Di Giovanni Turra
In rapporto al mito, sono senza dubbio emblematici i sentieri di avvicinamento tentati, a partire dagli anni Ottanta, da autori quali Fernando Bandini, Alessandro Fo, Ida Valerrugo, Valerio Magrelli e Umberto Fiori, la cui poesia è stata approcciata per tappe successive, secondo angoli visuali divergenti, su queste stesse colonne nel corso del 2015. Riannodati i fili di quel racconto che, giunto in prossimità delle ultime generazioni, era sembrato interrompersi bruscamente, si procede ora a una rassegna – certamente parziale – dell’opera di alcuni autori nati negli anni Settanta e Ottanta, tesa una volta di più a misurare l’incidenza dei greci e dei latini nella poesia italiana recente. Anche presso i poeti più giovani, si registra un numero considerevole di riprese e attualizzazioni non troppo vaghe di topoi classici: il mito di Ecate è alluso da Tommaso Di Dio in Tua e di tutti; alla tragica vicenda di Antigone si ispira Tribunale della mente di Corrado Benigni; Giulia Rusconi ripropone ne I padri il motivo dello sparagmòs. Oltre a essere un sostantivo e una possibile invocazione, in Di Dio, Benigni e Rusconi «mito» è soprattutto sinonimo di mistero: ne avvertono l’incombere, ne annunciano la necessità, ne dichiarano il rigore. E si spingono anche oltre: è professata, nei loro testi, la fede in uno sguardo che, portandosi al di là del visibile, permetterebbe di passare da una presa d’atto accorata e risentita, a un’allucinazione rivelatrice e salvatrice. È questo il motivo per cui, nei loro testi, circolano annunci preparatori e lacerti di rivelazioni: recuperando forme confuse e mezzo cancellate di profezie oracolari, alla poesia è nuovamente dato di afferrare orizzonti che afferiscano a un senso. Il desiderio ansioso di ascoltare e raffigurare sulla pagina il presente che ci è toccato in sorte è comunque destinato a compiersi, sia pure per inciampi, balbettii, rinvii e procrastinazioni.
«Tutto il bene della terra»: l’iniziazione ai misteri di Ecate in Tua e di tutti di Tommaso Di Dio
Tua e di tutti (LietoColle, 2014) è il De reditu suo di Tommaso Di Dio (Milano, 1982). Il viaggio intrapreso dal poeta è, in buona sostanza, il ritorno dal logos al mithos: «L’immagine rovesciata che ritorna in me / di un me dal volto di corteccia / staccata di betulla […]» (p. 77). Nel libro la reversione si attua per via di somiglianza: ciò che viene annunciato è come fosse sempre introdotto da un «come». Questo bisillabo è la moneta da offrire a Caronte perché ci traghetti sulle acque che separano due tipi di linguaggio: quello diurno dei viventi e quello oscuro dei defunti. In Tua e di tutti, lo psicopompo è il giovane ragazzo down che distribuisce giornali: «Tiene il conto / dei minuti che mancano, perché arrivi / il pullman che ti scacci nella città / verso un lavoro altrove» (p. 15). Con «logos», «diurno» e simili non ci si vuol riferire al mondo quotidiano, bensì a una visione letterale del mondo, in cui le cose sono prese per come appaiono, in cui non è vista in trasparenza la loro mortale ombra notturna. Questo stile diurno del pensiero (fatto di realtà sequenziali e dualismi di opposti) dev’essere per intero accantonato, se vogliamo delibare la poesia di Di Dio. Leggiamo infatti:
E lei è lì; prega
storta e disancorata. Sempre lei
balla cade offende, fa di tutto perché mai tu
l’ameresti così come ora l’ami
tua e di tutti, questa
vita reale più ricca e sgualcita
dal niente che non l’abbandona. (p. 27)
