L’Oscar Tutte le poesie di Dario Bellezza a cura di Roberto Deidier (Mondadori, 2015). Di seguito un brano inedito di Deidier e una scelta di poesie, curata da Deidier, che ripercorrono l’opera di Bellezza.
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Chimera
Un lungo corridoio in penombra, tra l’ingresso e la prima stanza. Oppure un succedersi di porte, di ambienti uno dopo l’altro, come in tanti edifici del passato. Nella casa in via dei Pettinari, lungo la spina di Ponte Sisto che penetra fino ai Giubbonari, ricordo e invenzione si confondono, disegnano un tracciato irreale: perché, fin quando era in vita chi vi abitava, quel luogo non l’ho mai visitato. Gli amici che vi erano entrati erano molti, e non avrei faticato ad averne una descrizione precisa, ma preferivo che quei muri, con quanto di umano e materiale potevano contenere, restassero una piccola porzione di Roma da immaginare, da situare fuori della realtà e della cronaca; una casa, quindi, che esisteva solo per gli aneddoti, per le numerose storie, a volte racconti metropolitani che il suo stesso inquilino si divertiva a diffondere.
Quell’asse che dal convulso lungofiume, come una freccia dritta e consapevole, abbandona Trastevere, si proietta oltre gli argini sull’improvviso vuoto, sulle acque mosse e fangose dove mai ho visto riflettersi una nuvola, uno stormo, un minimo cenno del cielo; quell’asse si spinge con la discrezione di una strada stretta, di una ferita sottile fin sotto l’arco che ne chiude la prospettiva, come una quinta di teatro. Scorcio di paese costretto tra la monumentalità dei palazzi di via Giulia e la mole triste del Monte di pietà, ospitava botteghe destinate negli anni a divenire commerci di orefici. Chi l’attraversa con lo sguardo di qua dal millennio, difficilmente saprebbe riconquistare la severa profondità delle erme bifronti che si affacciano da un terrazzo antico e prossimo e voltarsi verso un passato che sembra lontanissimo, papalino, ed è invece uno spazio di pochi decenni. Il tempo della memoria è davvero un vortice di nulla, la scia invisibile di quella freccia che sibila veloce sopra i gorghi del Tevere, sui barconi ancorati alle banchine sotto l’occhio vigile di ponte Sisto.
Devo scavare in ricordi non miei, prima di rioccupare il territorio del mio vissuto. Verso la fine degli anni Sessanta, quella freccia spartiva un paesaggio poetico, o forse lo ricongiungeva da una parte all’altra del fiume. Da che parte stesse l’arco e dove fosse diretta la punta, in verità non l’ho mai capito. Mi lascio prendere dalle suggestioni, dalle architetture che lascerebbero intendere una direzione netta, innegabile: dal lungotevere Sanzio fino all’arco dei Giubbonari. Mi piace anche pensare che le cose siano andate così: che da una finestra affacciata sul ponte una poetessa ancora giovane, mossa dalle intime energie di una psiche provata, eppure forte, inviasse segnali a un poeta ancor più giovane e sconosciuto. Non saprei dire con precisione le date, ma questo probabilmente mi aiuta a ricostruire una più vera memoria della poesia, fatta di narrazioni e di affetti spesso ingestibili, come è la ricerca di una madre: specie se la si vuole nella poesia, creatura bizzosa, e peggio se la si trova in chi la rappresenta, in chi la incarna. Forse nella concretezza dei fatti è andata ben diversamente: un ragazzo poeta si reca dalla poetessa delle variazioni belliche, ne rimane irretito, condivide con lei il sentimento della lettura e della reciprocità, infine se ne discosta bruscamente e decide di stabilirsi di là dagli argini, in un vecchio appartamento in affitto. Leggere insieme, azione sempre pericolosa: si confondono cause ed effetti, realtà e ambizioni. Eloisa e Abelardo, Paolo e Francesca. Qualcuno ci rimette, spesso tutti e due, anche quando il rapporto è solo un invaghimento letterario, un breve romanzo di formazione per interposta persona: si delega l’altro, ci si affida. Raramente si cresce con l’altro. La poetessa, di lì a breve, intraprenderà un viaggio che ha tutto il sapore dell’esilio, di ritorno forzato verso una delle sue lingue madri, Oltremanica.
