Il 1 luglio scorso, a Parigi, presso la storica libreria italiana Tour de Babel, si è svolto l’incontro Che lingua sei. Diversità, passaporti, identità: la poesia italiana contemporanea in una prospettiva transnazionale plurilingue, organizzato e condotto da Mia Lecomte, Giovanni Solinas e Sarah Ventimiglia, membri del centro di ricerca Circe dell’Université Sorbonne Nouvelle-Paris 3, fondato da Jean-Charles Vegliante (in guisa di introduzione, si rimanda all’intervento di quest’ultimo La scène parisienne d’un jeune Italien expatrié). La sfida è stata quella di proporre per la prima volta uno sguardo differente sulla poesia italiana, che permetta di iscriverla nel solco di quegli scambi transnazionali che caratterizzano ormai l’insieme delle letterature europee ed extra europee. La scelta di inquadrare la poesia italiana contemporanea nella prospettiva dell’utilizzo della lingua, infatti, consente di interrogare il rapporto tra le varie lingue ingaggiate dall’espressività poetica: la scelta del plurilinguismo, di lingue “minoritarie”, della traduzione e, più in generale, il risultato di tutti i transfert culturali. Tutte questioni critiche che rappresentano d’altronde gli assi strutturanti del Centro di Ricerca Circe, che ha promosso la manifestazione in sinergia con la rivista di poesia comparata «Semicerchio». Antonella Anedda, Marco Giovenale e Eva Taylor – i tre poeti invitati a esprimersi sull’argomento – dopo una lettura dei propri testi, si sono confrontati con Fabio Zinelli (ricercatore presso l’École Pratique des Hautes Études e redattore di «Semicerchio») e i membri dell’équipe Circe sulle ragioni di una visione poetica ancora largamente dominata dalla distanza tra l’universo della produzione “stanziale” e l’italofonia. Un’occasione unica di dialogo – non a caso pensata fuori dall’Italia –, il primo di una serie di appuntamenti che si svolgeranno con cadenza annuale in altre capitali europee.
A seguire, la stesura integrale dell’incontro (a cura di Enrica Boni):
Sarah Ventimiglia:
L’incontro che proponiamo, sull’identità linguistica della poesia italiana contemporanea, si svolgerà – per ovvie ragioni – in italiano, con la possibilità di tradurre alcuni interventi in/dal francese. Ci teniamo, innanzitutto, a ringraziare Fortunato Tramuta che ci accoglie gentilmente nella libreria Tour de Babel, il cui nome è peraltro perfettamente in tema con la presente manifestazione. Tale incontro, promosso dalla rivista di letteratura comparata «Semicerchio», s’inserisce all’interno del ciclo seminariale del Centro di ricerca CIRCE dell’Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3. CIRCE sta per Centre Interdisciplinaire de recherche sur la Culture des échanges. Come indica il nome, questo centro, fondato da Jean-Charles Vegliante, si occupa di fenomeni migratori, in senso lato, e, contestualmente, di letteratura, considerata sempre nell’ottica dei transiti transnazionali. La maggior parte dei lavori prodotti dai ricercatori che ne fanno parte ruotano, infatti, attorno alla questione della ricezione, della pratica-teoria della traduzione e del plurilinguismo, con una particolare attenzione al linguaggio poetico.
Tale incontro va concepito come la prima tappa di un appuntamento, idealmente a cadenza annuale, che si pone l’obiettivo di documentare in che modo evolva il panorama poetico italiano, in un’epoca in cui lo spazio di produzione nazionale non può che essere definito alla luce di una rimessa in discussione radicale delle sue frontiere. Ci riferiamo, in primis, alle frontiere geografiche, con la questione dell’attività letteraria in lingua italiana prodotta al di fuori dell’Italia o da scrittori di altre nazionalità che usano l’italiano come lingua d’espressione letteraria. In secondo luogo, pensiamo alle “frontiere” proprie ai generi letterari che portano a interrogarsi sullo statuto attuale del prodotto poetico: quale/i lingua/e per la poesia? Che tipo di rapporto con la tradizione novecentesca (e quale tradizione)? Come affrontare le forme ibride che vanno dalla poesia in prosa, alla performance, dall’installazione ad altre realizzazioni intersemiotiche?