Il ritorno attraverso la somiglianza è anche la via maestra per ritrovare un ordine nella confusione che ci agisce intimamente. Per quanto riguarda i fenomeni psichici, è il mondo infero l’elemento mitico e mitologico cui riandare. In Psicologia e alchimia, Jung lo dice chiaramente: «Il timore e la resistenza che ogni uomo naturale prova quando scava troppo a fondo in se stesso sono in ultima analisi la paura del viaggio nell’Ade». Nel libro di Di Dio è scritto: «A cosa ci porta questa nostra / ignuda natura; una cosa arcana» (p. 29); «C’è una vita / nella vita che ancora non ha / trovato un nome» (p. 30). Assumere con Jung la prospettiva mitica, sostenere cioè che gli eidola del mito vengono prima di tutto, significa che la coscienza diurna inizia sempre nella notte e della notte reca su di sé le ombre. Significa inoltre prendere la direzione del passato e della morte. Di Dio se ne dimostra consapevole: «Tutto questo / essere stati non basta / bisogna ripetere tutto, capitolare. / Bisogna pagare» (p. 41); «Ci sono state / grotte torri civiltà. Ma bisogna / arretrare ancora. Bisogna cercare.» (p. 81) Attenzione, però: la morte fisica, intesa come cessazione della vita, non è lo sfondo del lavoro di un Poeta con l’iniziale maiuscola. Questo tipo di morte attiene, ancora una volta, al punto di vista della lettera. La poesia di Di Dio piuttosto è consustanziale con una coscienza che acquista autonomia soltanto quando le idee diurne sono messe a tacere. «Morte» è il modo più radicale di esprimere questo slittamento della coscienza. Eccone alcuni esempi:
«E ogni mondo
a cui hai creduto come cosa salda e vera
è già di altri negli altri corpi
come una bufera che non riconosci più. (p. 19);
Lingua morta
che nelle cose vive alberghi e lasci
la tua crepa come uno stigma; fa’ che io possa
mettere la testa tutta dentro
che io vi spinga
battendo reni cosce e petto un pugno
di gioia terrena. (p. 23)
Che mostrino le cose
come un vanto la loro
opaca maniera; non altra sia
l’incandescenza. (p. 25)
Anche il modo in cui Freud descrive das Es rimanda al retroterra del pensiero mitologico, in cui erano spesso usati termini eufemistici e apotropaici per indicare Ade e la sua Casa: si usava infatti il nome di Plutone («ricchezza») o quello di Trofonio («colui che nutre») per coprire la spaventosa profondità di Ade. Già in antico Ade deriverebbe invece da ἀ- privativo e da ἰδ-, una radice del verbo greco «orao», «vedere»: Ade sarebbe dunque l’«invisibile», l’«oscuro». (Allo stesso modo, oggi l’inconscio è detto «creativo», per nascondere i processi di distruzione e di morte in atto negli abissi dell’anima.) Ade dunque non è un’assenza, è una presenza nascosta, una pienezza invisibile: egli è ricco e dà nutrimento all’anima. Scrive Di Dio: «Io voglio capire / come splendono per la terra oscura / tante vite» (p. 48); «Illumina tu / governa. Reggimi terra / fin che puoi» (p. 61) (parodico e capovolto rispetto all’Angelo di Dio). Das Es, scrive ancora Freud, «non può dire ciò che vuole»; allo stesso modo, nel mondo infero della mitologia i morti possono parlare solo per bisbigli. In Ovidio (Met., V, 356) e in Virgilio (Aen., VI, 264, 432) i morti sono chiamati «muti», e il loro eloquio è un bisbiglio. Anche nei moderni: il «bobòk» onomatopeico dell’omonimo racconto di Dostoevskij è l’ultima emissione vocale dell’individualità, l’ultima esaltazione di una coscienza che abbandona la vita e che si spegne; in The