Il paesaggio intorno al ponte, a questo punto, è occupato tutto dal più giovane dei due, il più pedante Amleto della nuova borghesia (o della piccola borghesia di sempre). Non sappiamo, al momento della sua entrata nella scena del dramma, cosa stesse leggendo il vero Amleto, quale opera tenesse in mano. Sappiamo invece quale evidente cortocircuito provoca quella partenza, ad apertura di libro: «Ma non saprai giammai perché sorrido». Così si chiudevano le terzine che nella Chimera il Vate intitolava Al poeta Andrea Sperelli, con buona probabilità rilette insieme, se è vero che anche sulle pagine di d’Annunzio, tra le molte altre, Amelia Rosselli si riappropriava del bell’idioma nazionale. Con una citazione non dichiarata, con un verso rubato, si apriva il volume del migliore esordiente della sua generazione, secondo Pier Paolo Pasolini che ne firmò il risvolto. Con la raccolta delle sue invettive (e delle licenze che avrebbero dovuto fare da controcanto) Dario Bellezza usciva dal buio della cronaca privata, ponendo fine al suo nobile apprendistato: lungo il quale, però, era riuscito a riconoscere una costellazione forse troppo alta nel cielo della letteratura, ma facendola propria, invadendola della sua stessa vita, del suo bene e anche del suo male. Ne facevano parte, come è noto, Elsa Morante, Anna Maria Ortese, infine la stessa Amelia. Madri o capricciose sorelle maggiori, destinate, tra giudizi oscillanti e umori spesso poco contenibili, a tramutarsi in divinità bellicose, in immagini in fuga, in figure di amori impossibili. Sul fronte maschile Alberto Moravia e Sandro Penna assolvevano probabilmente alla funzione opposta: lontani anche loro dal porsi come padri, centrali com’erano a se stessi, rappresentavano per Dario un più sicuro e meno conflittuale punto di riferimento. Da loro c’era solo da aspettarsi che ci fossero, come baluardi di una presenza antica, e per molti anni ancora ci furono, reggendo fino alla fine la parte che gli era stata affidata, prima di relegarsi nel labirinto dei ricordi.
Il verso con cui si apre tutta la poesia di Bellezza è dunque un plagio, una finzione, un primo travestimento, fin troppo platealmente esibito per non destare qualche sospetto: almeno il sospetto di un segnale implicito, rivolto a quelle Madri instabili. Non credo che Dario potesse riferirsi a una di loro, in particolare: la sua capacità di passione era un valore astratto, non dico letterario, libresco, ma senz’altro in fuga da ogni oggetto concreto. Era una pulsione primaria, un’energia assoluta e rabbiosa, spesso autodistruttiva, che non poteva condensarsi in alcun sentimento, ma che si sperperava in una leggerezza anch’essa finta, assestandosi sulla superficie di rapporti troppo occasionali. Non sapeva posarsi su nulla. Pur nelle inevitabili mancanze, nelle impreviste sottrazioni, il solo sentimento che agita la vita e la poesia di questo estremo attore del maledettismo è probabilmente l’amicizia, intesa come costruzione di un mondo, come rete di relazioni: anch’essa un campo di battaglia, con dei confini, dei tracciati molto precisi che si tramutano, da spazio civile, in storia privata, in biografia personale. Un poeta è anche una geografia umana, un paesaggio di sentimenti e di idee: Dario Bellezza è stato, al contempo, il protagonista, la natura talvolta dissestata, infine il cartografo di se stesso. Padri e Madri illustri ne rappresentano la necessaria geologia, il sostrato profondo; nei compagni di strada, negli scrittori più prossimi alla sua generazione, c’è un suolo vivente, anche se troppo spesso illuminato da un sole invernale, sporco, che non riscalda.
Amleto non sa, non deve restare solo, anche se il tradimento è dietro l’angolo; perfino la sua generosità ha qualcosa di inquietante, come un gesto riflesso. Suona sempre come una difesa. Non si sapeva mai cosa ci si potesse attendere, da Dario Bellezza, se non di trovarsi a fare i conti proprio con la sua solitudine o con il suo solipsismo, con quel ripiegamento in se stesso che in certi momenti cancellava ogni forma di quel paesaggio e ammetteva soltanto esseri che restavano al di qua dell’umano, come i gatti Belindo e Belinda. A loro sono dedicate alcune tra le poesie più belle, compiute, memorabili. Con loro, finalmente, il rapporto si tramutava nella purezza morantiana dell’istinto o nella spaesata creaturalità di certi personaggi della Ortese. Se voglio ricordare Roma, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, ovvero quella stralunata città che potevo ancora esplorare con gli occhi della prima adolescenza, l’immagine che mi si disegna è una cartolina di Campo de’ Fiori, in un mattino assolato, quando l’ombra di Giordano Bruno si proietta sugli ombrelloni del mercato e dai forni arriva l’odore della pizza calda. Lì ho solo potuto immaginare il poeta di io aggirarsi tra i banchi in cerca delle alicette fresche, di quel pasto speciale con cui, certamente, riappacificarsi con i geni felini che invadevano la casa di via dei Pettinari.