Di fronte a un “paesaggio poetico” (Andrea Inglese) multiforme, che sembra opporre una certa resistenza ai diversi tentativi di sistematizzazione, la posta in gioco del nostro progetto consiste nel proporre uno sguardo nuovo sulla poesia italiana che permetta di iscrivere quest’ultima all’interno degli scambi transnazionali che caratterizzano ormai la totalità delle letterature europee ed extra-europee. Per questa ragione è necessario proporre, secondo noi, un confronto diretto tra chi crea e chi concorre a definire (attraverso i criteri ermeneutici che sottendono ogni processo di selezione – inclusione/esclusione, legittimazione e consacrazione) il canone della poesia contemporanea in lingua italiana. Poeti e critici dunque, che invitiamo a discorrere sulle ragioni di una visione della poesia ancora largamente dominata dalla frattura tra l’universo di produzione “stanziale” e l’italofonia.
Per creare le condizioni – effettive, materiali – affinché un dialogo proficuo si produca tra autori e testi rappresentativi, abbiamo scelto di concentrarci su un aspetto centrale della scrittura poetica tout court, cioè la sua componente linguistica. La lingua, sine qua non di qualsivoglia creazione letteraria, rappresenta, in effetti, insieme alla metrica e all’enunciazione poetica, il luogo privilegiato da cui osservare le evoluzioni principali del linguaggio della poesia.
Che lingua fa? è, non a caso, il titolo eloquente dell’ultimo numero della rivista «Nuovi argomenti» (n. 73, gennaio-marzo 2016), che si occupa della questione della lingua nella letteratura contemporanea. Ora, diversamente dall’articolo firmato da Carabba – pubblicato all’interno di questo numero – su “La lingua della poesia”, che non fa che riprodurre e alimentare alcune tassinomie poco fruttuose – come quella che oppone al “tecnicismo” della sperimentazione formale la priorità dei contenuti –, ci preme mettere in evidenza, in questa sede, quali sono le nuove declinazioni della lingua poetica – che vanno da una certa medietas linguistica, alle diverse forme di una poesia chiamata “di ricerca”– e quali i possibili punti di contatto e/o di frizione con le lingue della poesia transnazionale.
L’incontro sarà strutturato nel modo seguente: dopo una presentazione degli autori invitati e del loro percorso, la parola sarà data ai poeti, dalla cui voce ascolteremo alcune poesie – momento cardine dell’incontro che intende rimettere al centro del dibattito la “parola poetica”. Seguirà il momento della discussione, animata dal critico e ricercatore Fabio Zinelli, directeur d’études all’École Pratique des Hautes Etudes di Parigi. Infine, è previsto un dibattito con il pubblico.
Mia Lecomte:
Anch’io cercherò di essere brevissima. Siamo qui per sentire i poeti e, soprattutto, siamo qui per sentire i testi, che sono sempre i grandi assenti quando ci sono incontri su questi argomenti, che finiscono inevitabilmente in lunghe dissertazioni teoriche lontanissime dalle parole della letteratura.
Solo due pensieri introduttivi, in particolare a Eva Taylor e a quello che viene definito ora come letteratura – in questo caso poesia – trasnazionale italofona. Una definizione che è venuta dopo tutta una serie di altre: “di immigrazione”, “nascente”, “della migrazione”… La nascita ufficiale di tale letteratura viene collocata intorno alla fine degli anni ’80, periodo in cui la cosiddetta “Grande Migrazione” ha investito il nostro paese. Ma la data può essere anticipata, in quanto è già dagli anni ‘60 che sono iniziate le prime “migrazioni necessitate”, dislocazioni lontane dalle scorribande culturali e linguistiche degli intellettuali dei secoli precedenti. A seguito di tutta una serie di dinamiche storiche e politiche innescatesi nel secondo Dopoguerra, in quegli anni cominciarono ad arrivare in Italia autori che avevano dovuto lasciare “necessariamente” il proprio paese alla ricerca di una terra d’asilo, sì, ma che doveva essere innanzitutto una patria di parole. Questa è una precisazione importante, in quanto si sta parlando di autori che già scrivevano nella propria lingua madre, di quegli “scrittori migranti” da non confondere con i “migranti scrittori”, resi cioè scrittori dalla migranza, di cui ci si è occupati in particolare nella prima fase “certificata” del fenomeno. Autori che erano già narratori e poeti nella lingua madre e che quindi hanno fortemente voluto l’incontro con la nuova lingua. Il loro italiano – e bisogna qui precisare che tutto il filone della letteratura post-coloniale non è che una parte della letteratura transnazionale italofona – non è una lingua imposta, assimilata durante l’educazione scolastica, ma una lingua scelta liberamente da adulto ad adulto, una lingua che è una lingua sorella, una lingua amante, che ritorna in un certo senso ad essere una lingua madre nel momento in cui il suo uso letterario comporta una rinascita, la rinascita con nuove parole.
