cupola, e c’è un che di soave tra quel velo e la pelle, che le mette pietà per se stessa.
Il b.h. a sentire questa degli insetti si era fatto serio: naturalmente non ci sono, questo è un sintomo, un noto sintomo depressivo, ma io confido che scompaia insieme agli altri non appena…
Fatima si è rimessa giù, su un fianco, la faccia nel guanciale.
E dire che…che lui non sa – nessuno lo sa, nemmeno Nena, e a me a forza di tacerlo non mi sembra nemmeno vero. E invece è così: io Rirì lo tradisco, da mesi ho un amante. Amante…che parola! Amore…e dove?
Questo racconto è già apparso su poetarumsilva
Immagine: John Akomfrah, Tropikos, 2016.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).