Daniel Calabrese, Ruta Dos

da | Nov 20, 2019

La Ruta Dos – che oggi si chiama Autovía 2 – è una strada che passa accanto a Dolores, in Argentina, paese natio di Daniel Calabrese. C’è un preciso sfondo sul quale collocare questi testi, fatto di ghiaia, ciottoli e asfalto: l’esito è una scelta di immagini aspre, quelle che ci aspetteremmo di incontrare lungo le corsie della strada. È stato d’altronde l’autore a dire che la poesia deve «trasformare la realtà senza alterare la verità»; e così i cani, i ponti e la polvere della Ruta restituiscono un immaginario preciso che può, tuttavia, essere sempre soggetto a trasformazioni dall’evidente significato allegorico: quello del libro «È un paesaggio troppo reale, / benché un vetro ci separi / dagli urti quotidiani, / benché ce ne stiamo seduti davanti / al mondo che, in qualunque momento, / può disintegrarsi con appena un taglio di luce» (Prudenza con la realtà). Il dos del titolo suggerisce anche un’altra interpretazione: il due è il numero che consente il dia-logo, il confronto e lo scontro; e proprio questi due aspetti sono al centro della raccolta. Il primo riguarda la parola: parola come conversazione, come momento in cui si verifica l’esistenza dell’altro che ci ascolta o che noi ascoltiamo; parola, soprattutto, come fatto extra-verbale, tanto che molto spesso gli interlocutori non sono uomini, ma animali e soprattutto piante, benché siamo lontanissimi dall’idea romantica di una natura che parla una lingua esprimibile solo con la poesia. La possibilità stessa della parola è, oggi più di ieri, in bilico costante tra inefficacia e totale impossibilità: si tratta allora di imparare ad «ascoltare il silenzio», che è anche un modo per costruire nuove connessioni con il mondo distrutto che ci circonda. In questa riscoperta del silenzio, c’è anche un’idea di comunità che si verifica negli scambi e nelle azioni collettive più che nelle parole. Calabrese predilige comunità piccole, in cui l’azione possa consumarsi tra pochi intimi; ma, oltre a ciò, va segnalato il frequente uso della prima persona plurale, per nulla scontato al tempo del predominio dell’individualismo. In questo mondo fatto di confronti, è forte anche la presenza di un’Alterità assoluta: la morte. Calabrese ha definito questa – e non l’amore – «il grande tema di tutta la poesia ispano-americana, perché l’amore è un’arma di resistenza alla dittatura della morte». La coscienza del ‘fatto-della-Morte’ è condizione necessaria per un esercizio superiore della libertà. La vita, fatta di piccoli gesti che sono piccoli atti di resistenza, si confronta sempre con una realtà molto più cruda e per nulla rassicurante. Presenze come quelle della morte o della malattia vengono sempre esibite, pur cercando di rilanciare un’alternativa fondata sul ritorno all’ascolto e sulla rinnovata capacità di immaginare. E contro l’insinuarsi di odio e paura, contro l’idea di una «poesia […] di cartone» destinata a corrompersi e a sparire senza lasciare tracce, «meno giudizio e più sogno, / fino a conoscere tutto» (Asunto de fe): come dire, l’ipotesi dell’utopia, di una sapienza onirica più che razionale, che però, nel mondo depresso e malato sul quale si snoda la Ruta Dos, può indicare percorsi esistenziali ancora da costruire. Giuseppe Andrea Liberti

Di seguito otto poesie nella traduzione inedita di Alessio Brandolini.

VICINO AL PORTO

Passano i camion.
Si arriva a mescolare il fumo del gasolio bruciato
alla fresca pioggerellina della costa.

Non ci sono poesie perfette
come il sole, come l’ombra.

E ancor meno che parlino di luoghi
vicini a questo porto dove fa freddo,
dove s’impilano contenitori blindati
per la gente instabile e per i topi.

Passano le due metà d’un cane.
La prima con una testa normale, spaventata,
l’altra si dissolve tra nebbia e scabbia.
Alla stazione lo lavarono con paraffina,
di sicuro fu il guercio che sgrassa i vetri,
magari gli regalò un pezzo di pane
e gli ordinò: non morderti più!

Che non si turbi il sonno di Pound.
Se i classici hanno avuto epoche
di miglior circolazione in America,
almeno qui, accanto al porto,
tra il macchinario avvelenato
dalla merda dei gabbiani
(dove passano le due metà d’un cane,
schivando i camion da carico),
nessuno fa più le cose perfette
come il sole, come l’ombra.

