«Fra te dirai: “Cosa vuole costui, che ne sa lui dell’infinità che c’è dentro di me!”, infatti sai che l’altro è sempre infinitamente meno importante dell’io. Ma sono gli altri che fanno la storia. Scusami tanto, ti abbraccio e ti saluto da parte dei miei. Pier Paolo». Destinataria della lettera, all’inizio del 1947, è Giovanna Bemporad, amica di Pasolini dagli anni del liceo Galvani, compagna di letture e scritture negli anni della Resistenza, quando fu chiamata a insegnare latino e greco alla “scuoletta” di Versuta, organizzata dal poeta con la madre in fuga dai bombardamenti, per gli alunni che non potevano raggiungere le scuole in città. Lo sforzo creativo di quegli anni si condensò per Pasolini nel ciclo de La meglio gioventù, per la Bemporad negli Esercizi. Nel 1954 La meglio gioventù chiudeva i conti con l’esperienza poetica dialettale, raccogliendo tutto il materiale friulano a partire dalle folgoranti Poesie a Casarsa di dodici anni prima, mentre solo tre anni più tardi Pasolini avrebbe pubblicato Le ceneri di Gramsci, sancendo la svolta “civile”. Gli Esercizi, del 1948, contenenti «alcuni tra i versi più belli scritti in italiano in questi ultimi anni» (così Pasolini dopo l’uscita del libro), sospesi tra d’Annunzio, Leopardi e il simbolismo francese, rimasero invece il solo libro della Bemporad, ristampato con aggiunte nel 1980 e di nuovo, con altri innesti, nel 2010. Se la Bemporad insomma rimase cristallizzata nel modello della poesia «esistenziale», come lei stessa fino agli ultimi giorni l’ha definita chiamando al suo fianco il Pasolini delle Poesie a Casarsa, Pasolini provò, trovandola, un’evoluzione: dall’«io» all’«altro». L’evoluzione poetica andò di pari passo con quella personale e politica. In una conversazione con Jon Halliday, lo scrittore affermava: «Nell’immediato dopoguerra i braccianti erano impegnati in una massiccia lotta contro i grandi proprietari terrieri del Friuli. Per la prima volta in vita mia mi trovai, fisicamente, del tutto impreparato, e questo perché il mio antifascismo era puramente estetico e culturale, non politico. Per la prima volta mi trovai di fronte alla lotta di classe, e non ebbi esitazioni: mi schierai subito con i braccianti. I braccianti portavano sciarpe rosse al collo, e da quel momento abbracciai il comunismo, così, emotivamente. Poi lessi Marx». Quell’antifascismo «estetico e culturale» era il solo possibile per una generazione, nata all’inizio degli anni Venti, che non poteva accorgersi del fascismo, «come un pesce non si accorge di trovarsi nell’acqua». La complessità di quel momento storico, per quella generazione, è stata analizzata con chiarezza anche da Roberto Roversi, in uno scritto pubblicato nell’antologia Pasolini e Il Setaccio (Cappelli, 1977). Tra il 1941 e il 1943, sotto l’egida della Gil di Bologna, proprio la rivista giovanile «Il Setaccio» diede occasione a Pasolini di esprimere quel primo antifascismo. Come scrive Mauro Bignamini, fu «un’esperienza breve ma caratterizzata da una coraggiosa apertura europea e dal fiancheggiamento dell’ermetismo, con le sue scelte di individualismo e di vita appartata, in polemica con la retorica di regime. Su una rivista di analoga ispirazione, “Architrave”, il giovane Pasolini dichiarava [nel ’42, NdA]: “Ci sembra che solo chiudendoci in noi stessi, nella nostra solitudine più dolorosamente umana, potremo di noi infine dare una compiuta immagine”».
In una lettera a me indirizzata, un altro amico degli anni bolognesi, Luciano Serra, ricorda il periodo de «Il Setaccio», a cui pure collaborava. Nell’articolo «Ragionamento sul dolore civile, che evidentemente parte da un saggio di Giuseppe Bottai (l’allora ministro della Cultura, NdA) apparso su “Primato” dove si diceva che la giovinezza è “conquista di una solitudine interiore”», Pasolini «parlava di giovinezza come “ansia che ci macera” e di “confini familiari alla nostra sofferenza” e “memoria che s’infutura nel dolore”. Trasferiva dunque l’esistenzialismo nell’angoscia poetica passando alla pedagogia»; ciò «si rifletterà poi nell’avversione all’omologazione».