E sono autori, soprattutto quelli del primo periodo, degli anni ’60, già molto noti nell’ambito delle proprie letterature – si pensi per esempio a Murilo Mendes o a Rodolfo Wilcock – che si sono trovati incastrati tra le letterature nazionali, quella che hanno lasciato alle spalle e quella verso cui si sono incamminati, sperduti in una terra di nessuno, in una specie di CIE delle parole in attesa di una identificazione di qualche genere. Per esempio, tutta la produzione in italiano di Wilcock fino agli anni ’80 in Argentina non è mai stata presa in considerazione; e il suo nome non figura in alcuna antologia poetica inerente gli anni della sua permanenza in Italia. E Ipotesi, che è il testo che Murilo Mendes ha scritto dopo 18 anni di residenza a Roma, in Brasile viene considerato estraneo al corpus delle sue opere, così come non esiste in Italia, dove quasi nessuno sa che Murilo Mendes ha scritto in italiano. Questo, appunto, per dire che, dagli anni ’60 in poi, la zona grigia di questi autori ubiqui, ibridi, inclassificabili si è venuta allargando tanto che ci si è trovati nella necessità di riconsiderare i criteri di inclusione nel canone delle letterature nazionali, quando non l’esistenza di queste ultime.
Da qui siamo partiti per il nostro incontro di stasera, spinti in particolare, come dicevo, dall’esigenza di un confronto sui testi. Per quanto riguarda gli autori italofoni ormai da più di vent’anni in Italia – sto parlando della seconda ondata, quella degli anni ’90 – come per gli illustri esempi precedenti, i loro nomi sono completamente “trasparenti”, non si materializzano in alcuna ricognizione critica, non vengono inclusi in alcuno studio dedicato alla letteratura, alla poesia italiana contemporanea. E qualora occasionalmente vi si faccia cenno, ne viene spesso frainteso, banalizzato, il passaggio linguistico. Perché non è che alla scelta/necessità di lasciare una lingua consegua automaticamente l’adozione della lingua altra. Il passaggio comporta delle differenze, vari gradi di padronanza e uso. Gli autori transnazionali italofoni sono molto diversi l’uno dall’altro, a seconda del loro percorso migratorio, delle culture che hanno attraversato, delle lingua che hanno abitato; vengono “strutturandosi” in composizioni alchemiche uniche, che, al di là di alcune costanti, li distinguono fortemente l’uno dall’altro. Anche l’approccio alla lingua d’adozione è molto diverso: per ognuno di essi, dietro all’approdo all’italofonia, c’è un altro percorso e, dunque, l’italiano significa altro. A seconda delle culture che si vengono ad incontrare, della struttura grammaticale delle lingue che entrano in relazione, dalla loro “partitura” ritmica, e anche del grado di lacerazione comportato dalla migrazione, che chiaramente ha una ricaduta linguistica, l’uso delle lingue in gioco cambia: ci sono autori che passano definitivamente all’italiano e si autotraducono poi nella lingua madre; oppure, all’opposto, che continuano a scrivere nella lingua madre e si autotraducono in seguito in italiano; o che mantengono parallelamente una produzione bilingue; o che scrivono un genere – prosa, poesia, teatro – nella lingua madre e un altro in italiano; o che utilizzano contemporaneamente due o più lingue…
