In anteprima da “CUTUSÌU (Cutusìo)” di Nino De Vita, appena uscito per Le Lettere, pubblichiamo tre poesie e una estratto della prefazione di Vincenzo Consolo.
Comu cucia ’u suli nnall’astaciuni ru sessantatrì (Com’era caldo il sole nell’estate del ’63)
La fuga
I
Addosso ce l’avevo
scirocco e mi faceva,
mentre che camminavo, stentare: mi spingeva
indietro; aggobbivo,
quand’era più insistente,
per vincerlo.
Me ne andavo, andavo, me ne andavo.
La terra si infilava
negli occhi e li pungeva,
la vista si annebbiava.
Allora passavo
il dito medio nell’incavo
degli occhi, raccoglievo le
lacrime e le scrollavo.
Andavo, me ne andavo, andavo.
Andavo per i viottoli, mi
infilavo negli uliveti,
entravo nelle vigne.
Il fogliame, impazzito,
mi vorticava davanti
ai piedi.
Mandorli, rovi, sorbe,
siepi di agave, incontravo.
Pure serpi,
contorte fra le spine, che nociute
fuggivano.
Io ero già stato in questi luoghi
con quelli più grandi
a caccia di conigli,
di lepri, colombi selvatici…
Le schioppettate e le corse, le mani che
si sporcavano di
sangue…
II
Incontravo falchetti
nelle vallate, nelle alture
del feudo, giovani conigli,
sbordi di uccelli,
uccelli che nel cielo
volavano in solitudine…
Contro il vento
andavo, me ne andavo, in
quella solitudine me ne andavo…
Un gruppetto di case,
un baglio, più lontano
scorsi.
E lì mi avviai.
Davanti a un portone rovinato,
sbarrato, restai.
Non sapevo che fare.
Una giallognola,
me ne accorsi, di pecore
intanto di fretta
dall’altura scendeva.
La nube di polvere che si
portava appresso.
Lasciato il gregge di colpo due cagnacci
rabbiosi si misero
a correre verso il baglio,
a correre verso di me.
Dalle carni lacerate
il dolore, lo pensai,
lungo i nervi sarebbe
salito, fino
a dove sta il cervello…
Un fischio lungo, forte,
del pecoraio. E i cani,
giunti ai miei piedi, si
trattennero, pelosi,
grossi. Mi guardavano
con gli occhiacci spalancati,
ringhiosi.
“Ruffuni, Cinnirinu” gridò
quell’uomo.
Alto, con i capelli
neri, baffuto.
A me fissava, fermo.
I cani si misero dietro a lui.
“Sono di Cutusìo” gli dissi.
“E qua che ci fai?” mi domandò.
“Me ne sono fuggito” gli dissi.
“E ora si è fatto tardi,
è sera…”
Avviava il ragazzino
che era con lui il gregge nell’ovile.
Le pecore riempivano
l’entrata: accalcate, spingendo,
premevano, ammaccavano
confuse la pancia sopra
i fianchi del portone.
III
A una a una cominciò a mungerle.
Con una mano, con l’altra
mano, stringeva le mammelle
della pecora – seduto
sullo sgabello – lesto:
dai capezzoli il latte
usciva a schizzi, nel secchio
bianchissimo si faceva
schiuma.
Finì e si drizzò. Si pressò
le mani sulle reni.
“Leonardo, Leonarduzzo…” disse.
***
’A fuiuta
I
Ri ncapu cci l’avia
sciloccu e mi facia,
mentri chi gghia, squittari: m’ammuttava
ô nnarrè; agghimmavu,
quann’era cchiù sirratu,
pi vvìncilu.
Mi nn’jia, jia, mi nn’jia.
’A terra si gnuniava
nnall’occhi e ’i tichiniava,
’a vista ntrubbuliava.
Annunca cci passavo
’u mizzanu nna conca
ri l’occhi, arricugghia ’i
làcrimi e ’i scutulavu.
Jia, mi nn’jia, jia.
Jia pi viulicchia, mi
nfilavu nnall’alivi,
trasia p’ammezzu ê zzucca.
’U fugghiami, fuddiscu,
mi rrufuliava pi
nne peri.
Mènnuli, rrunzi, zzorbi,
zzabbarati, ncucciavu.
Puru vìsini,
turciuti attornu ê spini, chi nquitati
sdàvanu.
Eu cci avia ggià statu nna sti lòcura
cu ll’àvutri cchiù rranni
a caccia ri cunigghia,
ri lebbra, bbeccutènnari…
’I sufunati e ’i cursi, ’i manu chi
si nzivàvanu ri
sangu…
II
Ncucciavu tistareddi
nne vaddati, nne timpi
ru feu, saittuna,
vulati r’aciddami,
aceddi chi nno celu
jianu ’n sulità…
Pi nno nfacciu ru ventu
jia, mi nn’jia, nna
dda sulità mi nn’jia…
Tanticchiedda ri casi,
un bbagghiottu, cchiù nfunnu
ntravitti.
