Il mio primo incontro con le poesie di Silvia Morotti risale all’inizio del 2008. Me le inviò sotto forma di file anonimo Roberto Amato, con cui ho la fortuna di intrattenere più o meno da allora una bella corrispondenza. Dico «fortuna» perché ritengo Amato uno dei nostri migliori scrittori, al netto di ciò che scrive, basandomi anche solo su come lo scrive, già a partire dalla questione della lingua. In quel periodo Amato frequentava molto i blog letterari, e si inventava credo uno pseudonimo al giorno, o anche più (aveva un’ossessione speciale per le oche, uno dei suoi nickname era appunto «Ocadabrodo»). Insomma, quando mi arrivò quel file, di una sua «giovane amica», così diceva lui, credetti fosse l’ennesima invenzione, che quelle poesie fossero sue ma preferisse non dirmelo, forse per lasciarmi esprimere con maggiore sincerità.
Del resto in quelle pagine si sentiva molto la sua presenza, e i segni di quella presenza erano prima di tutto, di nuovo, linguistici. Per esempio l’uso di parentesi e in genere di proposizioni esplicative o dichiarative. Ma al di là della grammatica, mi colpiva ritrovare una poesia dal tono colloquiale, solo apparentemente narrativo, in realtà autenticamente lirico; un immaginario surreale, anzi fantastico, e un’ironia un po’ amara; poi l’oscillazione tra la ragione assoluta e il dubbio più profondo, tra versi pieni di certezza («Dio impiegherà senz’altro molte ore / ad attraversare l’oceano») e versi che ne erano del tutto sprovvisti («non so se mi abbia raccolto / comunque ci siamo sposati»); l’atmosfera – e concludo l’elenco – di chi si prepara ad affrontare un compito infinito («ci sono ancora / mille assi / da inchiodare»). Notavo questi elementi mentre l’ombra di Amato, dalla quale fin lì mi ero lasciato condurre, nello stesso tempo svaniva, lasciando posto a una voce che allora mi era anonima, nel senso stretto del termine, ma che già si imponeva forte di un’identità chiara e convinta, adamantina.
Quasi quattro anni dopo ho rincontrato il libro, e insieme ho scoperto l’identità dell’autrice. È stato alla fine del 2011, quando uscì nella collana “festival” di Lampi di Stampa. Chiudendo coi preamboli… Ammetto subito il mio piacere nei confronti di questo libro, sia la prima sia l’ultima volta che l’ho letto. Quando ci si appassiona molto a un libro può succedere che diventi difficile farne un’analisi, capire cosa funziona così bene e poi spiegarlo agli altri. È come fargli violenza, tagliuzzare l’opera per poi non avere più niente in mano. Qui vale la strausata massima della Gestalt secondo cui l’intero è più della somma delle sue parti; se smontassimo questa macchina perfetta non troveremmo il suo segreto.
L’esergo del libro, però, parla proprio di un intero, dice: «Nulla può essere unico o intero / che non sia stato lacerato». Amato nella prefazione lo ribalta, «secondo un senso più comune e rassicurante: nulla può essere lacerato se non quello che è intero». La citazione di Yeats mi fa venire in mente il Simposio di Platone, e il discorso di Aristofane. Insomma, cercando di non complicare troppo le cose, credo di poter dire che questo sia un libro sull’amore. In tale senso il mito di Aristofane porta nella direzione giusta. C’è un «io», anche se spesso è visto dal punto di vista di una «lei», il quale è in viaggio, svolge una ricerca continua. Il suo viaggio coincide con una ricerca di conoscenza, per la comprensione del mondo, ed è una conoscenza mistica, legata al mistero delle parole, viste in una poesia come «piccole pietre / cadute nella mia testa / in quel primo viaggio», tessere di un mosaico sconosciuto da ricomporre.
Il misticismo di Silvia Morotti mi sembra vicino alla definizione che ne dava Giorgio Colli: «Oggi, come ieri, la parola “mistico” ha un brutto suono: si arrossisce o ci si adombra nel ricevere questa designazione. La buona società […] non ammette tra i suoi membri chi porta tale nome, per una ragione di etichetta, lo proscrive. […] Eppure “mistico” significa soltanto “iniziato”, colui che è stato introdotto da altri o da se stesso in un’esperienza, in una conoscenza che non è quella quotidiana, non è alla portata di tutti. È pacifico che non tutti possono essere artisti, non si trova nulla di strano in questo. […] La stessa comunicabilità universale, come carattere della ragione, è un pregiudizio, un’illusione. I meandri più sottili, tortuosi e penetranti della ragione, in Aristotele, non sono ancora stati esplorati, afferrati dopo ventiquattro secoli. Anche il razionalismo è mistico. E in genere “mistico” va rivendicato come epiteto onorifico» (Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano 1974).