*

GLI ODORI DEL PAESE

L’odore del cane bagnato dalla pioggia.
L’odore di minestra nella casa del fabbro.
L’odore e il peso dei vestiti umidi.
L’odore dell’erba appena tagliata.
L’odore di cherosene del Bram Metal.

L’odore del grasso nella ferraglia del treno.
L’odore di gelsomino nelle notti calde.
L’odore del cielo quando si abbassa.
L’odore di prigionia che viene dalla stanza oscura.

L’odore dell’auto nuova.
L’odore dell’incerta andatura lungo il cammino.
L’odore della scala morale.
L’odore del tè al tiglio.

L’odore dell’esaurimento spirituale.
L’odore della bottiglietta di cognac.

L’odore di sporcizia nel sifone della lavastoviglie.

L’odore di Dio,
quando inizia a decomporsi e non si ferma più.

L’odore del vuoto.

*

PRODIGIO

Il lavoro odierno consiste
nel portare una pietra da qui a là.
È una roccia molto pesante,
più d’un bue,
più d’un sacco pieno di pioggia.
È un buco preistorico,
uno specchio nero
che sta per divorarsi il mondo.

Il lavoro odierno consiste
nel sollevare la pietra con gli occhi e collocarla
con dolcezza in mezzo alla strada
così da bloccare i ciclisti,
bloccare la musica di sottofondo,
bloccare la Ruta Dos
all’ora indicata dalle arterie rosse.

E quando ogni cosa sarà sbarrata,
intorpidita dalla pietra,
bloccate le generazioni istruite e caritatevoli,
bloccato l’amore tra le cose naturali
e quelle evidenti,
il lavoro, allora,
consisterà nel tirarla fuori da quel luogo,
sollevare di nuovo la pietra con gli occhi affaticati
e seppellirla da quella parte, lì, nel nulla,
in quel lago di chiusa indifferenza
dove il letto scricchiola, il televisore illumina,
brillano i motori,
il vino scivola dentro la luce,
marciscono la memoria e i dialoghi tristi,
e tutto affonda, con la pietra,
nella più completa delle estinzioni.

*

L’AFFOGATO

Voglio chiarire che non accadde in un fiume
ma fu nella terra stessa che affogai.

L’unico fiume che ho nella memoria
è un sussulto
dove affondano le piccole cose
anche se mai scompaiano del tutto.

Talvolta,
affondano prima che passi il fiume.

E la loro richiesta di aiuto
sempre
arriva tardi.

*

I SUONI INUDIBILI

Tenemmo acceso il microfono
tutta la notte in un bosco desolato.

Il giorno dopo facemmo scorrere la registrazione
e udimmo solo un soffio.
Era come il vento metallico
d’uno sterile pianeta.

La riascoltammo velocemente.
Allora captammo dei rumori leggeri
come se un dialogo tra due alberi
si espandesse dalla campagna
verso la Ruta Dos.

La facemmo correre ancora più veloce
e quei suoni germogliarono
come la conversazione tra due alberi che crescono
e se uno ascolta con attenzione,
con la testa appoggiata alla corteccia,
in alcuni momenti sembrano scricchiolare
parole come «specchio», «miraggio»,
e più lentamente parole come
«croci», «crocette»,
«tabernacolo».

*

QUESTO GIORNO

Non voglio vedere se investono un cane.

Non voglio vedere la gente che balla allo stadio
con quella musica.

Non voglio vedere oggi il marchio delle eliche
sulla pelle dei pesci,
né quell’amore che sulla strada andava a duecento
e mi travolse.

Non voglio vedere quell’altro cane
che estrae dai rifiuti un barattolo di pomodori,
infila dentro l’umida lingua
e la ritira insanguinata.

Preferisco nascondere la testa
dentro un forno,
dentro un sogno.

*

LA CADUTA

Un uomo precipita.
Sembra in cerca di rotte dimenticate, spiagge,
una semina, in quelle regioni perdute
dove ormai non gira più il sole.

Impossibile che sia proprio io
l’uomo che precipita dalla finestra.

Meno male che è crollato
dal suo stesso sguardo
e una carrucola lo fa scivolare
come sottomesso a un piano,
mentre la terra lo cala, lo cala
tendendo la corda marcia
in un lento teatro di suspense.

Meno male che si sfoglia
e svela il suo peso inconsueto,
come un Cristo di Grünewald.