hollow men di T.S. Eliot, gli «uomini vuoti» nella «terra morta» dicono di sé: «Noi brancoliamo insieme / evitiamo di parlare». Impossibilitati a parlare, in Di Dio i morti «ci rendono/ al monologo; all’impossibile / storia del vero» (p. 24). E altrove: «Le radici salgono, si disgregano / crescono, vanno / verso il centro esatto, verso il punto / d’invisibile male dentro // la distruzione del fenomeno» (p. 59). Il regno di Ade è contiguo alla vita, la tocca in ogni suo punto; alla vita esso conferisce profondità e, quindi, anima. Poiché nel mondo infero il tempo non esiste, non è lecito concepire il mondo infero come un mondo «dopo» la vita. La casa di Ade è un regno animico del presente, non un regno escatologico del futuro. Non è un remoto luogo di giudizio delle nostre azioni, ma fornisce il luogo per giudicare ora, e dal di dentro, le nostre azioni. Tale simultaneità di mondo infero e mondo quotidiano è rappresentabile immaginando una perfetta coincidenza di Ade e Zeus, entrambi figli di Chronos. La fratellanza di Zeus e Ade dice che mondo di sopra e mondo di sotto si corrispondono perfettamente, solo la prospettiva è diversa. L’universo è dunque uno e uno solo, coesistente e sincrono, ma lo sguardo di Zeus lo vede dall’alto e attraverso la luce, quello di Ade dal basso e nella sua oscurità. (Le trincee, d’altra parte, un verso di Apollinaire le chiama «soeurs profondes des murailles».) Ogni cosa diventa allora più densa e scura, muove dai nessi visibili ai nessi invisibili, lascia a poco a poco la vita per la morte. Al riguardo, in un suo frammento Eraclito afferma: «La trama nascosta è più forte di quella manifesta». Vale a dire che il visibile, ciò che è soltanto naturale, non soddisfa mai l’anima. L’anima deve voler andare oltre, sempre più addentro, sempre più in profondità. Per giungere alla struttura fondamentale delle cose, occorre penetrare nel loro buiore: «La natura ama nascondersi» recita un altro frammento di Eraclito. L’anima, mentre procede verso il basso, «fa anima»: l’approfondimento è il suo moto primario, con il che accresce la propria dimensione. Nient’affatto speciosa, dunque, la distinzione operata da Di Dio, secondo cui «nascere non è generare» (significativamente nell’explicit). L’impulso a cercare sotto le apparenze per giungere alla trama invisibile, alla struttura nascosta, conduce al mondo che sta dentro a ciò che si dà immediatamente ai nostri sensi. Nel Cràtilo, Platone descrive questo impulso come il desiderio proprio di Ade. È anche l’impulso della mente analitica, la quale fa anima dissezionando le cose (oggetti, situazioni, stati d’animo): essa infatti opera per distruzione, attraverso i processi di dissolvimento, decomposizione, distacco e disgregazione. Non a caso, nella poesia di Di Dio, alcune scene si costruiscono per dettagli all’apparenza irrelati e giustapposti: «Tintinnare di bicchieri. / La sedia che striscia e s’alza / lo zigomo la faccia di chi / ancora io non so» (p. 54); «[…] tetti e moltitudini, albero / paracarro cane volto città» (p. 57). Un modo per attingere il senso «sottostante» consiste dunque nel deformare il senso «abituale»: l’immaginazione poetica non è infatti la facoltà di formare immagini; essa semmai è la facoltà di alterare le immagini offerte dalla percezione, di liberarci dalle immagini immediate. A questo fine, Di Dio opera anche una destrutturazione della sintassi consueta. È possibile allora che il senso latente dell’immagine