È solo così che riesco ad abitare lo spazio mentale di quella casa: pensando ai rientri di Dario, in mano il cartoccio del pesce e la prevedibile festa dei gatti. Un’immagine che mi viene dalla sua poesia, non dai suoi racconti privati, che pure sono giunti, anche se in un periodo più tardo. Solo ora comprendo che, tra le figure più vicine al mio mondo poetico, al mio orizzonte delle aspirazioni e delle attese, quella di Dario è stata la meno concreta fra tutte. Per lungo tempo lo avevo conosciuto dai suoi versi, da Morte segreta a Serpenta (Invettive e licenze era allora introvabile, relegato nel mito di quel risvolto pasoliniano); versi che accompagnavano l’atto della mia lettura con una sorta di litania, di preghiera profana, spesso ipnotica. A volte facevo fatica a mettere a fuoco temi e figure, tranne quando la brevità mi veniva in soccorso; allora, negli improvvisi squarci romani, nelle descrizioni dell’eros, nelle poesie più quotidiane, dove i gatti spadroneggiavano come protagonisti indiscussi, mi sembrava di cogliere una storia autentica, possibile. Dario, per me, è rimasto in quella storia. Quando lo avrei infine frequentato, mi sarebbe riuscito difficile pensarlo al di fuori di quella buona dose di verità, la sola che cogliessi sotto la maschera. Una volta incontrato e conosciuto, il suo teatro sarebbe divenuto, almeno per me, prevedibile: dietro l’ironia ostentata, anche della sessualità, traspariva il dramma attoriale della perdita e dell’inconsistenza. Della loro consapevolezza, soprattutto. Sono stati questo dissidio, questa lacerazione a condurre la tensione per cui Bellezza resta un artista puro, necessario. Dario aveva fissato per sempre il suo doppio più reale in certe poesie, da dove si affacciava in tutta la sua potente umanità. Potente per me che leggevo, naturalmente, e che attraverso lui spedivo a me stesso cartoline della mia città.
Ma esiste un versante notturno, più manifestamente disperato. Quello scenario di luce dove mi piaceva pensare il poeta, al mercato o tra i suoi gatti, in preziosi istanti sereni, era soltanto uno degli aspetti di Bellezza; per chi lo conosceva a fondo, tutto sommato anche il meno realistico. L’inquietudine che lo attraversava non era un moto intellettuale, ciò che avrebbe fatto di lui un polemista di ben altra specie; era piuttosto un’irrequietezza senza obiettivo, lasciata cadere su tutto, dunque priva di forza esteriore. Era come una corrente che si generava da sé e su di sé rifluiva, per poi spegnersi. Il paesaggio diventava improvvisamente notturno, dominato da ombre furtive che con certezza si agitavano prima nella sua immaginazione, come forma astratta del desiderio, come coazione a una trasgressività già relegata a cliché, e poi si mostravano in tutta la loro schietta, brutale rapidità. Circo Massimo, Colosseo, ruderi senza tempo dove la notte romana, ancora negli anni Settanta, poteva offrire riparo agli ultimi frequentatori di un eros che sussisteva solo in quanto peccaminoso, avventuroso, perfino eversivo: luoghi dove la sessualità rinunciava a qualsivoglia ambizione sociale, restando invischiata nella sua stessa insoddisfatta frenesia, talvolta spensierata, più spesso tragica. E sottoponte, lungo le arcate, sui sanpietrini bagnati, quel paesaggio meridiano si rovesciava, scivolava nel suo ambiguo doppio, come un mondo infero talmente vicino da non farci più caso, o semplicemente da ignorare. Con la dovuta distanza, Bellezza avrebbe fatto di sé il cantore di questa epica bassa, avrebbe compiuto da eroe vigile la sua discesa nell’Ade, risalendone come un nuovo Rimbaud. Invece quell’inferno lo abitava come un vuoto insanabile, gli somigliava, lo portava a cercarsi sempre nuovi antagonismi e a recitare una parte di cattolicissimo regret, trasmutandolo, sulla propria scena, in un corteggiamento della morte punitrice e liberatrice.
