Emilio Isgrò, I funerali di Corrao

da | Mar 28, 2014

Non è il volume d’esordio de ‘i domani’ – a precederlo, inaugurando la recente collana di Nino Aragno a cura di Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno, è il commemorativo Ma dobbiamo continuare. 73 per Elio Pagliarani a un anno dalla morte (a cura di Cortellessa) –, però a tutti gli effetti può esserne il libro guida. I funerali di Corrao di Emilio Isgrò è dedicato all’eponimo Ludovico, suo amico e “committente speciale” (accenno più avanti il senso del virgolettato), deputato regionale della Dc negli anni Cinquanta, poi senatore comunista e per vent’anni sindaco di Gibellina, Sicilia (si ricordi che Isgrò è nato a Barcellona Pozzo di Gotto, provincia di Messina). Movente del poemetto (trecentododici versi) è la tragedia consumatasi il 7 agosto 2011 nella sede della Fondazione Orestiadi: lì, il fondatore, Ludovico Corrao appunto, ottantaquattrenne, malato, fu assassinato da Sayfùl Islam, suo badante, un ventunenne di origini bengalesi poi dichiarato dal Gip di Marsala incapace di intendere e di volere, e dunque destinato a un ospedale psichiatrico.

Sono versi scritti a caldo (nel corso dell’agosto 2011) dietro la notizia dell’omicidio, quasi fuori della letteratura, quasi urlati, composti – scrive Cortellessa nella prefazione – «sul palinsesto delle Ceneri di Gramsci di Pasolini (pseudo-terzine di pseudo-endecasillabi), depurando quel modello degli inturgidimenti retorici carducciani (o dannunziani) che lo rendono oggi, alla lettura, splendidamente indigeribile».

La brevità del testo è compensata, anzi arricchita, dalla densa e utile prefazione e dall’intervista del curatore, posta in chiusura, alla figlia di Corrao, Francesca Maria, docente di lingua e letteratura araba alla Luiss di Roma. Tutto il peritesto si avvita intorno alla questione, centrale nel poemetto, del futuro, del domani: chiuso o aperto? Superate le premesse tese a cantare, celebrare e giudicare il passato, la dimensione viene resa esplicita e rimane aperta.

Simbolo del futuro, dentro e fuori quest’opera di Isgrò, è il seme (sul piazzale della stazione di Barcellona Pozzo di Gotto si vede il suo Seme d’Arancia, una scultura di sette tonnellate in tufo, scorie vulcaniche e resine). Rievocando il passato lontano, l’autore recita:

Sono venuto a stringere la tua mano
dopo che m’hai chiamato dalla clinica romana
dove t’avevano bloccato i polsi

per quella intollerabile cirrosi
che condannò un astemio impenitente
a trasfusioni lente, senza mai guarire.

Avevi la voce stanca, un sussurrare
di verbi regolari e di parole spente.
“L’Orestea mi dicesti, “il nostro seme…”.

L’ingresso in scena dell’artista scioglie i polsi del politico, lo rende un novello Pericle («mio piccolo Pericle impazzito») e apre al mondo le porte del futuro: «“L’Odissea” ti risposi, “il nostro impegno / per il futuro delle nostre genti…” / E allora tu guaristi in un baleno, // saltasti giù dal muro nella nebbia dei farmaci / e ti mettesti all’opera…». Ma il mondo spesso chiude gli orizzonti umani:

Un tempo rappresentammo il mondo.
Ora è il mondo che rappresenta noi.
Parlo di noi artisti, dei poeti traviati.
[…]
Siamo stati buffoni recidivi
quando essere artisti e comici e teatranti

ci dava il destro di rappresentare
il mestruo dei dannati, mentre oggi siamo noi
a essere citati, dipinti, massacrati.