Il discorso potrebbe diventare molto lungo e mi fermo. Aggiungo solo una precisazione finale, a mio avviso importante, proprio per presentare Eva. Su questa poesia in italiano grava una duplice aspettativa. Da un lato, dal punto di vista dei contenuti, si pretende che i testi parlino esplicitamente di migrazione; ci si aspetta che la narrativa soprattutto, ma anche la poesia, affrontino tematicamente il dramma, le problematiche dei transiti, del “dispatrio”, non comprendendo quanto tutto questo, invece, entri comunque a vari livelli nel corpo – e il riferimento al “corpo” non è casuale – del testo. Dall’altro lato, l’aspettativa è invece linguistica: quello che viene contestato a questi autori è di non avere un impatto abbastanza eversivo sulla lingua italiana; di non portare con sé i reperti, le tracce, anche gli esotismi, della lingua madre e, allo stesso tempo, di non osare una forzatura avanguardistica dell’italiano. Ma sono considerazioni che nascono da pregiudizi, e non considerano il fatto che, per questi autori, spesso l’italiano è una lingua proprio della “distanza”, che serve per raffreddare il passato e per poter dire in italiano, quindi con uno strumento neutro, tutto quello che non poteva essere più detto nella loro lingua madre. E quindi è chiaro come, nel cammino di salvezza “verso” – e non “contro” – la lingua italiana, venga scelto un “iper-italiano”. I cambiamenti, le modificazioni, anche le innovazioni, avvengono molto più profondamente, sottotraccia. Non si tratta di un gioco intellettuale a suon di manuali di metrica o di grammatica per scardinare la lingua, come ci ha abituati una certa sperimentazione. La lingua italiana qui ha una funzione precisa. Come giustamente sottolineava Amelia Rosselli, la più grande poetessa transnazionale in italiano: “Noi non eravamo dei cosmopoliti, eravamo dei rifugiati”. Questo fondamentalmente fa la differenza, appunto, nell’uso della lingua.
Come nel caso di Eva Taylor, che presento brevemente. Nata in Germania Est, è stata costretta a riparare nella Germania Ovest poco prima della costruzione del Muro, come racconta nel romanzo Carta da zucchero, pubblicato da Fernandel nel 2015. Linguista, giunta in Italia intorno agli anni ’80, insegna all’Università di Bologna e vive a Firenze. Eva ha una produzione bilingue – perfettamente bilingue – in tedesco e in italiano. Ma è arrivata alla sua poesia dall’italofonia, in tedesco non aveva scritto quasi nulla in precedenza. E il suo bilinguismo non è pacificato, come ci leggerà, ad esempio, nella poesia dove parla delle sue due bocche – “da una parlo e dall’altra sanguino” –, ed è in costante evoluzione. Delle sue due raccolte di poesie – l’Igiene della bocca, del 2006, e Volti di parole, del 2010 – vorrei che poi lei stessa si soffermasse soprattutto sulla prima, fondamentale per la comprensione del discorso che stiamo affrontando oggi. Eva ha tra l’altro pubblicato anche in Francia: la raccolta Arguments pointus, tradotta da Jacqueline Spaccini e Aneta Panek, e nella rubrica “Avec ‘Une autre poésie italienne” della rivista «Recours au poème», tradotta da Jean-Charles Vegliante.
Ecco, ho parlato anche troppo per la tempistica che ci eravamo imposti, e a questo punto lascerei la parola a Giovanni Solinas.
Giovanni Solinas:
Presenterò i poeti italiani stanziali e cercherò di spiegare in poche parole la ragione per cui abbiamo scelto di invitarli, perché, cioè, abbiamo scelto proprio i due autori presenti qui oggi. Come Sarah aveva già ricordato nel seminario CIRCE del maggio scorso, il panorama della produzione poetica contemporanea e iper-contemporanea italiana è talmente plurale, talmente diversificato che proporre una mappatura, prima ancora che la definizione di un canone, sarebbe un’operazione davvero troppo complessa e forse destinata al fallimento, soprattutto se nutrita da ambizioni di completezza ed esaustività. Quello che noi abbiamo cercato di fare è stato invece individuare delle dominanti formali, cioè dei modi particolari di usare la lingua. E abbiamo considerato i poeti oggi presenti come i possibili (naturalmente non gli unici) interpreti di due di queste dominanti.