L’esistenzialismo fu per Pasolini prima un sentimento che una questione culturale. Le lettere agli amici (Serra, Roversi, Leonetti, Bemporad, Farolfi ecc.) e i «Quaderni rossi» dai quali uscirono Atti impuri e Amado mio – i romanzi a sfondo autobiografico del periodo casarsese – sono fitti di brani estetizzanti e decadenti, che non sfigurerebbero accanto al Sartre della Nausea.
Nell’ottobre 1946 scriveva a Silvana Mauri, nipote di Valentino Bompiani: «avevo finito col non credere più a nulla che non fosse l’hic et nunc del mio esistere, avevo finito coll’attribuire un’importanza immensamente più grande a una mia unghia che a qualsiasi altra entità che si trovasse fuori di me; […] il male era che restavo convinto della validità filosofica del riporre l’unica fiducia nella mia esistenza […]. Rimessomi in contatto col mondo vidi che era già stato pensato tutto quello che avevo pensato io, e che c’era già un nome “esistenzialismo” il quale (ma quanto genericamente!) poteva adattarsi al mio caso. Ci feci un riso un po’ amaro e cominciai subito a guarire». Poi le chiedeva di procurargli l’Introduzione all’esistenzialismo di Abbagnano e L’io e il mondo di Berdjaev.
Della guarigione abbiamo detto – passò per il marxismo, e poi per il gramscismo. Ma quanto alla malattia? La guarigione stessa chiese molto tempo per compiersi, se ancora l’11 marzo del 1947 Pasolini confidava alla Mauri di aver «passato delle macabre giornate su noiosissimi libri e tremende dispense “idealistiche”. La tesi che ho estorto al Battaglia – continua – è però bella: “I rapporti tra esistenzialismo e poetiche contemporanee”». La tesi cui si fa riferimento è relativa all’iscrizione al IV anno della facoltà di filosofia subito dopo la laurea in lettere nel novembre del ’45. Data l’insofferenza per la materia, come emerge chiaramente dalle parole di Pasolini, si fatica a comprendere le ragioni della scelta. Certo è che l’argomento «estorto» al Battaglia doveva valere molto, o almeno abbastanza da rendere sopportabile l’intero piano di studi.
Nella primavera del ’43, consigliandogli la lettura del volume coevo L’esistenzialismo, di Enzo Paci, scriveva all’amico Farolfi: «I filosofi non mi interessano affatto se non in certi brani poetici. Non trovo nulla di più vano e doloroso che prendere a prestito un linguaggio usato da secoli e servirmene per una nuovamente astratta costruzione filosofica. […] L’unica filosofia che io senta vicina a me è l’esistenzialismo, con il suo poetico (e ancora vicinissimo a me) concetto di “angoscia”, e la sua identificazione esistenza-filosofia». Il libro di Paci rimane tuttora, fitto di segni e sottolineature, nella biblioteca di Pasolini (prima custodita a Roma dalla cugina Graziella Chiarcossi, ora trasferita all’Archivio «A. Bonsanti» di Firenze). Paci aveva già pubblicato nel ’40 un’antologia dell’opera di Nietzsche, familiare a Pasolini, per il quale gli scritti del filosofo costituirono una lettura di qualche valore se lo cita ancora a distanza di anni nell’articolo Il Friuli autonomo (1947), con un brano dal saggio Il significato storico dell’esistenzialismo (1941). Con Abbagnano, Paci promosse nel ’43 un importante dibattito intorno all’esistenzialismo su «Primato», rivista “di fronda” diretta dal ministro Bottai, che nello stesso anno rifiutò la recensione di Contini alle Poesie a Casarsa (l’articolo uscì poi sul «Corriere del Ticino» il 24 aprile). Pasolini era un assiduo lettore di «Primato» – sede di un altro dibattito cruciale nel 1941, sul nuovo romanticismo – e di «Architrave», rivista del Guf di Bologna, dove scrisse e dove scriveva regolarmente anche Paci.