La maschera celebra nei versi di Bellezza il proprio inesausto trionfo. Infine è tutto quel che resta. Sospeso tra la realtà e l’ideale, Andrea Sperelli non sa decidere e perde tutto. Prigioniero della trama del suo sogno, come scrive d’Annunzio, dialoga con la sua stessa ferita che non guarirà. Gli si rivolge la Sfinge, la Chimera, riconoscendo tutta l’atrocità della sua sofferenza e restando comunque impassibile, poiché conosce le leggi della Vita. Ma chi è questa iniziale proiezione che sembra condizionare tutta la scrittura di Dario? Chi si agita dietro questa rappresentazione vivente dell’enigma, chi è colei che si cela dietro il nome di Serpenta? Chi è l’avversario? Un piccolo riscontro sui testi e, dalla grottesca galleria dello Stereoscopio dei solitari di Juan Rodolfo Wilcock, si affaccia un personaggio analogo, facilmente individuabile nella prima Madre di Dario, la più severa e ostile: Elsa Morante, ritratta nei panni di una Medusa tragica e solitaria, divorata dalle sue stesse furie, morsa dalle sue stesse vipere. Certo, la tentazione sarebbe fin troppo forte, anche se Chimera sembra riferirsi all’idea stessa di Madre, piuttosto che piombare come una categoria del carattere su una figura riconoscibile; e a complicare le cose interviene il fatto che quel silenzioso sorriso Bellezza lo fa proprio, lo assume su di sé. Indeciso come Amleto, non sa rispondere al proprio enigma; per non cadere tra gli artigli della Sfinge, o restare pietrificato come una vittima della Gorgone, crede di aggirare il proprio destino divenendo egli stesso figura della propria disperazione. Travestito da Chimera, pensa così di poterle sfuggire in un incessante gioco di rifrazioni: ma Chimera sa sempre che conto chiedere, e quando.
Il sorriso amletico di Dario Bellezza mi si è rivelato in una dimensione più privata. Accadeva con una certa frequenza, a chiunque seguisse le sorti della poesia, di incontrare il poeta quando era coinvolto in letture pubbliche o in presentazioni di libri. Poteva arrivare sul luogo dell’evento all’improvviso, da solo, così come poteva capitare di ritrovarlo in compagnia di strani personaggi che presentava come giovani poeti, ma che più probabilmente provenivano dal sottosuolo delle sue scorribande notturne. In lui non c’era ombra di separazione sociale, di divisione ambientale: tra il mondo della luce e quello delle ombre non vi era soluzione di continuità, tutto era mescolato, provocatoriamente o meno. La sua realtà psicologica era un’unica lastra incisa da un dolore anteriore a qualsivoglia rivelazione di sé. Nella recitazione dei versi, l’andamento da nenia liturgica accresceva in me la sensazione di ridondanza allucinatoria, di allestimento di un mantra esorcistico. La voce di Bellezza non conosceva variazioni tonali, fluiva in una romanissima e lunga cantilena il cui finale giungeva imprevedibile. Come un sacerdote al centro della funzione, Dario esibiva il suo ruolo, ma senza affettature e il pubblico spesso lo accompagnava quando riconosceva i versi amati: quelli in cui una generazione di identità brucianti non faticava a riconoscersi. Per mio conto, aspettavo che arrivassero le poesie brevi, che la mia città tornasse a mostrarsi nei suoi aspetti migliori; che mi parlasse come mai mi aveva parlato, tra stridii di gabbiani e scrosciare di acque nelle fontane.
Mi accorgo che il privato di Dario Bellezza è uno spazio inesistente. Ogni parola, ogni gesto, che finisse o no in un suo verso, aveva qualcosa di esibitorio, non poteva sottrarvisi. Però fuori dalle letture, smesso l’alloro, tornava a trincerarsi dietro le sue maschere, e il suo sorriso aveva qualcosa di beffardo. Ma non era rivolto all’interlocutore di quel momento; era sempre rivolto a Chimera, era lo specchio in cui la disperazione, respinta dalla sua stessa immagine, poteva tornare a se stessa e forse allontanarsi. Abbiamo parlato per la prima volta in un luogo distante, non in un’assolata piazza romana, quando già nel cuore dell’inverno un raggio concede l’illusione che la primavera stia finalmente in agguato. Eravamo invece nel pieno dell’estate, sulla spiaggia di Tropea. C’erano molti poeti, in quei giorni, venuti lì per un premio e non ricordo se Dario fosse giunto in compagnia e in ogni caso la sua scorta aveva saputo rendersi subito invisibile. Veniva da vicino, aveva preso una casa in Basilicata, sullo Ionio, dove trascorreva la bella stagione. Insolitamente abbronzato, estraneo a quell’io sofferente e lamentoso, in qualche modo politico, che vagava per le trattorie della capitale, era vestito di una maglietta bianca e azzurra, e come i marinai di Penna trasudava una freschezza anch’essa insolita. Il saluto fu rapido e del resto la sua curiosità non fu indotta da me, ma dalle ragioni che mi avevano portato fin lì, tra tutti quei poeti già noti. Anche io dovevo far parte del suo gioco relazionale, mi ci inserivo senza neppure accorgermene, ritrovandomi a subire l’indecifrabilità del suo sorriso, l’intelligenza stremata dei suoi occhi dietro le lenti spesse.