Da una parte, quindi, Marco Giovenale, come rappresentante di quell’area che si definisce “poesia di ricerca”. Questa, come si sa, è costituita da una serie di voci poetiche certo piuttosto eterogenee, ma che condividono alcuni elementi programmatici. Di Marco Giovenale ci ha interessato particolarmente il lavoro di forzatura, di torsione, spesso di negazione delle forme linguistiche ordinarie. La sua sperimentazione si è sviluppata nelle direzioni più differenti: si va dalla produzione letteraria per così dire “classica” delle sue raccolte poetiche, in cui i versi si alternano spesso a sezioni in prosa (ricordo le più conosciute: La casa esposta del 2007, Shelter del 2010, dello stesso anno Storia dei minuti, Delvaux, del 2013 e il recente Il paziente crede di essere, del 2016), alle sperimentazioni di scrittura asemantica – nel 2008 è stata pubblicata una raccolta intitolata Sibille asemantiche – fino alle installazioni audio-video.
Personalmente ho trovato particolarmente interessante il suo lavoro di destrutturazione e di frantumazione sintattica della lingua (sintassi linguistica e sintassi compositiva), che arriva fino a negare (riprendo qui le considerazioni di un articolo di Stefano Ghidinelli pubblicato recentemente ne «Il Verri», dove si ricostruisce una parte del dibattito critico su Giovenale e su certi aspetti della poesia di ricerca) i criteri minimi della coerenza testuale, ed a suggerire una diversa idea di testo, considerato non più come configurazione, come mise en texte, appunto, ma come installazione, come mise en place[1], accostamento.
Dall’altra parte Antonella Anedda, un poeta che sembra invece accettare maggiormente le forme tradizionali o più consuete di costruzione del senso, pur riproponendole, ben evidentemente, attraverso un timbro e una scansione personale e originale: in questo senso si è parlato, in riferimento ai suoi testi, di una forma di “classicismo moderno”, caratterizzata da un ordito più lineare, in cui sono ugualmente presenti la carica comunicativa e lo slancio metaforico ed in cui il gioco di manipolazione della lingua lavora più sottotraccia. Cito, anche per Anedda, i titoli delle sue raccolte poetiche principali: del 1999 è Notti di pace occidentale, Il catalogo della gioia risale al 2003, del 2007 la raccolta Dal balcone del corpo e del 2012 Salva con nome.
Mi limito, infine, a ricordare alcuni motivi centrali della poesia di Anedda, che mi sembrano interessanti per la nostra prospettiva. Innanzitutto, l’interrogazione sulla lingua, spesso esplicitamente tematizzata nelle sue poesie: penso, ad esempio, alla questione della nominazione, alla riflessione sulla necessità ma allo stesso tempo la difficoltà di dare un nome alle cose: una riflessione sviluppata già nelle raccolte precedenti, e portata a maturazione nel più recente Salva con nome, dove si fa esplicito riferimento alla natura ambigua del nome, alla sua importanza ed, allo stesso tempo, al suo carattere effimero o convenzionale. È poi ben presente anche in Anedda un’idea della pratica poetica come operazione di accostamento, o, meglio, di composizione nello spazio. Sempre in Salva con nome, in particolare, Anedda fa ricorso alla metafora del “cucire”: il poeta è qualcuno che cuce, che mette assieme. Infine, l’importanza dell’ordine spaziale, il vedere la poesia anche come un “mettere accanto”, o – appunto – “mettere assieme”, cioè come un’operazione di accostamento di elementi, sembra essere un dato che non solo può rappresentare un tratto comune – pur se declinato in modo molto diverso – ai due poeti, ma che ci avvicina alla dimensione della pluralità, dell’apertura, di un’orizzontalità che è in parte inclusività; una dimensione in forte consonanza con la prospettiva che si cerca qui di suggerire, quella della transnazionalità, dello scambio, dell’apertura del canone.
Mi fermo qui e, a questo punto, lascerei la parola ai poeti ed alla loro lettura.
