L’erosione
cancellerà le Alpi, prima scavando valli,
poi ripidi burroni, vuoti insanabili
che preludono al crollo, gorghi. Lo scricchiolio
sarà il segnale di fuga: questo il verdetto.
Rimarranno le pozze, i montaruzzi casuali,
le pause di riposo, i sassi rotolanti,
le caverne e le piane paludose.
Nel Mondo Nuovo rimarranno, cadute
principali e alberi sintattici, sperse
certezze e affermazioni,
le parentesi, gli incisi e le interiezioni:
le palafitte del domani.
(da Concessione all’inverno, 1985)
Quando scrivevo questa poesia ero molto giovane: sui venticinque anni, credo, o forse meno; e Le parentesi è anche il testo che apre il mio primo libro, Concessione all’inverno, apparso nel 1985. La poesia ha poi avuto una certa fortuna, e ad alcuni lettori è sembrata “emblematica” di alcune cose che sarebbero altrettante caratteristiche della mia scrittura: il senso di erosione, una temporalità geologica, e non solo storica, la tendenza vagamente allegorica, il gusto per il lacerto linguistico, per l’interstizio, per il residuo, e altro ancora. Tutte cose che ho letto o sentito, e nelle quali mi riconosco, certo; però nello stesso tempo, quando mi capita di leggere in pubblico questa poesia, ricordo anche con un sorriso che forse i suoi versi sono nati prima di tutto da un gioco, da una situazione scherzosa; e solo dopo hanno (forse) assunto un carattere più serio.
La situazione era la seguente: con alcuni amici, in quel periodo, ci si vedeva spesso, a cena, a casa dell’uno o dell’altro; suonavamo un po’ insieme la chitarra, ci divertivamo; e siccome uno di loro era bravo a disegnare, e io ero considerato bravino con le parole, una sera si progettò di realizzare alcune t-shirt ironiche o sarcastiche, da vendere per fare due soldi, ma soprattutto da diffondere per irridere qualcosa. C’era forse, in questo progetto peraltro mai realizzato, un ultimo scampolo della temperie culturale e politica di quell’epoca; uno sberleffo bonario, in cui però riecheggiavano altre cose, altri atteggiamenti, altre speranze, di cui forse intuivamo più o meno confusamente la prossima fine; e forse c’era anche un po’ di quella disperazione politica, a volta ancora mascherata da improbabile speranza, che aveva agitato gli anni precedenti, in cui ci eravamo formati. Fatto sta che uno degli slogan assurdi che una sera avevamo immaginato sarebbe dovuto essere: NO ALLE ALPI. Cioè una negazione tanto radicale quanto assurda, che, pronunciata (o scritta sul petto dei nostri futuri clienti) in un paese alpino come la Svizzera, ci pareva dover suscitare l’attenzione irritata delle persone per bene, magari persino un po’ di scandalo. Poi, probabilmente, si è stappata un’altra bottiglia, e la cosa è morta lì.
Ma quello scherzoso progetto deve aver lasciato un segno nella mia mente, e dopo un po’ (non saprei dire quanto) ho cominciato a scrivere Le parentesi, senza peraltro collegarle coscientemente a quell’episodio, che avrei ricordato solo molti anni più tardi. Se ho pensato ora di raccontare questa poco nobilitante genesi c’è un motivo; negli scorsi giorni, sono stato invitato a Torino, in un seminario di poesia che riuniva studenti e insegnanti dell’università, nel quale avrei dovuto leggere qualcosa dai miei primi libri e, nel limite del possibile, rievocare la temperie culturale e politica degli anni ’80, durante i quali ho cominciato a scrivere e a pubblicare. L’ho fatto volentieri, per quel che ho potuto, ed è stato un incontro molto bello, almeno per me; ma mentre parlavo (anche di questa poesia, raccontando più o meno le cose che ho scritto poco fa) avvertivo un groviglio di sensazioni diverse. Intanto, la sensazione di rievocare un mondo molto lontano non solo dall’oggi, ma da quello in cui si erano formati i miei ascoltatori; un mondo nel quale la poesia e la letteratura erano importanti, per alcuni di noi (io cercavo di negarla, allora, questa importanza di cui temevo persino di dovermi vergognare; e solo dopo un lungo periodo di incubazione ho accettato di confessarla a me stesso), ma insieme ad altre cose che parevano avere un’importanza e un‘urgenza anche maggiore: la dimensione collettiva, il progetto politico, la tensione verso un orizzonte che poi si è rivelato impossibile o illusorio (o forse sarebbe più giusto dire: provvisoriamente impossibile, provvisoriamente illusorio; domani, in altre forme, analoghi sogni potrebbero ancora nascere…), o che è stato sconfitto e cancellato. Nei versi delle Parentesi mi sembra di cogliere ancora qualche rintocco di quella musica. E mi sono chiesto, non per la prima volta, quanto sia davvero possibile comunicare a chi non l’ha vissuto un passato di quel genere; più in generale, cosa noi si possa sapere e capire delle vite di coloro che ci hanno preceduti.