emerga d’un tratto dal sudario che avvolge i nostri contenuti grammaticali, in una resurrezione epifanica. D’improvviso l’orecchio coglie anche nelle parole più fruste un senso nuovo; si pensi all’uso transitivo di «scorrere»: «l’ammasso / d’alberi e vento che dentro te/ scorre vene» (p. 37; corsivo mio). Gli egizi prima dei greci avevano descritto con minuzia estrema il mondo rovesciato che sta sotto di noi. I morti vi camminano a testa in giù e piedi in su. Il che comporta la spiacevole conseguenza che gli escrementi arrivano alla bocca. Ma ciò che dalla prospettiva del giorno è solo escrementi, ammonisce Di Dio, nel mondo capovolto diventa cibo per l’anima: «Ancora quel nero / corpo osceno di qualcosa che non è / tuo» (p. 21). Questi avanzi possono ben riferirsi alle immondizie domestiche offerte in sacrificio a Ecate, signora delle ombre e degli incubi notturni. Fin dai tempi antichi, Ecate è coinvolta nell’interpretazione dei sogni. Ne viene quindi che il sogno è fatto di rimasugli (residui diurni, li chiama Freud); e questi torsoli e detriti appartengono alla dea che rende sacri i cascami della vita. In Tua e di tutti, dietro un supermercato, «ci sono casse verdi o grigie che contengono / ciò che si scarta […] contengono / tutto il bene della terra». Una riedizione di Ecate, un’anziana signora con un berretto rosso sulla testa, fruga nella spazzatura con circospezione, «cercando / cercando» (p. 55). Non si butta via niente, tutto serve. Il ciarpame dell’anima è fin dai primordi salvato dalla benedizione di Ecate; persino lo spreco che facciamo di noi stessi può essere ricondotto a Lei. Di Dio lo sa bene: «Sgorga / un tubo da terra una lacrima dal buco / qualunque del corpo che s’aggira qui / nella piazza […]» (p. 50). Una vita sconclusionata e piena di problemi o, meglio, con le parole di Tua e di tutti, «storta e disancorata» (p. 27), è l’iniziazione ai misteri di Ecate. Come Caronte, le cui maniere sono brutali, il cui aspetto è incolto e schifoso (così lo descrive Virgilio nel VI dell’Eneide), anche noi siamo usi a degradarci. Così facendo, ci riesce di abbassare la guardia e di muovere, come mendichi, verso il mondo infero e le ombre che lo popolano. Ombre del Regno dei Morti sono anche gli animali, che di frequente si accampano nella poesia di Di Dio (a p. 20 occorre animale, a p. 57 cane e bestie). Come nei sogni, essi non sono immagini di animali, ma immagini come animali. Il poeta ci mostra insomma che il mondo infero ha fauci e artigli. Il minimo che possiamo fare è riservare a questi animali il primordiale rispetto dell’uomo delle caverne, che disegnava al buio, faccia alla parete. Tutt’al contrario di Eracle, che nella Casa di Ade sguaina la spada, tende l’arco, ferisce Ade alla spalla, sgozza armenti, spezza le costole al mandriano, strozza e incatena Cerbero. Mancandogli l’intelligenza metaforica che si acquisisce lavorando con le immagini, Eracle sbaglia tutte le mosse, e quelle che compie sono violente. Senza intelligenza metaforica, ciascuna cosa è soltanto quella che è ed è affrontata al livello più semplice e diretto. Soprattutto, ci insegna Di Dio, senza intelligenza metaforica non si dà poesia. Le ombre fuggono all’arrivo di Eracle, dileguandosi come i sogni nella mente diurna. Occorrono invece caverne vaste e attenzione amorevole. Allora gli animali verranno e ci racconteranno di sé, e a noi sarà dato di poter ridire quanto è sepolto nella terra più scura e nelle tenebre.