Antonella Anedda:
Il nome con la A. mi costringe a rompere il ghiaccio. Lo faccio leggendo una poesia il cui titolo italiano è Lingua e il titolo in logudorese è Limba. Il logudorese è la lingua che nel centro della Sardegna viene considerata la più pura, la lingua dell’oro, limba de oro. Ci sono vocabolari per l’espressione scritta in logudorese, come quello ottocentesco a cura di Giovanni Spano (1840), ma anche dizionari recenti come quello di Giovanni Cabras (2003) su una particolare zona che si chiama Baronia. Io sono nata e vissuta a Roma, e, fino al 2007, ho scritto solo in italiano. Dopo una morte, quando mi sembrava davvero di non avere più le parole in italiano, inaspettatamente ho scritto in logudorese. Dante diceva che i sardi parlano il latino come le scimmie. Ed, effettivamente, c’è una forte presenza del latino, ma anche del catalano e dello spagnolo, tracce bizantine e arabe come il nome Arbatax. Ci sono suoni che mi affascinano per esempio: Scaglia di gelo si dice astula de àstragu. Credo di aver imparato qualcosa in questo passaggio da una lingua a un’altra soprattutto sul mio italiano, su alcune scelte sintattiche, sulle scelte sonore, sulla predilezione per i suoni aspri, sul fastidio per l’eccesso di aggettivi. Il dialetto non è una lingua bassa ma profonda. Lo dice Meneghello ed è una definizione che trovo molto vera.
Lingua
Non hai bara da trascinare sulla neve
ma un cane che trema nel buio
Mdre-lingua sei triste
l’aglio si fa nero nel rame
il rombo del camino sale
I venti si confondono,
Eolo soffia e Babele vive.
Figlia-lingua: scricchioli a ginepro
Il tuo brivido alla nascita
è un frammento di tempesta tra i pianeti
e le nuvole, le nuvole ciecamente corrono
cancellando dai cieli ogni genealogia
Limba
Non tenes baùle ‘e istrisinare in supr’e nie
Ma unu cane a trémula in s’iscuriù
Limba-matre ses triste
S’azu s’inniéddigat in sa sartàine
Sa mùghit’anziat
Sos ventos si coffundent.
Eolo survat et Babele s’isparghet.
Fiza-limba tràchitas a ghineperu
Una tremita tua naschinde
Est ch’astula de livrina in mes’a isteddos
et sas nues, sas nues a sa thurpas fughint
iscanzellande dae chelu onzi zenìas
Per quanto riguarda il tema della traduzione di cui parlava Giovanni Solinas, leggo un testo in prosa da un libro che si chiama La vita dei dettagli, che considero un libro di traduzioni, dall’immagine alla parola, ma anche dalla parola alla costruzione di un’immagine, anzi, di un oggetto con stoffa, carta, tracce di lettere. La prima è più teorica ed è dedicata all’ekfrasis. Nella parte centrale, invece, vivono i dettagli. L’ultima parte è una riflessione sulla perdita accompagnata da foto e collages. Per molti anni, in giro per musei, ho fotografato particolari da quadri rivisti o visti per la prima volta. Per ogni dettaglio ho fornito un indizio e, poi solo alla fine – rovesciati come nelle soluzioni dei rebus – ho rivelato i nomi dei pittori e dei quadri da cui erano stati presi. Per esempio, il dettaglio relativo a questo testo mostra solo dei piedi:
Sono i piedi di un morto. A volte nelle camere ardenti li legano con un filo di nylon perché non si divarichino. Qui sono allineati su un marmo rosso venato di marmo bianco: la pietra dell’unzione su cui lo avrebbero messo prima di ungere il corpo. In origine il marmo era solo rosso, le lacrime – dice un vangelo apocrifo – lo hanno solcato di bianco.
Il pittore tenne con sé il quadro fino alla fine insieme alla sua collezione di monete antiche. Quando lo dipinse aveva appena perso due figli: Federico e Girolamo.
Vedo la sua vita intirizzire, secca come una ciotola di tempere. Rivedo me stessa davanti a piedi simili.
Questo non è solo un Cristo morto ma il ritratto della nostra vertigine davanti a ogni morte, la sua veduta aerea. L’occhio percorre un paese deserto.
Devo smettere le forze mi abbandonano.