Impossibile che io sia quello che salta dal mondo
e fluttua alcuni istanti sulla sua stessa risata.

Vola come volerebbe un albero
strappato dai temporali
che lavano e sciacquano l’aria.

Impossibile che sia sempre io
l’uomo che precipita da quella finestra,
così estraneo, così nitido.

*

PRUDENZA CON LA REALTÀ

Questo è un paesaggio reale.
Le cose accadono come sott’acqua,
i suoni, la tua voce, quei motori
che in strada trascinano i loro carichi pesanti,
la respirazione del semaforo, una luce,
l’edera che soffoca la notte,
altre luci sferiche nella piazza,
l’aura densa di tutti gli oggetti, come spalmati,
e le colonne, sotto l’umidità d’un cielo
dove ciascun passo rimbomba.

È un luogo così reale
che tutto si mostra
come se esistesse due volte.

Non c’è vuoto,
l’eccesso di materia non lascia spazio al respiro
e allora, chiunque,
sotto la luce frantumata dai rami,
in questo fondo caldo di pantano cittadino,
chiunque, ripeto, si trasforma in pesce.

È un paesaggio troppo reale,
benché un vetro ci separi
dagli urti quotidiani,
benché ce ne stiamo seduti davanti
al mondo che, in qualunque momento,
può disintegrarsi con appena un taglio di luce.

***

CERCA DEL PUERTO

Pasan los camiones.
Se llega a mezclar el humo del gasoil quemado
con la llovizna fresca de la costa.

No hay poemas perfectos
como el sol, como la sombra.

Y menos que hablen de lugares
cercanos a este puerto donde hace frío,
donde se apilan contenedores blindados
para la gente inestable y para las ratas.

Pasan las dos mitades de un perro.
La primera lleva una cabeza normal, asustada,
la otra se disipa entre la niebla y la sarna.
En la estación lo bañaron con parafina,
seguro que fue el tuerto que limpia los vidrios,
quizás le regaló un pedazo de pan
y le ordenó: ¡basta de morderte!

Que no se turbe el sueño de Pound.
Si los clásicos ya tuvieron épocas
de mayor circulación en América,
al menos aquí, cerca del puerto,
entre la maquinaria envenenada
por la mierda de las gaviotas
(donde pasan las mitades de un perro
esquivando esos camiones de carga),
ya nadie hace las cosas perfectas
como el sol, como la sombra.

*

LOS OLORES DEL PUEBLO

El olor del perro mojado por la lluvia.
El olor a sopa en la casa del herrero.
El olor y el peso de la ropa húmeda.
El olor a pasto recién cortado.
El olor a kerosén del Bram Metal.

El olor de la grasa en los fierros del tren.
El olor a jazmín en las noches calientes.
El olor del cielo, que cae.
El olor a encierro que sale de esa pieza oscura.

El olor del auto nuevo.
El olor de la marcha indecisa por la ruta.
El olor de la escala moral.
El olor a té de tilo.

El olor del agotamiento espiritual.
El olor de la botellita de cognac.

El olor a basura en el sifón del lavaplatos.

El olor a Dios,
cuando se empieza a descomponer y no para.

El olor del vacío.

*

PRODIGIO

El trabajo de este día consiste
en llevar una piedra de aquí para allá.
Es una roca muy pesada,
más que un buey,
más que una bolsa cargada de lluvia.
Es un agujero prehistórico,
un espejo negro
a punto de tragarse el mundo.

El trabajo de este día consiste
en alzar esa piedra y depositarla
suavemente en el medio del camino
para que se detengan los ciclistas,
se detenga la música de fondo,
se detenga la Ruta Dos
a la hora señalada por las arterias rojas.

Y cuando todo esté detenido,
entorpecido por la piedra,
detenidas las generaciones ilustradas y piadosas,
detenido el amor entre las cosas naturales
y las cosas manifiestas,
el trabajo, entonces,
consistirá en sacarla de ese lugar,
levantar la piedra nuevamente, con los ojos cansados,
y enterrarla por ahí, en la nada,
en ese lago de cerrada indiferencia
donde cruje la cama, alumbra el televisor,
brillan los motores,
cae el vino adentro de la luz,
se pudren la memoria y las conversaciones tristes,
y se hunden, con la piedra,
en la más completa extinción.

*

EL AHOGADO

Deseo aclarar que no fue en un río
sino en la misma tierra donde me ahogué.

El único río que llevo en la memoria
es un estremecimiento
donde las pequeñas cosas se hunden
aunque nunca llegan a desaparecer.