Antigone Vs Creonte: le impossibili assoluzioni di Corrado Benigni
Il mito di Edipo e dei suoi figli costituisce il soggetto di molte tragedie nel corso dell’intera produzione attica. Gli argomenti principali su cui si focalizza la drammatizzazione sono sostanzialmente due: l’incesto tra Edipo e Giocasta, e la contesa tra i figli di Edipo (Eteocle e Polinice) per il regno di Tebe. Spetta però a Sofocle il merito di aver introdotto le figlie di Edipo sulla scena e di aver attribuito a entrambe, ma soprattutto a Antigone, una personalità distinta e un ruolo definito: infatti, là dove la figura di Edipo è dominante, Antigone e Ismene sono chiamate a svolgere ancora il ruolo di figlie; in assenza del padre invece, le sorelle assumono la difesa dei diritti del sangue nei confronti dei fratelli, come avviene per Antigone nell’omonima tragedia. Il nodo nevralgico dell’Antigone è costituito dall’interdizione posta da Creonte, fratello di Giocasta, alla sepoltura di Polinice, reo di aver assalito con le armi la propria patria. I problemi che ne derivano sono molti e complessi: la colpevolezza di Polinice nei confronti della sua città, il rispetto verso le leggi sancite ab aeterno dagli dei e di quelle promulgate in nome della polis, la sacralità della polis stessa e, infine, l’onore dovuto al cadavere. In Sofocle, la responsabilità di Polinice non è messa in dubbio, ma la sostanza della discriminazione, e cioè il divieto della sepoltura, assume un rilievo eccezionale; il che mette in crisi l’autorità stessa della polis e delle sue leggi. Nell’Antigone, dunque, il dramma è tutto interno alla città di Tebe: è il dramma della città e della famiglia, della polis e dell’oikos. La famiglia chiede alla città la restituzione di un corpo che le appartiene, perché sia consegnato alla pietà dei parenti; la città chiede alla famiglia di rispettare il divieto, per non turbare lo stato di diritto. Spazio privato e spazio pubblico entrano in conflitto. Antigone si batte in nome di un comandamento morale, in nome di quelle leggi non scritte che le impongono di seppellire il fratello per onorare la pietas verso i morti. Creonte difende un principio giuridico con l’ostinazione di chi ritiene che nessuna legge morale possa elevarsi al di sopra della legge dello Stato. Entrambi hanno ragione: Antigone in quanto sorella, Creonte in quanto legittimo sovrano. Entrambi hanno torto: Antigone perché di fatto trasgredisce la legge, Creonte perché di fatto offende la pietà. Non c’è dunque via d’uscita, e Sofocle lo dimostra sacrificando entrambi i protagonisti all’inconciliabilità delle loro posizioni: fa morire Antigone e distrugge – con simbolico contrappasso – l’intera famiglia di Creonte. Cariche di soluzioni possibili, ma prive di risposte definitive ed esemplari, le domande suscitate dalla tragedia di Sofocle permangono a tutt’oggi. Diritto naturale e diritto positivo restano ancora inconciliabili. In Tribunale della mente (Novara, Interlinea 2012), Corrado Benigni (Bergamo, 1975) parte dagli interrogativi posti da Sofocle ne l’Antigone, com’è dichiarato a pagina 11: «Antigone, è vero quello che dicono? È vero? / Dove sono le prove?». Nel libro di Benigni, è lucidamente percepito che il Tribunale è il luogo in cui Dike, la dea della Giustizia che sguaina la spada, e Tisifone, la furia incaricata di vendicare gli assassinii, la cui testa è cinta di serpi velenosissime, si sovrappongono e coincidono: «Non c’è formula per capire o perdono / dentro la conta di questo tempo / che baratta innocenza per condanna, / spada per serpente» p. 48. Con altre parole, «chi legifera ha bocca rapace» (p. 55): la lex talionis dell’«occhio per occhio» (p. 27) non è mai stata abrogata. Sperimentatore del pensiero (di qui il titolo, Tribunale della mente), per ciascuna delle sue tesi, ancorché sostenute nei modi scorciati della poesia, Benigni trova e propone un’antitesi altrettanto convincente, e di nuovo torna al punto di partenza, alla domanda che tutti ci inchioda alla sbarra del Tribunale: «Cosa ci fa davvero responsabili?» (p. 29). Ne vengono a caduta i paradossi, le ellissi, le apofasi e litoti che s’incistano con insistita frequenza; del tipo:
«Quale crimine consumiamo senza commetterlo?» (p. 7);
«Sulle parole che non abbiamo detto
saremo giudicati» (p. 18);
«Quello che dici ti giudica» (p. 36);
«Non c’è colpa senza prova, qui
dove assoluzione e delitto hanno lo stesso movente» (p. 38).