Nel suo ruolo di fronda al fascismo, nel denunciare la crisi (o il decadentismo, per citare un libro di Bobbio del ’44) dell’epoca, stava l’importanza dell’esistenzialismo italiano, in questo senso «positivo». Analogamente si è espresso Enzo Siciliano nel suo Vita di Pasolini: per il giovane poeta la lettura del libro di Paci «poteva contribuire a una maturazione morale in cui fosse compreso un giudizio negativo sul regime politico del Paese. Il pensiero esistenzialista arrivava a mettere a nudo il “punto acerbo” del vivere, di là da ogni trionfalismo e vitalismo».
Pasolini non scrisse mai quella tesi su «I rapporti tra esistenzialismo e poetiche contemporanee», o perlomeno non se ne è mai avuta notizia; e il corso fu abbandonato senza che sia rimasta la traccia anche di un solo esame – che fosse avvenuta la guarigione? All’Archivio contemporaneo «A. Bonsanti» di Firenze è conservato tra le carte di Casarsa (con titolo provvisorio Esistenzialismo e comunismo e la notizia di una seconda parte mai composta) l’originale del saggio In margine all’esistenzialismo, del 1946. Nient’altro di inerente all’argomento di tesi, eccetto delle pagine inedite intitolate Se la pittura odierna possa stimarsi un genere poetico (ne ho parlato, citandole ampiamente, sul Corriere della Sera, 16 gennaio 2013, p. 32), dove si osserva Pasolini lavorare sulla relazione poesia-teologia. «Una così spirituale concezione della poesia, pensata appunto, come mezzo di conoscenza, non poteva che indurre il Maritain a esclamare: “Dio. La poesia”, pur riconoscendo che, infine i poeti, seguono la legge della poesia, non quella di Dio (“considerano le esigenze della legge di Dio come un ostacolo alla loro libertà creatrice”). Ad ogni modo tutto questo mi sembra più intimamente vero di quanto il Du Bos in Letteratura e vita scrive sullo stesso argomento, spiegando la poesia come pratica esperienza chiarificatrice […] [e] infine, trattandosi di trovare un senso più profondo (quello che Maritain trova nell’intimità dell’io), ritorna al vecchio dualismo, e all’irrazionale, cioè all’inaccettabile: la poesia come riflesso della cattolica luce di Dio». Le pagine proseguono con un discorso sulla pittura, letta nella dicotomia pittura pura-pittura poetica. Un esempio di quest’ultima arriva da Van Gogh. Così Pasolini: «[di fronte alla pittura di Van Gogh] il sentimento è certamente più poetico che pittorico. Noi cogliamo subito quello che egli ha voluto darci, cioè della lirica. Una lirica, o un brano di diario, che nella “Camera dell’artista” vogliono esprimere una desolata solitudine, un orrore dell’essere soli: viene in mente il Poe che pone ad epigrafe di un suo racconto un brano del [Simposio]: “Se stesso, soltanto se stesso, uno eternamente (e singolo)”. In realtà quella cameretta è un faro situato, e volutamente, alle sorgenti dell’essere, nel luogo ancora inesplorato e terribile che è dentro di noi». «Ed è così che l’infinito della nostra solitudine interiore si riconosce nell’opera d’arte».
La tesi su Pascoli, con cui Pasolini si laureò sul finire del ’45, fu una (brillante) soluzione di riparo dopo il progetto abbandonato di una laurea in storia dell’arte con Roberto Longhi. Cassate due prime proposte, Gioconda Ignuda e Pomponio Amalteo, Longhi accettò una terza, sulla pittura italiana contemporanea. Scritti dei brevi capitoli su Carrà, De Pisis e Morandi, Pasolini li perse in fuga verso Casarsa dopo l’8 settembre: era stato chiamato alle armi poco prima dell’Armistizio, e disertando mise in atto quella che chiamò la sua «prima azione di resistenza».
Il materiale relativo a quelle due tesi “extra-letterarie” è andato perduto o, come dicevo, in un caso addirittura non fu mai elaborato. Con un volo d’immaginazione possiamo però minimamente intuirne il taglio, leggendo quelle pagine inedite su poesia, filosofia (teologia?) e pittura.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).