A tarda sera Dario scomparve. Fece lo stesso anche la sera seguente. Dava l’impressione di una creatura che poteva vivere solo alla luce del sole, resistendo fino alla cena. A tavola la sua conversazione era un tiro al bersaglio, vivace quanto gratuito: il pantheon della migliore letteratura, del passato ma soprattutto del presente, era ridotto a un banchetto di trappole e dispetti, invidie e inimicizie, strategie e alleanze. C’era qualcosa di ostentatamente rivelatorio, nel suo discorrere, un’affermazione di identità e di ruolo che certamente dovevano provenirgli dai suoi trascorsi con le Madri. Dei Padri taceva la discrezione, invece. Mi facevo l’idea, osservandolo così da vicino, che le sue sparizioni fossero un altro atteggiamento, una recita nella recita; da tante sue poesie traspariva l’indole oscillante del suo eros e dunque non comprendevo più quale fosse la verità, come in un racconto di Borges. Era il Dario diurno che fingeva di essere un indomato animale della notte o era il suo lato oscuro a recitare la parte del quieto frequentatore del mercato? Ancora una volta sbagliavo, cadevo nel labirinto dei suoi specchi. Bellezza e la sua finzione, nella vita come nella letteratura, si sono sempre ritrovati in una esclusiva reciprocità. Un cortocircuito implosivo, da cui però traeva ispirazione una poesia drammatica. Anche ciò che sembra artefatto diviene necessario, se condivide la stessa natura dei sogni, delle pulsioni, dei desideri. La sua sofferenza era autentica. Quando era presente, la sua esibizione restava per me un piccolo evento divertente, un dono per riaccendere il buonumore, come un oroscopo favorevole sul giornale del mattino.
Quando Chimera è venuta a imporre le sue ragioni, Dario ha dovuto levarsi la maschera e si è ritrovato ancora più solo. Nelle sue rare apparizioni respingeva la naturalezza con cui mi accostavo a salutarlo, stabilendo intorno alla sua figura visibilmente provata una sorta di cordone protettivo. L’ho incontrato ad Avezzano, in occasione di un altro premio, l’ultimo. Il suo ringraziamento nei confronti della giuria fu un’altissima lezione di poetica e di umanità: un dono estremo di vita e di parola, nonostante il suo corpo tradisse già un più doloroso linguaggio. Dei pochi mesi che gli restavano non seppi nulla, se non confuse e spesso contraddittorie testimonianze dai pochissimi intimi che ancora erano ammessi a frequentarlo e ad aiutarlo, misurandosi con un attore ormai impaurito: Chimera, così a lungo corteggiata o esorcizzata nei suoi versi, infine lo avrebbe accontentato, impossessandosi per sempre di lui.
Roberto Deidier
***
Da Invettive e licenze
Forse mi prende malinconia a letto
se ripenso alla mia vita tempesta e di
mattina alzandomi s’involano i vani
sogni e davanti alla zuppa di latte
annego i miei casi disperati.
Gli orli senza miele della tazza
screpolata ai quali mi attacco a bere
e nella gola scivola piano il mio
dolore che s’abbandona alle
immagini di ieri, quando tu c’eri.
Che peccato questa solitudine, questo
scrivere versi ascoltando il peccatore
cuore sempre nella stessa stanza
con due grandi finestre, un tavolo
e un lettino di scapolo in miseria.
E se l’orecchio poso al rumore solo
delle scale battute dal rimorso
sento la tua discesa corrosa
dalla speranza.
*
Da Morte segreta
Salgo e scendo le scale di una casa non più
castello di forti speranze o robusti amori, ma
che tessendo le fila dei miei disfatti giorni
annunzia inesorabile la voragine della sventura.