Pigghia e mi cci abbiai.
Ravanti ô ’n purtunazzu
attangatu arristai.
’Unn’u sapia chi ffari.
Una ggiannoria,
mi nn’addunai, ri pècuri
nnastumentri cu ’a prescia
ri nna timpa scinnia.
’U nigghiumi chi si
purtava pi dd’appressu.
Sdannu ra vardia allampu ru’ canazzi
arraggiati si mìsiru
a cùrriri p’u bbagghiu,
a cùrriri p’i mmia.
Ri carni squartariati
’u dduluri, ’u pinzai,
p’i nervi si nn’avissi
acchianatu, pi nfinu
runn’èsti ’u ciriveddu…
Un friscu longu, nziccu,
ru picuraru. E i cani,
junti ê me’ peri, si
trattìnniru, pilusi,
rrussazzi. Mi taliàvanu
cu ll’ucchiazzi rraputi,
chini ri rrungulì.
“Ruffuni, Cinnirinu” cci vuciau
dd’omu.
Un stoccu, cu i capiddi
nìvuri, mustazzutu.
A mmia puntava, fermu.
I cani si cci mìsiru ô rarrè.
“Sugnu ri Cutusìu” cci palisai.
“E cca soccu cci fai?” m’addumannau.
“Mi nni fuì” cci rissi.
“E ora si fici tardu,
è sira…”
Abbiava l’azzunicchiu
ch’era cu iddu ’a massaria p’a mànnara.
’I pècuri jinchìanu
â trasuta: ammazzuniati, ammuttannu,
strincìanu, ammaccàvanu
nfuscati ’a panza supra
i tagghi ru purtuni.
III
A una a una accuminciau a mùncili.
Cu ’na manu, cu ll’àvutra
manu, strincia ’i minni
ra pècura – assittatu
nna fillizza – licchettu:
ri nne capicchi ’u latti
niscia a zichittiuna, rintra ô caddu
mmiancutu addivintava
scuma.
Finiu e s’addizzau. Si ncasciau
’i manu ncapu ’i rrini.
“Nardu, Narduzzu… ” rissi.
***
dalla “Prefazione” di Vincenzo Consolo
Voglio, prima di tutto, ricordare, rievocare un tempo, una stagione vicina, ma che appare ormai lontana, quasi remota. Rievocare un tempo in cui in Sicilia, giovani o non più giovani, come raggiunti da un messaggio, si muovevano da città o paesi e convenivano in un luogo per incontrarsi, conoscersi o meglio riconoscersi. Disegnavano o ridisegnavano, quei viaggiatori, nei loro movimenti da un luogo a un altro, in quegli itinerari, in quella convergenza vittoriniana, una nuova mappa della Sicilia, una nuova topografia dello spirito. Cominciò quel movimento tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Nella frattura che la passata guerra aveva creato, nel vuoto, nello smarrimento e nel vuoto anche per il biblico esodo in quegli anni delle masse contadine dall’Isola, quegli uomini volevano ricreare un’altra mappa, memori di quelle che passate generazioni, in stagioni straordinariamente luminose, erano riuscite a disegnare. Le mappe di Verga, De Roberto, Capuana e le altre di Pirandello, Rosso di San Secondo, Lanza, Savarese, e ancora di Borgese, Brancati, Quasimodo, Vittorini…
E fu, il primo e il più attraente punto di convergenza una città nel cuore della Sicilia, Caltanissetta (con Racalmuto e la contrada Noce – un Cutusìu allora di radi alberi, d’aridume e di vento; un collinare Càusu, una Tebìdi girgentana). Il richiamo era Leonardo Sciascia. Attorno a lui, con lo sfondo della casa editrice del commendatore Sciascia, della rivista “Galleria”, dei Quaderni di Galleria e della collana di poesia Un coup de dés, erano poeti come Stefano Vilardo e Alfonso Campanile, pittori, incisori. Letti e scelti da Sciascia, pubblicavano nei Quaderni Pasolini, Caproni, Bodini, Roversi, La Cava, Fortini, Cesare Vivaldi, Biagio Marin, Volpini, Compagnone, Antonino Uccello… Da Racalmuto si andava poi in comitiva ad Agrigento, dove s’incontravano altri scrittori, poeti. E luoghi di richiamo, di convergenza, furono ancora Palermo, Bagheria – all’Aspra dove imperava con la sua voce di ferro Ignazio Buttitta –, a Catania, a Siracusa, a Capo d’Orlando, in quella contrada Vina dove modulava i suoi versi Lucio Piccolo, a Lentini, a Enna, a Ragusa, a Mineo… Anno dopo anno, si tessè allora una trama di consonanze, si stese un registro di appartenenza, un libro contabile dove crediti e debiti appartenevano a un bilancio non solo delle parole, ma soprattutto dei gesti, s’inscrivevano nella spirituale economia dell’insegnamento e dell’apprendimento. E noi, i catecumeni, gli apprendisti, il maggiore debito l’avevamo contratto con quel maestro, con quel grand’uomo e grande scrittore che è stato Leonardo Sciascia.
