“Guardare” è una rubrica che propone poesie scritte da ventenni e trentenni e che prova a raccontare il nostro momento storico dal punto di vista del loro immaginario. Questo percorso ci accompagnerà nei prossimi mesi con un’uscita ogni due settimane. Tessera dopo tessera si configurerà un mosaico in cui speriamo emergano interrogativi, chiavi di volta e genealogie di un tempo che muta velocemente, lascia disorientati, ma chiede anche nuove e autentiche forme del guardare. Nella sedicesima uscita cinque testi di Silvia Atzori, nata a Varese nel 1998.
DESCENSUS
I
5:45
Uscire a ora insolita verso
uno spazio che non s’incastra con le azioni.
Tu dormi e hai nel torace
qualche assorta indifferenza
che stanca.
C’è un’aria amniotica in questo
segmento di giorno fatto a brani
dalla scansione dei segnali dai
silenzi calcificati senza corpo, tra oggi
e il giorno che lo uccide:
non ci abitiamo mai. Uscire
a ora insolita lontano
lontano più possibile da noi.
II
Il riflesso sporco nel finestrino
del sette e sedici con che pietà
ingiusta resta sulla terra e ha l’inerzia
di ottobre e dei ripensamenti.
Non mi conosco in quella che rimanda, è poco più
che un’ecfrasi del sé, l’ennesima
pelle da sacrificare.
La figura sempre più a stento
sopporta il peso di un nome.
Gli assoluti ci avranno abbandonate
come la carne dalle arance spolpate
sempre più private inconsistenti
sempre meno sempre più ossa occhi
e meno denti.
I pensieri a briglia sciolta
trascinano via l’auriga inesperta
III
M1-Cadorna FN Triennale
In questa discesa non si cerca Proserpina
tutto sommato questo è il terzo anno
che ti fai strada qui senza lanterne
senza più scarpe, con le cornee
consumate reggetevi ai sostegni
dal buio inumidito dell’insetticida.
Proserpina qui non la puoi trovare. Ad aprile
qualcuno l’ha vista indossare un prendisole
sotto l’impermeabile crudele.
La vita è altrove sulla terra e qui
apertura porte a destra
qui ormai non c’è rimasto nessuno.
IV
Anche oggi si è rapiti dagli incastri.
Hanno gettato gli sguardi con il dubbio
del vuoto fra le suole
sui marciapiedi della via Larga, nell’amore
macilento del tram e i suoi binari.
I vestiti mi danno prurito al corpo, ricordano
di non scordare le costrizioni le
deiezioni.
I vestiti assediano la pelle e non so
scucire un lembo di parola da lanciare
all’ora nuda e sconosciuta:
«Adesso tutti
torneranno
a casa.
Calpesteranno indietro i loro passi e poi
si chiuderanno.»
V
Milano, Domodossola Fiera
Sul passeggero di fronte il confine
dei capelli si ritirava
come la spiaggia consumata
dalle maree, scopriva una pelle
sconvenientemente lucida.
Lei
l’orecchio destro trafitto dai cerchi.
Cosa non si sopporta con la carne
per la carne, quante piccole
scarificazioni senza
sottrarsi o tremare più di quanto
sia concesso alle rotaie sotto al treno.
NB: Non è stato possibile rispettare per intero la grafia dell’originale, ci scusiamo per l’inconveniente.