Quattro poesie da “Corpi solubili” di Mario De Santis, uscito per la collana “Gialla Oro” di Samuele editore in collaborazione con pordenonelegge.
(DOPO LA STORIA, I FIGLI)
Nei sogni non c’è mai il cielo o una parete di carbonio, un velo
dove guardare sangue nella cenere, senz’anni, né filo di coriandoli.
Conta il risveglio, compare dal fondo un lascito, somiglia
a un calcio all’aria di ragazzo, gli occhi gialli,
lento, impreparato ad avere in punta i nervi che colpisce,
le sneaker sporche, la smania a friggere per l’impossibile.
Il piede: un conio sulla porta chiusa, il vento fuori
che decide e urla, ombra di tutti i nostri agguati. La storia genera
perché niente splende se non brucia, come le guerre
il tempo delle colpe si consuma in una rissa.
È dopo anelli di morte che si ricomincia a capire gli anni
da un capillare occluso, dalla spirale di tagli, di abbandoni, l’aria
vuota di una conchiglia – e l’ascolto cieco del rumore,
al fondo dove i figli dei fantasmi sono un unico corpo immobile
che ci sopravvive.
*
(IMPROBABILE)
– a Helena Janeczeck –
Per questo, anche senza vivere, tutto funziona
e parla come i fogli di montaggio dei mobili svedesi
con dei vaghi disegni perentori: inutili i nomi
del nord, le parole d’arredo in capsule comuni
(“hanno lo stesso, come noi”) senza vedere come sia
uno nell’altrui, la vita: una spirale di misure, un capogiro.
Restare nelle cose: com’ è improbabile ogni tipo
di congedo, ogni veglia di giorno
e dentro l’avere già vissuto dentro un armadio
compresso di vestiti appartenuti a morti.
Come da un tunnel a sola entrata, fin qui svegliarsi
in un giorno e averlo già lasciato:
tutta la somma di ore al mattino
si moltiplica con il formicolio delle mani appena invadiamo
viali o con le braccia aggrappate in un bus, si estende
a tutti quelli che hanno in silenzio lo stesso
divano, il lavello, l’armadio, ma non lo chiamano più
per quel nome (spesso c’è il panico delle cose comuni).
Un tempo era il fulmine a dare l’enigma, ora è il calore
che combacia alla mano che si aggrappa a quella vicina
sa di vita che sta tra il capo chino e il vapore
e sa di niente, nonostante quello che diciamo.
Anche fare un lavoro precario, anche scrivere addio,
nessun atto è più urgente, se tutto è solo immediato
e si ripetono solo le attese disperate: chi è muto
davanti a un coltello, chi ha perso le chiavi
o un paese e sta fermo come una farfalla
sull’epidemia di carezze, un calore luminoso.
Chi ha affogato dolore sbarcando nel nostro vuoto.
Nel buio si raccolgono, come in posacenere, ombre da sbuffi
cupi, da grate vicine al marciapiede, da crepe (nei volti
un sottofondo di sangue e preghiere).
noi non lasciamo più orme, qui c’è il catrame appena messo,
deviazioni e strade interrotte
ma da dove parlano quelle, è un tumulto,
una tosse di veleni: vanno a grappoli dal Sahara
al carbonio da condividere con noi, assenti e presenti,
nelle mattine di malesseri, disgusto, di sale nei cappotti
dove c’è vomito, e dire no, e non voltarsi,
essere soli, toccare qualcuno davvero. Lo abbiamo
ma non è nostro il giorno da riempire,
come le ragazze dell’amore, tra minacce e desideri.
“Lo dimentichiamo, amica mia” – salutandosi i due
non vedono la fluorescenza che hanno le risposte,
si siedono, scomposti e ricomposti in una replica a sera,
ritornando dal lavoro, sul divano color sabbia, guardando
le spie luminose, senza poter accendere nulla.
Sentono alla fine il giorno sognato come l’ultimo, incerto
materiale di una veglia, che somiglia a ciò che lo nega:
un corollario, un melodramma, un testamento.
“ E come credi finirà?”
*
Forse un’invasione, dimenticate le lanterne
dimentica chi sei, l’io-tutti nella febbre
case in fila deragliano, dinastie di massa nei “vorrei”,
la congestione regna, mentre sfilano nomi di ferro:
chang lee hui, zang doi feng, jimmy lai
corona e container, l’aspetto universale dei voleri
composto in sillabe, nei desideri pescano il mondo (si genera).
Non resta agli occhi un “mai”. Un vecchio passeggero
legge solo disegni e cicatrici (si lascia la casa, nessuno risponde).
Ora nella vertigine del mare aperto, nemmeno voltarsi:
nessuno conosce nessuno, tutti clandestini tranne la merce
che viaggia verso dove non si arriva, voi che non mi siete.
*
L’uomo che dalla riva guarda il fiume è vecchio e artificiale
non ha domande però le insegue nella gola, ai noduli
baciati dai nomi che non sa, li soffia, è l’aria che scorre insieme
dal fondo. non l’acqua dei tumulti, che entra nei sogni
e li allerta: più la gora, limata di alghe – rischio di scivolo
l’acqua sa dare morte, come è naturale.
L’uomo che guarda il fiume non vede i suoi bisogni,
il sole che si scioglie negli alcani cerosi, lontano ronzio, pianura:
soprassalto per lui che sta nei fiori e non sa, né conta
i minuti. Passano nell’onda e nel modo della luce
tremula, nell’essere a cubetti, mai verticali, diretti.
Lo tengono nell’esercizio, finché esiste, per essere osservato
come cosa oscura.
Avido, in un deserto nuovo, finalmente cancella
tutto quello inizia da prima, dalla riva e non vede
le paraffine versate, la melma muta di schiuma
e concimi. Sarà il silenzio l’imprevisto del futuro,
c’è bisogno di incidenti, mulinelli.
Adesso il vecchio guarda il ponte, verso Bereguardo
pieno di rombo, poi più nulla. un’aria turbata raccoglie
le schiume in mezzo ai moli coi paletti marciti. Generazioni
sospese che attraversano insicuri la corrente,
non conoscono estati inferme, nel pensiero
nel guizzo storto di un cormorano luce di un tesoro.
Adesso che è morto in questo nulla imprevisto
si raccolgono a coro cadaveri deformi dei pesci e delle rane:
il canale porta la piena, esistono solo i petali senza colore
e le gocce di colatura bianca. Si mette confusione al sangue:
la vena scorre dove il fiume tace, chiama ancora vita
i nostri sguardi, con l’inganno, con l’abbaglio della schiuma
rosa che rimane, coi suoi dolci movimenti della pace, bellissima
sospesa, sull’onda di risacca, nel giorno che si estingue.