Era l’ultimo dei trentatré Dettagli. Mantegna, Cristo morto, 1480.
Ora leggo il secondo degli otto Attittos che Jean-Charles Vegliante ha meravigliosamente tradotto. Attitto viene dal verbo attittare, su cui non c’è unanimità: secondo alcuni significa allattare, per altri singhiozzare.
All’alba ha chiuso gli occhi
inutilmente ha desiderato
dentro il suo grido muto.
Arrivi tardi vento
il suo viso di morto
è una foglia fredda e ferma
Voglio restare sola con lui
e succhiargli il veleno
che mi è rimasto dentro.
A s’albeschida hat serradu sos ocros
hat disigiadu inbanu
cun s’abbòghinu mudu.
Tue istentas a benner, bentu
sa cara sua de mortu
est foza firma e fria.
Eo cherzo istare sola cun isse
suzzende su venenu
ki m’est abbarradu i’su coro.
Informazioni interne (Evoluzione)
Oggi non è difficile capire da dove viene il male:
Neve tutta la notte, minima meno 10.
Un uomo muore assiderato.
Ora oltre il vetro osserva tre persone, una famiglia forse,
un gruppo minimo nel gelo di stasera. (Temperature a [picco,
l’ago schiarito da una
luce boreale.)
Segui la loro evoluzione
in cui qualcuno muore e gli altri avanzano a fatica.
Creature senza creatore in cammino da ere
fino al gesto in cui una, toccando l’altra, la consola.
Paesaggio
Mi avvicinai a un ramo carico di neve
Dove uno dei corvi piegava sotto le zampe il legno.
Diventai quel dondolio di grigio e nero.
E quel diverso [verde (misto di salvia e gelo)
Che avanzava con un tocco di livore sulle nubi.
Vidi me stessa dentro quel purgatorio.
Tutto era paesaggio. La rabbia: un tumulo.
L’incertezza – a mucchi: una collina.
Il disamore: alberi con ombre intirizzite.
“Osserva” disse l’ombra nel cespuglio più vicino,
“la nebbia inghiotte il tuo dolore.
Impara nel tuo spazio mortale
Imparando si sfiora il paradiso.”
Sì, risposi e la luce diminuì l’ira del mattino
Divise il mio corpo dal rancore
Impose alle ombre di tacere.
E un tagliante azzurro prese – era già paradiso?
Il posto del paesaggio, della prima persona.
L’ultima è stata scritta un po’ di tempo fa, dopo la lettura di un brano di Tacito, delle Historiae, “pieno il mare di esuli, gli scoglio coperti di sangue”. Si intitola appunto Historia:
Oggi penso ai due dei tanti morti affogati
a pochi metri da queste coste soleggiate
trovati sotto lo scafo, stretti, abbracciati.
Mi chiedo se sulle ossa crescerà il corallo
e cosa ne sarà del sangue dentro il sale,
allora studio – cerco tra i vecchi libri
di medicina legale di mio padre,
un manuale dove le vittime
sono fotografate insieme ai criminali
alla rinfusa: suicidi, assassini, organi genitali.
Niente paesaggi solo il cielo d’acciaio delle foto, raramente [una sedia
un dorso coperto da lenzuolo, i piedi sopra una branda, [nudi.
Leggo. Scopro che il termine esatto è livor mortis.
Il sangue si raccoglie in basso, si raggruma
prima rosso poi livido infine si fa polvere
e può sciogliersi nel sale.
Jean- Charles Vegliante:
Leggerò la traduzione di questo inedito, ma prima volevo aggiungere che Attitos e altri testi si trovano su dei siti soprattutto, come il nostro Pour une autre poésie italienne, visto che gli editori sono un po’ difficili da raggiungere. Historia, invece, era uscito su Poezibao:
Pleine la mer d’exilés, les rochers couverts de sang
Tacite, Historiae
Aujourd’hui je pense aux deux, parmi d’autres, noyés
à quelques mètres de ces côtes ensoleillées
retrouvés sous le bateau, étroitement embrassés.