Quest’Isola dei destini incrociati si trasformò poi nel giardino dei sentieri che si biforcano. Giunse per me, per altri, il tempo dell’andare, dell’abbandono dell’Isola, dell’emigrazione in altro luogo. Ma quella trama certo non cessava, s’infittiva anzi, s’arricchiva. S’arricchiva con Bufalino. Le crudeli scomparse, le lontananze, gli esili, sembra che abbiano arrestato la navicella che scorreva sul telaio, abbiano tagliato quei fili, relegato la trama in altro tempo. Così non è se ancora tesse e annoda oggi un poeta come Nino De Vita. Il più giovane di noi, egli ha raccolto il testimone di quella stagione, di quel tempo. Un autentico poeta, vero artefice di quel mistero, di quel miracolo che si chiama poesia. Appartato, pudico, da quel suo ònfalo, da quel luogo profondo che è Cutusìu egli ha saputo liberare suoni, parole, ricreare un mondo.
La prima sua raccolta in lingua, Fosse Chiti (Lunarionuovo – Società di poesia, 1984 e quindi Amadeus, 1989) attirava l’attenzione di lettori avveduti: Raboni, Onofri, Di Grado, Delìa… «Nutrita di buone letture novecentesche (da Sbarbaro, direi, a Sereni), estranea a qualsiasi inquietante proposito di oltranzismo o palingenesi formale, la sua poesia vive di una sommessa, incantevole, “inspiegabile” precisione. Erbe, fiori, insetti sono osservati e salvati con un’impassibilità che nasconde e protegge il battito, il tremore di una sottile febbre amorosa» scriveva Raboni. Quell’inspiegabile avanzato da Raboni, conoscendo De Vita, il suo teatro, quell’angolo del mondo che si chiama Cutusìu, quella campagna marsalese tra lo Stagnone e il monte, tra Mozia ed Erice, le saline e le crete, e la luce poi della sua svolta linguistica, del suo primo libretto in dialetto Bbinirittedda, diventa spiegabilissimo. L’asciuttezza, la scabrosità della parola, la perfetta adesione della parola alla cosa, la precisione non potevano che scaturire dalla conoscenza, e dalla conoscenza l’amore. Poesia, quella, del trasalimento di fronte allo spettacolo del mondo, dello stupore di fronte alla natura, al cosmo. Fra zolle, piante, fiori, insetti, uccelli, cieli e acque, volgere di giorni, di stagioni, l’uomo non compare mai, lo si immagina in quest’universo, nella dura fatica dell’esistere.
E qui solo l’occhio del poeta che guarda, nomina e crea. Crea un paesaggio ora edenico ora infernale, rigoglioso e arido, sereno e drammatico. Ci sono echi e temi della grande poesia, dall’antica alla moderna, modulazioni piccoliane come questa: «Scirocco piega il giunco / a ciuffi sulla spiaggia / porta gocce / salate sui germogli…». E c’è ancora, nella cristallina lingua di Fosse Chiti, nella sua scabra sostantivazione montaliana, quel che Montale stesso dice della lingua catalana del poeta Maravall, di scoppiettare di pigna verde sopra il fuoco. «S’aprono per il caldo / sull’albero le pigne / che sono ancora verdi: / è crepitio / come legna che il fuoco / arde». La pura lingua di Fosse Chiti sta per aprirsi come la pigna: ha già del resto in sé delle crepe, dei varchi verso un’altra lingua, verso un più profondo suono: giummo, cianciane, graste sono quei varchi. Del 1991 è il primo libretto che ho ricordato, Bbinirittedda, e quindi, uno dopo l’altro puntuali fino al 1998, fino a L’aranci, altri libretti. Libretti che sono in parte confluiti nella raccolta Cutusìu del ’94. Puntuali m’arrivavano a Milano questi libretti, belli, eleganti, preziosi, pubblicati a proprie spese e quasi sempre stampati nelle stesse tipografie Corrao o Campo, rispettivamente di Trapani e di Alcamo, m’arrivavano con su sempre la stessa dedica “A Vincenzo e Caterina, con affetto, Nino”. Messaggi d’affetto m’arrivavano, d’amicizia, luminosi doni di poesia che venivano da quel Cutusìo lontano, da quella riva moziese di ricordo e nostalgia. Quel passaggio dalla lingua al dialetto che era stato un bisogno e una scelta, metteva De Vita accanto a confrères, ad altri poeti in dialetto che per rigore, per ripudio d’una lingua dominata, saccheggiata, s’era fatta impraticabile, metteva