A veces,
se hunden antes de que pase el río.

Y su pedido de auxilio
siempre
llega tarde.

*

LOS SONIDOS INAUDIBLES

Dejamos andar el micrófono
toda la noche en un bosque desolado.

Al otro día hicimos correr la grabación
pero no se oyó más que un soplido.
Era como el viento metálico
de un planeta estéril.

La hicimos correr más rápido.
Aparecieron entonces los ruidos bajos
como si una conversación entre dos árboles
se expandiera desde el campo
hacia la Ruta Dos.

La hicimos correr más rápido aún
y los sonidos crecieron
como la conversación de dos árboles que crecen
y que si uno escucha bien,
con la cabeza apoyada en la madera,
en algún momento parecen crujir
palabras como «espejo», «espejismo»,
y muy lentamente palabras como
«cruces», «crucetas»,
«humilladero».

*

ESTE DÍA

No quiero ver si atropellan a un perro.

No quiero ver a la gente bailando en el estadio
con esa música.

No quiero ver hoy la marca de las hélices
sobre el cuero de los peces,
ni a aquel amor que corría como a doscientos en la ruta
y me pasó por encima.

No quiero ver a ese otro perro
que saca de la basura una lata de tomates,
mete su lengua húmeda
y la retira ensangrentada.

Prefiero esconder la cabeza
adentro del horno,
adentro de un sueño.

*

LA CAÍDA

Un hombre se derrumba.
Parece que busca rutas olvidadas, playas,
una siembra, en aquellas regiones perdidas
donde ya no gira más el sol.

Es imposible que yo mismo sea
el hombre que cae por la ventana.

Menos mal que se desplomó
desde su propia mirada
y que una roldana lo desliza
como si sujetara un piano,
mientras la tierra lo baja y lo baja
tensando la cuerda podrida
en un lento teatro de suspenso.

Menos mal que se deshoja
y revela su peso inusitado,
como un Cristo de Grünewald.

Imposible que yo sea el que salta del mundo
y flota unos instantes sobre su propia risa.

El que vuela como volaría un árbol
arrancado por las tormentas
que lavan y deslavan el aire.

Es imposible que yo sea alguna vez
el hombre que cae por esa ventana,
tan extraño, tan nítido.

*

CUIDADO CON LA REALIDAD

Esto es un paisaje real.
Las cosas suceden como debajo del agua,
los sonidos, tu voz, aquellos motores
que arrastran sus cargas pesadas en la ruta,
la respiración del semáforo, una luz,
la hiedra apretando la noche,
otras luces redondas en la plaza,
el aura densa de todos los objetos, como ungidos,
y las columnas, bajo la humedad de un cielo
donde retumba cada paso.

Es un lugar tan real
que todo se muestra
como si existiera dos veces.

No hay vacío,
el exceso de materia no deja sitio para respirar
y entonces, cualquiera,
bajo la luz quebrada de estas ramas,
en este fondo cálido de pantano citadino,
cualquiera, digo, se vuelve un pez.

Es un paisaje demasiado real,
aunque un vidrio nos separe
de los roces cotidianos,
aunque estemos sentados frente
al mundo que, en cualquier momento,
se desintegra con apenas un corte de luz.

Daniel Calabrese, poeta argentino che vive in Cile. Ha pubblicato i libri di poesia: La faz errante (Buenos Aires, 1989, Premio Alfonsina Storni), Futura Ceniza (Barcellona, 1994), Escritura en un ladrillo (Kyoto, 1996, spagnolo-giapponese), Singladuras (Fairfield, 1997, spagnolo-inglese), Oxidario (Buenos Aires, 2001, Premio Fondo Nacional de las Artes) e Ruta Dos (Santiago del Cile, 2013, Premio Revista de Libros, e Madrid, 2017, nella collana Visor). L’edizione italiana di Ruta Dos, pubblicata da Fili d’Aquilone, è stata finalista del Premio Internazionale Camaiore 2016. Ha partecipato a numerosi festival e incontri poetici internazionali. Suoi testi sono apparsi su riviste e antologie di poesia ispanoamericana. In Italia è stato incluso ne Il fiore della poesia latinoamericana d’oggi (2016, Raffaelli Editore, a cura di Emilio Coco). Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, giapponese e italiano. Ha fondato e dirige Ærea. Revista Hispanoamericana de Poesía. È direttore di RIL editores, casa editrice di Santiago del Cile.