Alle considerazioni giuridiche si mescolano dipoi quelle filosofico-morali, all’azione e al gesto il misticismo e il rimosso. Il lettore inevitabilmente comincia a confondersi, a stravedere. L’esito inevitabile è perciò l’ossimoro: «evidenza oscura» (p. 8). La scepsi, l’acribia dilemmatica conducono Benigni a tutta l’incertezza di chi si trova davanti a un bivio: una via conduce a disperare tanto degli uomini quanto del bene; un’altra invece è quella del pentimento e del ritorno alla fede dei nostri avi. Così il «cumulo di pietre» che campeggia a p. 78, forse d’ispirazione veterotestamentaria, rinvia, più in generale, alle tombe a camera in uso presso i popoli antichi: sopra una sepoltura o più sepolture, una specie di pinnacolo indicava la connessione fra terra e cielo, fra immanenza e trascendenza. Mucchi di terra e pietrisco intimavano il silenzio che chiama a giudizio e chiama il giudizio. Sospeso nel momento assoluto e veggente del giudizio, un mondo intero pronuncia qui la sua ultima parola. Vivi e morti, innocenti e criminali, l’ipotiposi della Legge e quella del Tribunale fanno ressa nella memoria di Benigni: «Perché come una voce inquirente / la memoria ci insegue?» (p. 64). Assembrandosi, queste apparizioni paiono scongiurare il poeta di liberarle dai residui della loro stessa vita. Perché ciò avvenga, occorre che lo svolgimento nel tempo si arresti nell’atto decisivo del giudizio: «atto antiumano, inumano» lo definiva Salvatore Satta, e a ben vedere privo di scopo. Ma a quest’atto senza scopo, intuendone la natura divina, gli uomini hanno destinato per intero la loro esistenza. In effetti, il rapporto con il numinoso («l’invisibile» di p. 51) è talmente radicato che il primo pensiero è quello di liberarsene. Ma Benigni sa che una liberazione del genere sarebbe illusoria. Aborrisce dalla giustizia di Roma, per cui «tutto è deciso al di qua / dove una mano lava l’altra» (p. 8); e non ammette l’idea che l’uomo affidato a se stesso, libero dalla paura di fronte all’ira divina e senza la prospettiva di una beatitudine ultraterrena, sia in grado di agire con rettitudine: «Esistiamo solo davanti a qualcuno che ci scruta da lontano» (p. 26). Chiaramente agiscono nella prospettiva assunta da Benigni leggende e miti del passato. Un abisso però ci separa da quelle narrazioni. Certo, sono molto belle, ma non sono dimostrabili. E il Tribunale è il luogo deputato ove si producono le prove. Non è dunque possibile davanti al Tribunale richiamarsi a tali leggende. È vano allora voler considerare l’assoluzione piena, che solo poteva essere attinta in quei miti per noi inservibili. Il mondo si divide così fra «assoluzione apparente» e «procrastinazione»: oggi, «nessuno sa più di chi è la colpa» (p. 37). «La legge è signora degli uomini e non gli uomini signori della legge», sentenzia Platone nella Settima lettera; e ci è richiesto non tanto di capire quanto piuttosto di assecondare l’ordine cui apparteniamo. Coerentemente con ciò e sottintendendo un celebre frammento di Pindaro («Nómos, re di tutte le cose, conduce con mano più forte giustificando il più violento», fr. 169), Benigni per l’appunto definisce gli uomini «figli della norma» (p. 76). E tuttavia, nell’ordine simbolico della Legge, sembra possa darsi una sconnessione, una fente, per quanto suggerita in forma dubitativa: «Un vizio di forma forse ci assolverà» (p. 38). Infine, è da porre in rilievo lo scambio ininterrotto di «vita» e «processo» nella poesia di Benigni. In poesia, metafora e lettera hanno talvolta lo stesso peso, ed è agevole il passaggio dall’una all’altra. Anzi, la metafora può prendere il posto della lettera e trasformare la lettera in metafora: che la vita sia un processo scandito da castighi può dare origine alla metafora della vita intera come processo giudiziario; ma poi il processo giudiziario può trasformarsi nella lettera. In Benigni, com’è negli autori più bravi, il passaggio dall’uno all’altro piano è continuo e inavvertito.