Poi qualcuno ha osservato che, nella seconda parte della poesia, il discorso cambia: non è più soltanto questione di erosione, di distruzione, ma di sopravvivenza e di futuro: sopravvivenza modesta, futuro modesto, d’accordo; ma meglio di niente. L’idea che la ricostruzione, la rifondazione possano o debbano cominciare dai frammenti, dai resti del linguaggio, mi piace ancora oggi. Ne colgo qualche concreta manifestazione sul treno, quando fotogrammi di conversazioni (e di vite che conversano) si intrecciano l’uno all’altro, e si fissano casualmente nella mia coscienza; oppure in certe situazioni impreviste e quotidiane, che piacevano moltissimo a un grande poeta da poco scomparso, amico e maestro, come Giorgio Orelli, che quelle accensioni linguistiche apparentemente banali sapeva trasformare in tessere luminose di un mosaico. Per esempio, mi ricordo di un piccolo supermercato di quartiere, che sarebbe piaciuto sia a Orelli sia, forse, a Umberto Saba; al banco dei formaggi, una signora chiede se quella tal formaggella è davvero magra. «Magra?» risponde il venditore « è così magra che è più magra del cavallo di Don Chisciotte!». Non ho mai scritto nulla a partire da questa battuta; ma continuo a pensarci con ammirazione e con stupore; e averla potuta ascoltare mi pare ancora oggi una fortuna, un segnale positivo. In mezzo a tanto orrore, a tanta banalità, un venditore di formaggi può accostare la sua formaggella a Ronzinante: c’è in questo qualcosa di stupefacente.
Infine, certamente non lo sapevo allora, quando scrivevo Le parentesi, e probabilmente non avevo neppure letto il testo che ora invece conosco bene e posso citare; ma quell’intuizione forse ingenua di sopravvivenza a partire dalle rovine, dai resti, e di durata possibile e sperabile solo attraverso una nuova voce capace forse di dire, finalmente, quei resti, quelle rimanenze di un progetto esploso nella storia che ci aveva quasi distrutti: tutto questo era forse un estremo rimbalzo del ciottolo scagliato quasi due secoli prima da un poeta tedesco, Friedrich Hölderlin, in una poesia splendida, cruciale e ardua come Andenken, che termina appunto, dopo aver riattraversato un bilancio esistenziale e storico segnato dalla sconfitta con il verso: Was bleibet aber, stiften die Dichter («ma ciò che resta fondano i poeti», secondo la traduzione di Giorgio Vigolo). Non sto adesso a sviluppare il ragionamento che, partendo proprio da questa poesia di Hölderlin, è già stato fatto ampiamente (per esempio da Heidegger). Forse basta l’accenno a suggerire che il clima da cui sono nate Le parentesi non era soltanto dominato dall’erosione, dall’aria della fine (mi pare fosse questo un sintagma-titolo di Antonio Porta); ma anche dalla vaga coscienza di dover ricominciare e reinventare qualcosa. Cosa? Forse, un rapporto tra la parola poetica e la realtà della nostra vita e del nostro mondo; una dicibilità del mondo e della vita, che pareva da qualche tempo smarrita. Non mi illudo certo di esserci riuscito; ma la direzione in cui ho tentato di indirizzare il mio cammino avrebbe voluto essere più o meno questa.
Fabio Pusterla
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NOTA: La ricerca poetica di Fabio Pusterla cerca da sempre di tenere insieme due equilibri. Il primo è quello di un discorso improntato alla ‘classicità’, che si discosta dal recupero di maniera e si presenta come una tensione esistenziale, etica, per alcuni aspetti anche politica, per cui la scrittura affronta la sfida di mantenere la dicibilità del reale, dei fatti, delle cose, dell’esperienza. Il secondo equilibrio riguarda la forma, che fonde il piano referenziale degli oggetti, lineare e obiettivo, e il piano delle incursioni trascendentali, a tratti visionarie, che mescolano i ricordi e il presente, trasformando i frammenti estrapolati dalla realtà ordinaria in schegge di un senso ulteriore. La natura polifonica e stratificata della poesia di Pusterla si è raffinata nel corso degli anni, ma il nucleo originario è rimasto sempre intatto, e Concessione all’inverno (1985) segna con nettezza l’avvio. Dialogando con Sereni, Fortini, Orelli, Montale («Sul muraglione di Satura mi sdraierei senza paura» ha affermato l’autore), si sviluppa una tenace coscienza della parola e della sua funzione, come una chimica intrinseca alla tonalità dei versi, che assorbirà anche la lezione di Benn o Jaccottet senza perdere mai la sua caratura, la sua volontà. Nella poesia di Pusterla gli oggetti e il linguaggio cooperano per costruire ancore, così come evoca la struttura di Le parentesi. Il percorso è netto: Bocksten (1989), Le cose senza storia (1994), Pietra sangue (1999), Folla sommersa (2004), Corpo stellare (2010), Cocci e frammenti (2011) sono tutte raccolte in cui si perfeziona progressivamente la capacità di raccogliere ciò che si vede e ciò che si sente per innestarlo in una parola che aderisce agli oggetti, ma trasmette anche le visioni, che porta con sé il reale interrogandolo. La scrittura si arricchisce di misure metriche varie, di inserti prosaici e dialogici, di termini stravaganti che affiancano quelli ordinari e quelli di tradizione lirica, di combinazioni tra sequenze descrittive e lampi epifanici. Negli ultimi libri questa stratificazione stilistica si concentra sull’attenzione al frammento: il brandello di vita diventa scheggia di storia, la traccia reperita da una singola persona in un singolo luogo può illuminarsi dell’esistenza collettiva e testimoniare («In ognuno la traccia di ognuno» recita un verso di Primo Levi citato da Pusterla in una recente intervista), riuscendo a unire senza forzature la dimensione esistenziale dominante e quella civica. (M.B.)
Immagine: Ritratto fotografico di Fabio Pusterla.
La rubrica “I poeti leggono se stessi” ha già ospitato:
Mario Benedetti, Milo De Angelis, Franco Buffoni, Umberto Fiori, Patrizia Valduga, Valerio Magrelli.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).