Datura

da | Set 2, 2013

Esiste un talento più nobile dell’interpretazione – l’umile ancella del sapere che instancabilmente riconduce ogni effetto alla sua causa, tessendo la rassicurante trama della storia e della comune consapevolezza: si tratta della visione poetica, ovvero della facoltà di discernere la natura nascosta delle cose e tracciare – tramite un uso esperto e articolato del linguaggio – segrete corrispondenze tra di esse. Tale capacità va largamente riconosciuta a Patrizia Cavalli, che nei versi finali di Datura, la sua ultima raccolta, la descrive non come un semplice obiettivo artistico, ma come una vera e propria missione di vita: «Ma io non voglio andarmene così, / lasciando tutto come ho trovato / in questa scialba geografia che assegna / l’effetto alla sua causa e tutti e due consegna / all’umile solerzia dell’interpretazione. / Un altro è il mio progetto, la mia ambizione / è accogliere la lingua che mi è data / e, oltre il dolore muto, oltre il loquace / suo significato, giocare alle parole / immaginando, senza un’identità, / una visione».

Giocando con le parole, è possibile cogliere una realtà più autentica di quella strettamente referenziale: una realtà che va oltre l’esperienza sensibile e si colloca nei territori aperti della metafora, in una dimensione più libera e dilatata dell’esistenza, svincolata dal concetto limitativo di identità, che riconduce ogni cosa solamente a se stessa. Ma tale realtà deve essere necessariamente percepita nella concretezza fonetica dei versi, che racchiude la vastità dell’intuizione poetica nell’ambito di un limite individuato proprio attraverso i sensi. Ecco perché, se da un lato è impregnata di molle sensualità, la poesia di Patrizia Cavalli è sempre improntata alla più rigorosa esattezza del pensiero. Le due dimensioni sono legate indissolubilmente. La parola è caratterizzata da un’acutissima limpidità di visione e al tempo stesso da una cedevole consistenza materica. L’elemento corporeo e l’elemento cerebrale si completano e si vincolano a vicenda, forzando l’esiguità del segno linguistico in un amalgama di efficacia argomentativa e sensuale sonorità. Il ragionamento non è mai approssimativo e non cede mai alla tentazione di una icasticità non argomentata. Le figure più suggestive traggono anzi la loro forza proprio dalla generosità del pensiero che le ha generate, dalla doviziosità con cui esse vengono introdotte e sviluppate; e non a caso il libro raggiunge i suoi esiti migliori nei componimenti di maggiore ampiezza, che forniscono all’autrice lo spazio necessario per una estesa articolazione delle immagini. Tra questi, si segnalano i poemetti «La patria» e «L’angelo labiale» (già pubblicati da Nottetempo nel 2011), «Tre risvegli» (un suggestivo atto unico in tre scene composto sul modello del teatro antico) e «La maestà barbarica», un testo che ben rappresenta la poetica dell’autrice, costantemente in bilico tra una struggente affezione alla forma e il vivo desiderio di liberarsene.

In quest’ultima lirica, viene descritta una donna non ben identificata, una nobile decaduta che si aggira per il quartiere con aria stancamente aristocratica, e che – nonostante il declino evidente – continua a esercitare sugli altri un fascino misterioso. La donna, seppur memore degli antichi, sfavillanti splendori di una vita agiata, sopravvive ormai come vuoto simulacro del passato, circonfusa di una maestosità sempre più indistinta e nebulosa. In lei tutto sembra pura attitudine, svagata esteriorità. È solita sedere con aria da padrona ai tavolini dei bar per scrivere ai suoi avversari lettere strampalate e rancorose. Rimane in assorta contemplazione del proprio stesso pensiero: un pensiero rarefatto, ridotto a puro significante, alle nude strutture architettoniche dell’espressione: «Mi è capitata in mano una sua lettera, / non c’erano né frasi né parole, ma c’era / una scrittura infatuata di consonanti / triple e vocali gigantesche, tenute / insieme da volute e colonnati, / la prova che il rovello è architettura». Scrittrice, attrice tragica, oratrice e sarta portentosa, in tutte le arti nelle quali si cimenta, la donna indulge in uno sfarzoso accademismo, che tuttavia non le impedisce di conquistare le platee alle quali si rivolge; come se alla svogliata superficialità della sua maniera fosse rimasta attaccata una patina di senso, una velatura di intensità bastevole a impreziosire la realtà che custodisce e lascia trapelare: «Io non oso parlarle, / ma la guardo, la guardo sempre, / discosta e laterale. Ogni giorno / ho bisogno di vederla. Se non la vedo / la vado a cercare, se non la trovo, / provo paura e noia. Temo che muoia, / temo che scompaia».