Così, nel volgere di un tempo breve, i polsi tornano a paralizzarsi: «Io ti lego le mani perché tu / non le faccia andare a casaccio nell’aria, // magari per la rabbia, e al sacrilegio / non si sommi la rendita e l’oltraggio». E al destino delle mani segue quello degli occhi; si apre in questo modo il poemetto: «Sono venuto a chiudere quest’occhio. / Quest’occhio che vide le rose, ma non l’assassino. / Quest’altro è semichiuso, non lo tocco», e così si chiude: «Sono venuto a chiudere l’altro occhio. / Non perché tu dorma, ma solo / per impedirti di vedere il mostro». Il mondo spesso chiude gli orizzonti umani – scrivevo – e quella piccola parte di mondo che è l’Italia impone logiche ancor più stringenti. Ecco il finale dei Funerali, amaro e insieme scolpito da un purissimo lirismo:

Io ti serro la bocca perché oggi

il tuo silenzio pesa più del tuono.
E del resto lo sai, amico buono,
mia titubanza storica, mia carità infinita.

Non t’ha ucciso Sayfùl, non t’ha ammazzato l’aria.
T’ha ucciso la Sicilia per conto dell’Italia.

La Fondazione Orestiadi, oggi a rischio di chiusura, si inseriva nel 1981 in una serie di iniziative sociali, culturali, economiche, volte a risollevare Gibellina dalla distruzione del 1968 – anno del terremoto del Belice – e non solo: a ricrearla, a ridarle nascita e vita sotto il segno dell’arte contemporanea (negli anni successivi al terremoto, Corrao chiamò sull’isola emigrati d’eccezione come Leonardo Sciascia e Carlo Levi, ma anche “forestieri” come Dario Fo, il quale recitò il suo Mistero Buffo nelle baracche dei terremotati).

Tra le opere artistiche che costellano Gibellina, spicca senz’altro il Grande Cretto di Alberto Burri, installato sulle rovine della città vecchia. Sulle stesse rovine, nei primi anni Ottanta, commissionata da Corrao a Isgrò, veniva messa in scena l’Orestea di Gibellina, «cioè di una Sicilia piuttosto bizzarra, anzi proprio surreale. Il sindaco Ludovico Corrao stava innestando sull’identità arcaica del paese, non senza attriti, la modernità artistica più spregiudicata» (così Cortellessa conversando con l’artista delle Cancellature, in «La Sicilia incancellabile», alfabeta2, n. 11, luglio-agosto 2011). Isgrò torna sull’Orestea nei versi dei Funerali:

È di trent’anni fa il giro delle rondini
nere che sfrecciano per la calura estiva
come se fosse un venticinque aprile

in terra sconsacrata.
E Ludovico, asciutto come un lume
senza petrolio, sale per la strada

che lo riporta a noi con la cassata
per Egisto, Agamennone e Cassandra
che aspettano la paga per cantare.

E soldi non ce n’è, e non c’è pìcciuli.
Né pìcciuli né màsculi in dissesto.
Nessuno ce ne dà, neanche Cristo,

per mancanza di fondi e melanzane.

L’immagine delle rondini è ripetuta una ventina di pagine dopo («Tutto previsto, anche il desiderio / di essere in combutta con le rondini»), come si ripete a trent’anni di distanza lo stesso problema dei finanziamenti, che è poi il problema del riconoscimento da parte delle istituzioni del fermento culturale – oltre che del patrimonio artistico – che definisce e identifica da millenni la nostra terra. Dopo la morte di Corrao, la Fondazione Orestiadi è passata nelle mani della figlia. Nell’intervista che chiude il libro, rispondendo alla mancanza di immaginazione della società e dell’imprenditoria italiana contemporanee, Francesca spende parole importanti sulla capacità creativa del padre nel reinventare dopo il terremoto la città di Gibellina: «ha messo al centro del suo progetto l’essere umano e la sua creatività. Dalla morte e dalla distruzione ha creato la vita. “Gibella del Martirio”, come la chiama Emilio, esalta la sofferenza ma non in senso tragico-negativo bensì come molla di trasformazione: il seme che si spacca per sprigionare vita».

[Emilio Isgrò, I funerali di Corrao, Nino Aragno editore, Torino 2013]

Immagine: Emilio Isgrò, Costituzione delle api, 2010.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).