«Il pezzo mancante»: per un’interpretazione dello sparagmòs ne I padri di Giulia Rusconi
Ne I padri, il libro d’esordio (Atelier, 2012), Giulia Rusconi (Venezia, 1984) ripropone il motivo dello sparagmòs, il terribile sacrificio che, con lo smembramento, includeva anche l’ingestione di carni crude e sangue. Alla domanda «“Cosa te ne fai di tutti questi padri?”», l’io poetante risponde infatti:
li seziono gli scambio le teste
qualcuna fa fatica a staccarsi dal collo (p. 42).
Quanto all’omofagia, ecco quanto è riservato ai padri:
Ma io li aprirò li infilerò
uno dentro all’altro come
matrjoske e io la grandissima
li metterò tutti dentro di me. (p. 41):
Attinti dalla Rusconi forse sui banchi del liceo, più di altri Euripide e Virgilio vollero illustrare l’antico rituale cannibalesco: quello di Penteo, re di Tebe, nelle Baccanti; nelle Georgiche, quello di Orfeo, il mitico cantore. Nella follia dei riti orgiastici di Dioniso, cui persino Agave, sua madre, e le di lei sorelle, Ino e Autonoe, si abbandonavano, Penteo vede soltanto uno sfogo degli istinti più bassi, e si rifiuta di riconoscervi l’opera e la presenza di un dio. Ignaro e superbo, Penteo corre verso la rovina, vittima del dio che lo raggiunge proprio per mano della madre: brandendo il capo del figlio come un trofeo, Agave entra in città e lo mostra al padre Cadmo e all’indovino Tiresia. Condannato al ludibrio è, nel libro della Rusconi, anche il padre numero duecento, razionalista e scettico proprio come il re di Tebe:
Ho conosciuto un padre
è il numero duecento
[…]. È un padre
elevato alla n, ad infinitum, è intero
razionale e reale. (p. 34)
Quanto a Orfeo, lui pure non è immune da colpa: per amore di Euridice, prima viola le leggi di Averno, quindi rifiuta il matrimonio, legge vincolante dell’esistenza: risalito dal regno dei morti, affranto dal dolore, si allontana dal consorzio umano – specialmente dalle donne – e si ritira in solitudine. L’elemento secondo cui Orfeo è smembrato dalle Menadi, le seguaci del culto orgiastico di Dioniso, è introdotto da Eschilo nella perduta tragedia Bassarai, la cui trama ci è nota grazie alla narrazione dello Pseudo-Eratostene (Catasterismi, 24, 29.3-30.2): Orfeo, devoto a Dioniso, al suo ritorno dall’Ade diviene cultore di Helios-Apollo; per ciò è punito da Dioniso, che lo fa dilaniare sulle cime del monte Pangeo. Nel IV libro delle Georgiche, Virgilio (e poi Ovidio, Met. 11.3) sovrappone alle Menadi le Ciconum Matres: Cicones appartiene alla dizione epica e designa fin da Omero (Od. 9.39) il più antico popolo di Tracia, che viveva alla foce dell’Ebro; Matres, invece, non sarebbe un semplice equivalente di matronae o di mulieres, bensì indicherebbe letteralmente le madri, naturali custodi e vindici dei legami nuziali, che l’ostinazione di Orfeo misconosce e rifiuta. Ne I padri, invece, le figure materne o sono assenti o sono del tutto insignificanti. La «seconda madre», la «terza» e la «matrigna imperatrice» non possono fare alcunché; né minacciare e punire con crudezza, né proteggere e accudire amorevolmente:
La mia seconda madre […] non mi insegna niente (p. 23)
Ho una matrigna imperatrice
[…]
Mi vuole bene come una vera figlia
[…] anche questa
una finzione (p. 24).