Il libro contiene molti riferimenti a grandi mistici e visionari: Maria Maddalena de’ Pazzi, Teresa d’Avila, Ildegarda di Bingen, gli innamorati Abelardo ed Eloisa. Gli innamorati. E proprio l’amore mi sembra sia la ricetta che tiene insieme le parti e gli propone una soluzione, un intero. Quando «lei» incontra «lui», per esempio, il viaggio sembra concludersi: insieme ricompongono la realtà, l’amore ricompone l’intero. Tutto il resto sta sullo sfondo, vive in funzione del soggetto («dicono che ho pensieri incontrollabili»), o è paesaggio, una scenografia della psiche. Gli amanti, incontrandosi, trovano il loro spazio nel mondo, ma ne distruggono tutta un’altra parte. Sono obbligati a una scelta, che fonda la loro realtà sulla rinuncia delle infinite altre possibilità. Questo è l’unico modo di vivere se non si vuole evaporare nel pensiero, o peggio impazzire; poi comunque la scelta premia con un nuovo infinito per l’altro cui si è stati costretti a rinunciare. C’è una poesia che racconta questo: «L’amore è semplice. // Passo dopo passo, / le aveva mostrato ogni cosa: // queste le costellazioni, questi gli astri, / questo il ponte che non possiamo attraversare, / questo il chiostro dove non possiamo incontrarci, / e questa la terra, / dove l’orma dei nostri piedi / non può combaciare // respiravano appena / eppure / avevano distrutto / una parte del mondo».
«Lui» parla a «lei» («dei lampi invisibili / del crepitio vuoto / dei rami di rosmarino») ed ecco che «i mobili, i tavoli e i libri / se ne vanno ordinatamente fuori». La possibilità dell’incontro d’amore rende l’essenziale più reale e fa defilare tutto il resto: per prima cosa «i libri», la letteratura. Dalla vita di carta si passa alla vita dei corpi. La storia dei due amanti è solo un esempio della dualità più generale che percorre tutto il libro. C’è sempre un doppio piano. Anche nella poesia che ho appena citato, c’è la possibilità e la realtà. E la possibilità è rappresentata in tante forme: il desiderio, il rimpianto, la fantasia. Anche i luoghi del libro rispecchiano questo dualismo: da una parte la «mia casa», l’Aquitania, la Forte dei Marmi mai nominata ma evocata dai fuochi di Sant’Ermete di fine estate, col Libeccio che soffia; dall’altra Medina («a Medina tu…»), le acque del Nilo, i monasteri.
La dualità non rimane però scissa, mai. Né sul piano geografico né su quello metafisico, nemmeno sul piano esistenziale. Anche in Platone il dualismo è tutt’altro che definitivo, almeno leggendo il Simposio (ma secondo un interprete come Enzo Paci, ciò che sto per dire dovrebbe valere per tutta l’opera di Platone). L’eros si rivela quella forza che unisce – esso sì definitivamente, e dinamicamente – ciò che è diviso, e lo fa funzionare. Creando l’intero, anzi ripetendolo pur senza un precedente che non sia solo mitico, l’amore sigilla un segreto nel nuovo organismo (in una delle ultime poesie di Silvia Morotti, edite in parte sul numero di marzo 2013 di «Poesia», si legge: «volano le anime in un mare bianco di lettere si posano sul davanzale / luci speciali si incontrano / ed ogni coppia / è un angelo»). Un segreto, dicevo… un segreto che non fa capo né a una parte né all’altra, come non in una singola poesia o in una singola sezione è nascosto il segreto di questo libro di Silvia Morotti.
Lo scrivevo all’inizio: isolando le parti e le varie anime del libro nell’illusione di capirlo, e di isolare il suo segreto, si finirebbe per perderlo. Il segreto non ha un corpo e non è riducibile a un concetto, ma – come diceva Colli – sta nel fatto stesso di introdursi in un’esperienza che non è quotidiana. Così come non fa parte della quotidianità, e non è una cosa “normale”, cioè da tutti, decidere di stare da soli in una stanza a scrivere o a leggere un libro, lasciare questo mondo per entrare in un altro. È un discorso che vale in particolar modo per la poesia. Quando si decide di fare poesia, di farlo seriamente, scrivendola o leggendola, si punta sempre molto in alto, ci si mette totalmente in gioco: uno può guadagnare tutto se stesso o anche perdersi. Quando un libro è vero non è per niente innocuo. Sia per chi lo scrive sia per chi lo legge. È il caso anche di questo libro.
(Silvia Morotti, I fuochi di Sant’Ermete, Lampi di Stampa, Milano 2011)
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).