Riprende la rubrica Due voci. Inediti e traduzioni. In ogni puntata proponiamo quattro poesie: due traduzioni di un poeta e sue due inediti. Nella nona puntata c’è Laura Di Corcia, che ha tradotto per noi due poesie di Frédéric Boyer dalla raccolta Vaches (P.O.L éditeur, 2008). Seguono due suoi inediti.
Frédéric Boyer, da Vaches
Le prime a morire sono state le mucche.
Nessun essere vivente al mondo è così temporaneo né così precario né così transitorio come una mucca.
Le prime a morire di sete sono state le mucche.
Le prime a morire di morte sono state le mucche.
Le primissime a morire di noi stessi sono state le mucche.
Da quel momento non siamo più riusciti a dimenticare la sicura morte delle mucche.
All’inizio l’ingombro di una mucca morta è fenomenale. Ma presto possiamo aggiungerne una, aggiungerne un’altra, aggiungerne un’altra.
Siamo diventati a nostra volta come delle piccole mucche assetate. So molto bene che la pioggia è lì, che è qui nei nostri cuori, i nostri cuori che non hanno lasciato filtrare nulla.
Le mucche amano la pioggia. Avrebbero potuto facilmente amare altre cose come noi: lo spirito, il metodo, il potere. Ma è l’acqua del cielo che amano, alla fine.
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Le mucche hanno abiti pieni di rovi e fiori e polvere dei campi. Non sanno nulla dell’eccezionalità della vita terrestre sotto le stelle. Niente dell’eccezionalità della nostra vita banale nell’universo feroce sempre colmo della nostra crudele erranza con oh tante vittorie perdute in mezzo ai prati. Come spiegare l’impressione di essere attraversate dalla vita stessa? D’avere una potenza identica alla vita? Questa vita nuda nei campi. Questa vita senza proprietà. Questo corpo immenso e pesante e paziente delle mucche. L’ingiustizia dei paesaggi rende inquietante nella sua inquietudine temporale la gratuita esistenza senza appello, senza giustificazione delle mucche.
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Laura Di Corcia, due inediti
Da soli siamo due bambini cui riempire la bocca di latte. Hänsel e Gretel che spiano dal bosco le streghe dei sentieri. È nella pianura che inizia la violenza, per questo dobbiamo correre veloci come il vento, nasconderci nella pancia della montagna.
La voce non è rotta quando srotola il catalogo delle cose da fare: dobbiamo sostare in silenzio contro gli alberi, accarezzare con le schiene le torte caviglie delle piante. Dobbiamo soprattutto pazientare, attendere che dal ventre della Terra fiorisca l’albume.
La tenerezza del guscio d’uovo: pulirlo, annusarlo, distendersi accanto. Proteggerlo dalle fate, dai gufi che urlano sopra le prede.
I ragni esistono solo nella mia testa. Nella mia testa matta si inseguono come orchi e il maschio tallona la femmina. Nella mia testa volano nei parchi, si inseguono e fluttuano. Tutto fluttua in questa palla di vetro. Qualcosa che deforma le cose, che non le lascia planare sulla volta del mondo.
Questo mondo che ci respinge e ci accoglie. Potesse essere lo stomaco teso di una vacca, il caldo rifugio dove affondare le mani. La palpebra molle di un modo diverso di dire “bene”.
Abbiamo chiuso gli occhi con la ceralacca. Ciglia contro ciglia, battito contro battito. Non c’è nulla da vedere in questo mistero di rocce, nel ventre dei monti. Il calcare si distende e distendendosi dichiara il ciclo chiuso di una ruota che gira su se stessa. Un modo diverso di dire “male”.
I giardini non esistono veramente. Sotto la terra c’è qualcosa di più vero, di più grande. Penso che me ne andrò di qui. Correrò verso la pianura, ancora più avanti. Ho bisogno di spazi che non finiscano, di un modo diverso di dire “bene” e dire “male”.
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Giocano a rifondare il mondo tenendosi stretti ad un addio. Lisciando la superficie del tempo, credendolo un salto alla corda, qualcosa da far esplodere di colpo. Si guardano dall’esterno mentre affilano la punta degli eventi, li rivivono in slow motion. Abbiamo aperto un supermarket di parole inutili, una sequela di significanti da appendere alla finestra. Questi gesti che ci appaiono davanti, che ci riportano alla verità del corpo.
Dicono che sono felici, ma è tutto nelle parole. Parole da saccheggiare, da sputarsi in faccia. Dicono che sono felici e il corpo è triste, triste. Se io sono felice, devo stare muta.