In «Tre risvegli» viene rappresentato sulla scena il sentimento di una donna per l’amata. L’innamorata analizza il proprio stato d’animo alternando la descrizione degli aspetti strettamente umorali dell’impulso amoroso a quelli di tipo più strutturato, che coinvolgono complessi ragionamenti ipotetici e strategie romantiche al limite del grottesco. Le fa eco il cosiddetto coro dei sintomi, ovvero la proiezione teatrale della dimensione corporea dell’amore, che riconduce l’articolazione del sentimento – sempre esposto alla tentazione metafisica – a un livello meramente fisiologico. Il dio ormonale cantato nel primo risveglio è pura pulsione erotica, un’indistinta entità molecolare incapace di acquisire autonomamente quella consistenza indispensabile per conquistare l’oggetto del proprio desiderio. Per uscire dalla propria condizione disgregata e raggiungere un’efficace capacità relazionale, ha bisogno che la mente gli fornisca le strutture necessarie. Le rigide architetture dell’intelletto, tuttavia, alterano la dimensione tutta chimica della pulsione e ne snaturano l’essenza più profonda, andando a costruire «complicate relazioni / di segni e di figure, non più / associate al dio, anzi in discordia, / e che però procedono solerti / fino ai pinnacoli della grande fabbrica / la cattedrale dell’autarchia mentale».

L’anelito a consistere in delle coordinate mentali e culturali di riferimento, che consentano di assumere un ruolo definito in un contesto pertinente alle relazioni tra esseri umani, si scontra con la natura sostanzialmente inafferrabile dell’istinto amoroso. Il problema investe un aspetto fondamentale nella poesia di Patrizia Cavalli. A livello stilistico, l’autrice ha da sempre avvertito l’esigenza di muoversi nell’ambito delle strutture poetiche tradizionali, in modo da disporre di un sostegno in grado di sorreggere il ragionamento poetico e donare solida consistenza alle immagini rappresentate. Tali strutture, tuttavia, nei suoi versi subiscono una forzatura che denuncia una crescente insofferenza nei confronti di un formalismo troppo definito e prevedibile. Assai spesso il verso tracima al di là della misura rassicurante dell’endecasillabo, il cui ritmo – pur rimanendo ben avvertibile sotto il tessuto prosodico del testo – non viene inteso come mero computo sillabico, quanto come ossatura che sostiene le volute di un discorso sintatticamente articolato e coerente. La rima abbandona la posizione in clausola per slittare frequentemente all’interno del verso, creando un flusso di cesure alternativo che dissimula ulteriormente la struttura metrica sottostante. Il lessico, volutamente eterogeneo e antiaccademico, riporta l’esperienza poetica a una dimensione di immanenza, al sicuro dalle trappole di un certo platonismo linguistico, ovvero dalla tentazione di ricercare una sacralità letteraria radicando il testo nel fertile solco della tradizione.

Nel complesso, Datura mi è sembrato il libro più compiuto e maturo di Patrizia Cavalli, quello in cui la poetessa ha trovato – elaborando narrativamente delle allegorie capaci di conferire uno spessore a tutto tondo alla sua consueta sensualità – la misura più consona alla propria ispirazione artistica. Peccato aver inserito nell’opera alcuni componimenti che non vanno oltre un pur gustoso sapore epigrammatico, ma che talvolta sminuiscono inutilmente il valore complessivo della raccolta: «Amor che fa la rima / sta un po’ meglio di prima. // Amor che rima fa / tanto male non fa».

Immagine: Ritratto fotografico dell’autrice donato da Patrizia Cavalli a «Nuovi Argomenti».

Luca Alvino è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato Il dettaglio e l’infinito. Roth, Yehoshua e Salter (Castelvecchi, 2018) e Il poema della leggerezza. Gnoseologia della metamorfosi nell’Alcyone di Gabriele d'Annunzio (Bulzoni, 1998). Si interessa di letteratura contemporanea e di poesia. Collabora con il blog minima&moralia.