Lì, durante la scalata faticosa al vecchio
maniero abitato dai fantasmi sento voci precise
che appartengono all’incubo di notti cadute
addosso alla mia infanzia celeste nutrita
di ardori sconosciuti e angelici languori.
Fantasmi di amori morti, amicizie consumate
dal tempo rapitore di gioventù, inesorabile
abitatore di malate menti sconvolte dal nulla.
Dio non c’è, non c’è speranza per me se rientro
a casa furtivamente, sospetto di morire
per mano di un giovane assassino dietro
un angolo buio. Così appena arrivato, pieno
di sgomento ed eccitato dal mio sangue
non versato, alzo a me stesso la preghiera
solitaria di chi noti’ s’innamora più
del suo assassino innocente e reale.
*
Da Libro d’Amore
Delinquente mio delinquente
non lasciando Roma azzardo
contro i maschi stazionari una offesa
e falsa virilità.
Vecchi discorsi, logori, remoti,
che tu con i tuoi denti adolescenti
mi spegnevi in una bocca piena di saliva.
Il tempo era ancora
un carnefice che non dava paura.
Ora esisti. So che sei lì, dal mio
rivale. Mangi ogni tanto caviale
e molte volte salti il pranzo.
Io non tramonto lentamente
ma t’assicuro di essere già morto!
*
Da io
Rimorso a guardarti nelle confusiones;
sei solo una gatta, anzi sei una gatta,
una natura felice, un miracolo, un incanto:
quando agiti la coda o cerchi di afferrarla
sei più dispettosa di ogni ragazzo,
più dolce di ogni zucchero filato.
Ma il rimorso mi divora, sapessi,
pensando che dovrò lasciarti,
non sono fedele negli amori,
non so sacrificarmi.
Dimmi che fine farai
lasciami libero di decidere,
di perdermi in un altro destino.
*
Da Serpenta
Il tuo corpo adorato più non tocco.
Qualcuno lo bacia: me lo ha rubato.
Resta soltanto nella stanza
il tuo odore, gli ultimi vestiti
smessi; un paio di mutandine.
Amore senza indugio con l’acqua
che bolliva sul gas per gli sporchi
capelli, di lontano nella pentola –
borbottando ci chiama senza rancore
di essere lasciata lì a consumare
tutta la sua bollente acqua
un attimo prima gelida.
Casa aperta ai rumori dei pazzi ospiti
e delle muse assolute, te
circuito di certo mentre io
scrivevo nella mia nuova stanza.
Per te ho cambiato casa. Ti ho
la chiave dato. E te ne vai
lo stesso in giro e mi lasci solo.
*
Da Libro di poesia
Prima un bacio
Diranno che ero un gran depravato:
ma dammi lo stesso prima un bacio
e poi uno schiaffo. Unico sentimento
non furtivo che ancora alberga
nel mio cuore ossidato di cittadino
spento che sogna la campagna
è la pace dei Sensi, la vittoria
Forse unico impegno sublime
è l’ancoraggio ad una stenta
lettura di me stesso, ad una triste
meta di decadenza accidiosa.
Ma un giorno diversamente dall’oggi
fuggimmo per terrestri mondi
desiderando della giovinezza
un profumo allegro e violento
talvolta, fra manifestazioni
e partiti!
Noi fummo la lucente generazione;
le periferie, le borgate furono
il nostro regno, la fortuna ci arrise
come volemmo, fra case contadine
e parrocchie cattoliche solatie.
Siamo qui ora davanti al sonno
che ci prenderà lentamente
per lasciarci in un ultimo gemito
di follia che non vuol dire ancora
ancora di salvezza.
*
Da L’avversario
ROMA 1989
È avventizio il mio essere reale.
Sleale è insistere su chi sono io.
II punto di partenza è scontato –
l’arrivo è certo nello stato
attuale: morte come sostanza
o strato finale di un cuore malato.
Oh, vorrei rinascere, ritornare indietro
ma non posso. Troppo ho peccato
di peccati non miei, attribuiti
a posteri, mancati inganni.
Cerco amori nuovi, violente sere.
Perdono chiedo a chi non amai.
Forse verrò domani ad un prato
verde, – e non sarò più solo.
*
Da Proclama sul fascino
Fugace è la giovinezza
un soffio la maturità;
poi avanza tremando
vecchiaia e dura, dura
un’ eternità.
Immagine: Foto di Dino Ignani.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).