Il Canto [The Singing, da The Singing, 2003]
Ritornavo a piedi lungo un pendio verso casa mia un mite pomeriggio sotto ai fiori
dei peri che qui impazziscono sgargianti ogni primavera con quel loro trasformarsi
quando un giovanotto svoltò da un angolo cantando no era più un gridare cadenzato
che per lo più non riuscivo a capire credo perché il giovane era nero e parlava nel gergo dei neri
Non mi importava capivo che la canzone se la stava inventando il che mi fece piacere lui aveva un bell’aspetto
tarchiato vestito con un certo stile i calzoni larghi chiaramente pieno di sé e ciò spiegava il suo afflato lirico
Procedevamo nella stessa direzione e a quel punto mi notò lì quasi di fianco a lui e “Grosso”
gridò-cantò “Grosso” e io pensasi a quant’era strano che la mia statura venisse incorporata nel suo canto
Così sorrisi ma la faccia del giovane non dette alcun segno anzi lui guardava di proposito altrove
e la sua canzone cambiò “Non sono un tipo per bene” intonò “Non sono non sono un tipo per bene”
Non era sottintesa alcuna minaccia non avvertii alcun particolare pericolo ma lui voleva assicurarsi che capissi
che se il mio sorriso significava che io mi immaginavo una qualsiasi specie di concordia tra di noi mi sbagliavo di grosso
Tutto qui non accadde altro il suo canto tornò a essermi indecifrabile e lui arrivò
a destinazione una casa dove una bimba con le trecce lo aspettava in veranda e nient’altro
Nessuno vide nessuno sentì tutte le domande non poste e inevase vennero lasciate dove stavano
Mi venne in mente di rispondergli cantando “Neanch’io sono un tipo per bene” ma non mi venne la musica
E poi non l’avrei detto sul serio né lui ci avrebbe creduto entrambi conoscevamo il nostro ruolo
nel duetto che avevamo composto nell’equazione che costituivamo nelle convenzioni a cui eravamo condannati
A volte pare anche quando non c’è nessuno che qualcuno qualcosa stia guardando e ascoltando
qualcuno che rettifichi rifaccia rimodelli un’altra volta questo lasso di tempo anche se nessuno ha visto né sentito e lì non c’era nessuno
* * *
Grandi Scimmie [Apes, da Wait, 2010]
Un ceppo, leggo, di una specie di scimpanzé ingaggia guerre territoriali,
e quando l’… esercito, mi sa che lo si deve chiamare, di una tribù prevale e cattura un nemico,
“diversi maschi tengono fermo per una mano o un piede un rivale così che la vittima possa essere colpita a volontà”.
Ciò ci turba profondamente: se esseri con cui condividiamo così tanti geni sanno essere tanto crudeli,
che speranza c’è per noi? E ancora, “rivale”, “vittima”, “volontà”: termini così altamente antropomorfici
non fanno sembrare i conflitti sociopolitici di questi primati più brutali di quello che sono?
Gli scimpanzé che io e Catherine abbiamo visto nella riserva sull’isola in Uganda li abbiamo detestati.
All’opposto dei pacifici gorilla nella foresta di Bwindi, litigavano, strillavano come pazzi,
con il maschio dominante che tiranneggiava gli altri; erano, in fin dei conti, troppo simili a noi.
Un’altra isola, tra le mie letture recenti, su cui Colombo, durante il suo ultimo viaggio,
incontrando alcuni “Indiani” che l’avevano accolto con curiosità e calore, scrisse,
prima di incatenarli e ridurli in schiavitù: “Non sono neanche capaci di ammazzarsi a vicenda”.
Mi è venuto da pensare che ho letto abbastanza; alla mia età non faccio altro che consolidare la mia tristezza.
Certo, i giornali: guerra, terrore, tortura, corruzione – sono come schegge di vetro nella mente.
Al tempo in cui non sapevo niente, leggevo sempre: poesie, romanzi, filosofia, mitologia,
ma a malapena davo un’occhiata alle notizie, esisteva una distanza tra ciò che poteva accadere
e la parte senziente di me: adesso tutto mi pesa tanto che riesco a muovermi con difficoltà.
Gli Analecta dicono che i popoli nell’età dell’oro non erano consapevoli di essere governati, vivevano e basta.
E io, sono transitato nella mia età dell’oro senza nemmeno accorgermene?
Oro, eh? Missili nucleari puntati alla testa, razzismo, sessismo, disprezzo per i poveri.
Ed eccomi lì, che leggo. Cosa ho imparato? Tutto, niente, troppo poco, troppo…
Quel tanto che basta a portarmi fin qui: una scimmia allampanata, i capelli bianchi, un libro, di cui ancora volto una pagina.
* * *
Scrittori che scrivono morendo [Writers Writing Dying, da Writers Writing Dying, 2012]
Ne potrei elencare molti, ma non lo farò, che si sarebbero infuriati a morire nel sonno, e così son morti:
inconcepibile, avrebbero reclamato, senza mai poter perdonare che la morte concepita per se stessi
venisse loro sottratta così rudemente, così crudelmente, in cui non si sarebbero sentiti come guanti di gomma appiccicosi
sfilati dalla più profonda intimità che erano riusciti a serbare in cuore tanto a lungo—tutto svanito,
sperperato, sprecato, per cosa? Morte fragorosamente noiosa fintanto che si è in grado di pensarla e di scriverne.
Pensa, scrivi, scrivi, pensa: continua solo a correre sempre più forte e non ti accorgerai nemmeno d’esser morto.
Il difficile è quando non pensi né scrivi e per quanto ne puoi sapere sei morto
o potresti benissimo esserlo, senza nemmeno una parola per te stesso, solo quel risucchio gorgogliante come una pompa cardiaca o una cannuccia
in un milk-shake e la morte che una volta voleva solo che con una ninnananna la si facesse riaddormentare con le sue vecchie e stanche zanne
mi tiene tra le fauci!—e dove diavolo sei finita tu, quel frammento del morire che una volta chiamavamo Musa?
Ebbene, morti o no, almeno c’è il fantasticare di qualche scribacchino, uno di quelli che pensano e scrivono,
forse tu stesso, in cui ti libri nel vuoto siderale, e non solo: hai un banjo tra le mani
e arpeggi di gusto, e canti, con la mascella che pende e si storce un po’ di lato come capita a chi
è follemente felice—canti canzoni o nemmeno canzoni, solo suoni di sillabe strampalate
così che sei evaso perfino dal linguaggio, dalla chiacchiera, dal dover scrivere l’idiota chiacchiericcio.
Ma allo stesso tempo, non è forse questo l’esser morti, con quella mosca-Emily che ti ronza sul muso
e che tu canti quasi come fece lei; e allora che importa se sei morto nel sonno o ti sei gettato dentro al morire
come quella parte della tribù, alla Sylvia-Hart, che troppo presto ha smesso di essere e ha tralasciato qualche strofa?
Tu sei ancora a mezz’aria con il tuo banjo-non-banjo, e se sei morto o addormentato a chi importa davvero?
Che pacchia svegliarsi, però! E che pacchia anche se non ci si sveglia! Continua a morire! Continua a scriverlo!
*
NB: Emily è Emily Dickinson; Sylvia è Sylvia Plath; Hart è Hart Crane.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).