De Vita accanto a Zanzotto, Loi, Baldini, altri. Ci sembrano, questi poeti in dialetto, i veri poeti della fine. Ci fanno pensare a quei poeti e scrittori che presentendo la caduta di Bisanzio, la fine di un mondo, di una cultura – Michele Psello, Anna Comnena, Teodoro Prodomo, Eustazio di Tessalonica… – si misero a scrivere in greco classico, in lingua attica. «Il dialetto non finirà mai di richiamarci, anche in questo momento in cui molti segni sembrano parlarci della sua morte, alla sua forza di presenza, alla sua insospettata capacità di rinnovarsi, alla sua ricchezza e profondità di parola, al suo riportarci al corpo di noi e delle cose» scrive Franco Loi a proposito della lingua di De Vita. E Siciliano: «I poeti in dialetto, oggi in Italia, sono di una specie singolare. Sono una setta di rivoltati in lotta silenziosa e pertinace contro la lingua oleata, vasellinacea, non più colta che si parla su sollecitazione di impulsi che passano via etere dalla vetta d’Italia a Capo Pachino […] Voltata la schiena al parlato consueto […] questi poeti attingono alla sorgiva naturalezza delle lingue materne, e non l’accolgono trascrivendone ingenuamente la nativa purezza: ne fanno oggetto di culto del tutto espressivo,ne potenziano le squisitezze, le possibilità ritmiche e percussive come con l’italiano medio nessuno scrittore riuscirebbe. I dialetti acquistano così una rara e nuova elezione d’arte». La scelta del dialetto, da parte degli attuali poeti, come lingua altra, è dovuta al saccheggio e alla consunzione dell’italiano. Essi sì, i poeti, hanno potuto farlo, perché la poesia è lo spazio del monologo, è l’assòlo del coreuta. Il narratore invece no, egli è costretto a usare, oltre quello espressivo, anche il registro comunicativo. Da qui, nella schiera degli sperimentatori espressivi, quella ricerca costante, attraverso commistioni, innesti, digressioni o quant’altro, di una lingua possibile per poter narrare. Un movimento questo dal basso verso l’alto, dai giacimenti di parole altre, che abbiano dignità filologica, plausibilità di significato e di significante, verso la superficie della comunicazione. Impera e imperversa oggi invece una prosa letteraria in quella lingua tecnologico-aziendale o mediatica di cui Pasolini già nel 1961 ne aveva enunciato la nascita come lingua nazionale. Ancora peggio, si assiste al ritorno di un mistilinguismo di maniera i cui innesti o le cui digressioni appartengono a un dialetto corrotto, osceno, che i media hanno ricreato con intenti comico-grotteschi, e infine oltraggiosi, regressivi. Il neo-dialettalismo dei poeti d’oggi, oggi in cui i contesti dialettali sono pressoché estinti, non è riproposta sentimentale o revanscistica, non è chiusura nel mito: è sprofondamento necessario nella verità seppellita nella lingua originaria, di primo grado, materna, classica, come opposizione alla koiné paterna e sociale, espressione di una società degradata, di violenza e di menzogna. Chiusura, regressione era stata invece in altri tempi la visione pandialettale ed etnomitica di un poeta e scrittore come Alessio Di Giovanni, a cui s’era unito Francesco Lanza. Due scrittori siciliani che poi ingenuamente e fatalmente avevano aderito a quel movimento linguistico-estetico e politico che si chiamò Felibrisme, promosso in Provenza da Federico Mistral. Altra consapevolezza linguistica e avvertenza dei rischi insisti nei vagheggiamenti dialettali, aveva invece il filologo Pirandello, che a Bonn stendeva quella sua tesi Fonetica e sviluppo fonico del dialetto di Girgenti (ripubblicata ancora nel 1984 dalle edizioni della Cometa e prefata da Giovanni Nencioni). Per quella consapevolezza, Pirandello poteva mettere tra virgolette le sue opere dialettali, filologicamente perfette, prendere le distanze dal quel dialettalismo allora imperante dei Martoglio e dei teatranti catanesi, Angelo Musco in testa, e scrivere poi la sua sterminata opera in quell’italiano controllatissimo, espressivo e insieme fortemente comunicativo.
[…]