Cinque poesie del poeta brasiliano Carlos Drummond de Andrade, nella traduzione inedita di Leonardo Guzzo.
JOSÉ
E ora, José?
La festa è finita,
la luce è spenta,
la gente sparita,
la notte monta.
E ora, José?
Dimmi di te…
che sei senza nome
e irridi gli altri,
di te che fai versi,
che ami, protesti…
Dimmi di te.
Sei senza moglie,
senza parole,
senza un affetto,
non puoi più bere,
non più fumare,
sputare non più,
la notte è fredda,
il giorno non viene,
il tram non arriva,
il riso non esce,
langue l’utopia
e tutto ebbe fine
tutto fuggì
tutto ammuffì.
E ora, José?
E ora José?
Il dolce tuo dire,
l’istante di febbre,
la fame e il digiuno,
la tua biblioteca,
le tue labbra d’oro,
il vestito di vetro,
la tua incoerenza,
l’odio – e ora?
Con le chiavi in mano
vuoi aprire la porta:
non esiste porta;
vuoi morire in mare,
ma il mare è asciutto;
vuoi andartene nel Minas,
ma il Minas non c’è più.
José, e ora?
Se ora gridassi,
se ora gemessi,
se ora suonassi
un valzer viennese,
se ora dormissi,
se ti stancassi,
se poi morissi…
Ma tu non muori,
sei duro, José!
Solo al buio,
come un randagio,
senza una teogonia,
senza pareti nude
a cui appoggiarsi,
un cavallo nero
per correre al galoppo,
tu marci, José!
José, verso dove?
NEL MEZZO DEL CAMMIN
Nel mezzo del cammin c’era una pietra
c’era una pietra nel mezzo del cammino
c’era una pietra
nel mezzo del cammin c’era una pietra.
Mai scorderò questo evento
nella mia vita di retine estenuate.
Mai scorderò che nel mezzo del cammin
c’era una pietra
c’era una pietra nel mezzo del cammino
nel mezzo del cammin c’era una pietra.
POEMA A SETTE FACCE
Quando nacqui, un angelo storto
di quelli che vivono nell’ombra
“Su Carlos” mi disse, “vai inetto nella vita”.
Le case spiano gli uomini
che vanno dietro alle donne.
Sarebbe blu il pomeriggio,
se non fosse per i tanti desideri.
Il tram passa pieno di gambe:
gambe bianche, nere e gialle.
Perché tante gambe, Dio mio,
domanda il cuore.
Però i miei occhi
non chiedono niente.
L’uomo dietro i baffi
è serio, franco e forte.
Quasi non parla.
Ha pochi e rari amici
l’uomo dietro i baffi e gli occhiali.
Mio Dio, perché mi hai abbandonato,
se sapevi che io dio non ero,
se sapevi che ero fragile.
Mondo mondo vasto mondo,
se io mi chiamassi Raimondo
sarebbe una rima, non una scelta migliore.
Mondo mondo vasto mondo,
più vasto del mio cuore.
Non dovrei dirlo
ma questa luna
e questo cognac
mi bagnano gli occhi da morirne.
AMARE
Che può fare una creatura se non,
tra le altre, amare?
Amare e scordare, amare e male amare,
amare, disamare, amare.
Sempre, anche con gli occhi vitrei,
amare.
Che può, chiedo, l’essere amoroso,
solo, nell’orbita universale,
se non ruotare, lui pure, e amare?
Amare quel che il mare porta a riva,
quel che sommerge e quel che nel vento marino
è sale, o bisogno d’amore, o mera ansia.
Amare solennemente le palme del deserto,
quel che è grazia o confidente adorazione,
e amare il rozzo e l’inospitale,
un vaso senza fiori, un pavimento di ferro,
e il petto inerte, la strada vista in sogno, e un uccello rapace.
Questo è il nostro destino: amore senza calcoli,
diviso fra le cose perfide o vane,
donarsi senza freni a una completa ingratitudine,
e nella vuota conchiglia dell’amore il voto pauroso,
paziente di più e più amore.
Amare il nostro stesso difetto d’amore,
e nel segreto di noi amare l’acqua implicita,
il bacio tacito e la sete infinita.
CONGRESSO INTERNAZIONALE DEL TIMORE
Provvisoriamente non canteremo l’amore,
che si è ritirato più in basso dei sotterranei.
Canteremo il timore, che sterilizza gli abbracci,
non canteremo l’odio, perché esso non esiste,
solo esiste il timore, nostro padre e compagno,
il grande timore delle steppe, dei mari, dei deserti,
il timore dei soldati, il timore delle madri, il timore delle chiese,
canteremo il timore dei dittatori e quello dei democratici,
canteremo il timore della morte e quello al di là della morte.
Poi moriremo dal timore e sopra le nostre tombe
nasceranno fiori rossi e timorosi.