La mia terza madre […] mi insegna da lontano
[…] Si firma
con un soprannome delicato. (p. 30)
Ormai anziane e sterili, hanno trasferito la loro capacità di interessare sessualmente gli uomini sulla replica inesperta; la chiamano «fiorellino», le danno «consigli sull’amore». Alla fine, però, la giovane volta loro le spalle:
Le mie madri non le cerco sono
manchevoli sedute di sbieco
sono invidiose (p. 39)
Il maschio, per contrasto, ancorché rifranto in tantissimi «padri», è sostanzialmente scisso in due forme opposte: il pericoloso, irresistibile seduttore, e la figura paterna, forte e responsabile. Al suo cospetto, l’«io» poetante non sa bene come porsi, essendo a un tempo figlia e madre, fanciulla in fiore in cerca di riparo e menade sacrilega. Insomma, vorrebbe capire come stanno le cose, ma nota che c’è qualcosa che non va. Com’è dichiarato in apertura di volume, da subito si fa strada un impulso sadico fortissimo, in cui prevalgono le tendenze distruttive dell’annientare e del perdere:
Non ti voglio chiamare papà
è troppo infantile
viene in mente la pappa e allora
ti mangio ma orfana
sarò forse perduta. (p. 13).
Il pericolo è rappresentato forse da una sessualità ancora in boccio, per cui chi dice «io» non è, nel libro, ancora abbastanza matura dal punto di vista emotivo. Chi è psicologicamente pronto ad avere esperienze sessuali può dominarle e giovarsene per la propria maturazione. Viceversa, una sessualità prematura è un’esperienza regressiva, che porta alla superficie tutto quanto vi è ancora di primitivo, che minaccia di distruggere l’Io e di inghiottire qualsiasi divieto o legge morale. Alla fissazione a una fase infantile si lega anche il conflitto tra il fare ciò che piace e ciò che bisogna, intorno al quale gli adulti ammoniscono sempre i bambini. Ne I padri, chi dice «io» non deve venir meno alla virtù da scolaretta di camminare composta:
Tutti mi dicono che sono una donna
e bella e che ho spalle ampie
gambe robuste di ferro.
«Cammina [iussivo] da sola ora.» (p. 16)
Mio padre numero quindici
corregge la mia postura. (p. 22)
Uno dei miei padri
mi insegna le buone maniere
il tovagliolo sulle gambe le posate
a ore differenti in codice (p. 28)
Di fronte al problema se vivere in accordo col principio di piacere o col principio di realtà, l’«io» della poesia oscilla: sottraendosi da ultimo al comandamento di non allontanarsi dal sentiero battuto, ritorna ad essere la bambina edipica che spia negli angoli per scoprire i segreti degli adulti. Per riprendere il motivo dello sparagmòs, se in Virgilio l’immagine della testa di Orfeo spiccata dal corpo e inchiodata alla lira richiama Euripide (Ba. 1139ss.) – il capo di Penteo è conficcato da Agave in cima al tirso –, il marmoreus di Georg. IV 524 («marmorea caput a cervice revolsum») mitiga la crudezza dell’immagine, indicando sì la fredda rigidità della morte, ma anche la bellezza imperitura di un carnato candido e liscio. Sul modello di Virgilio, anche la Rusconi alleggerisce infine il tratto; nel testo di congedo, messe da parte sia la vocazione allo straniamento che l’attitudine al grottesco, la poetessa tenta una sortita più elegiaca che patetica:
Quando ero piccola avevo due padri
uno non c’era l’altro c’era
e si scambiavano d posto il venerdì.
Bios mi insegnava a nuotare
a spaccare noccioline coi sassi
Calamus mi insegnava a scrivere
a mettermi in fila per due.
Bios rientrava e sapeva di treni
gli stavo in braccio sulla poltrona.
Calamus lo chiamavo papà
ma per scherzo e in ombra. (p. 43)
Ancora Virgilio narra che, una volte gettate sulle acque dell’Ebro, la testa di Orfeo fluttuava cantando e la sua lira continuava a suonare. Il fiume le portò sino al mare, la corrente marina sino all’isola di Lesbo, che da allora è la più ricca di canti e di dolci musiche. A Lesbo, Saffo componeva i famosi epitalami, in cui ricordava con toni struggenti, a volte con veri accenti di gelosia, il legame che univa lei e le altre fanciulle del tiaso a un’altra giovane, nell’ora dolorosa del commiato; quando cioè la promessa sposa si preparava a separarsi dal gruppo per fare finalmente il suo ingresso nella vita adulta.
Immagine: Agostino Veneziano, Trionfo di Ecate.
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