Je me demande si sur leurs os poussera le corail
et ce qu’il adviendra du sang dedans le sel,
alors j’étudie – je cherche parmi les vieux livres
de médecine légale de mon père
un manuel où les victimes
sont photographiées avec les criminels
pêle-mêle : suicidés, assassins, organes génitaux.
Pas de paysages sous le ciel d’acier des photos, rarement [une
………………………………………………………………chaise
un torse recouvert d’un drap, les pieds sur un brancard [nus.
Je lis. Découvre que le terme exact est livor mortis.
Le sang se rassemble en bas et se coagule
d’abord rouge puis livide enfin devient poussière
et peut, oui, se dissoudre dans le sel.
Marco Giovenale:
Grazie intanto dell’ospitalità alla libreria, a tutto l’ensemble che ha organizzato l’incontro e a Jean-Charles Vegliante. Io inizio con un testo che uscirà a breve sul «Verri». Siccome il numero aveva chiesto dei testi di poetica ad alcuni autori, e io non avevo un testo di poetica, ho selezionato alcuni segmenti che ne costituiscono uno – o lo smantellano – tratti da un’operina in fieri che si intitola Oggettistica.
Come si scrivono le cose che scrivono (même)
sette segmenti in prosa da Oggettistica
1. Si formano come conche di germi da cui uno può fuggire sparando i missili.
2. Cibi molto oleosi. Cibi molto trasparenti. Cibi che c’è tutto un olio anche non colorato. Per vederci d’attraverso. D’attraversando, in progresso, una cosa che sta accadendo, che si verifica, con il gerundio.
3. Si devono legare bene sul seggiolino altrimenti saltano fuori.
4. Da lì, dalla bocca, escono fuori come delle corde. Di aria. Ma con più di denso. Con queste corde spostano le cose che non si spostano. Qualche volta sì.
5. Ho preso partito per le cose e per le frasi. Chiuse fuori, soprattutto le cose restano all’addiaccio. L’addiaccio consiste (può esser fatto consistere) in frasi. Alla fin fine è molto semplice.
6. È tutto molto chiaro. Si tratta di frasi. Faccio delle frasi. In letteratura spesso non ci sono frasi ma idee, e le frasi sono pervase di idee. Io non ho idee.
7.
staccare la batteria
attendere 10 secondi
reinserire la batteria nello chassis
inserire il cavo di alimentazione
(prima nella presa poi nel pc)
aspettare che il led batteria finisca di lampeggiare
accendere il computer
Ringrazio anche la redazione di «Nioques», diretta da Jean-Marie Gleize, che l’anno scorso ha pubblicato, a cura di Michele Zaffarano, una selezione di autori italiani tradotti in francese, tra cui – indegnamente – il sottoscritto. Leggo due testi. (La rivista è stata presentata l’anno scorso qui a Parigi, a maggio).
Facilitazione
Perché la gente non si ammazzi lì ci mettono le transenne, ci mettono le barriere, delle barriere, fanno in modo che non si buttino, che ci pensino, è difficile scavalcarle, scavalcare i muri, fanno anche dei muri, dei muretti bassi, per le galline, per i movimenti degli animali piccoli ma
sono deterrenti – come dicono – per chi vuole buttarsi, per la gente, se volesse casomai ammazzarcisi, non è detto che non ci riesca comunque, allora
mettono delle reti, delle reti solide, quelle della conigliera, poi per gli animali più grandi, un gibbone, due gibboni, mettono quelle che possono, alte, alzano, alzano le reti in modo che siano alte, fanno degli sforzi, in modo che ci sia anche una distanza da dove si cade, uno spazio, come un gioco, un lasco, una specie di fossato che scavano, o possono non scavarlo, magari c’era già prima e loro ne approfittano, allora
vanno molto indietro e allineano delle punte respingenti, altrimenti del filo spinato, o elettrificato, oppure sia spinato sia elettrificato, entrambi, in modo che la gente non possa ammazzarsi, che se vuole buttarsi giù si prende la corrente, la scossa, salta in aria, frigge lì brucia, non si butta e non può buttarsi, viene respinta, si attacca, come la pelle del pollo al tegame, mettono un militare:
mettono un militare ogni sette dieci metri, con la baionetta, il fucile, la mitraglietta, la beretta, fa la staffetta, per fare la guardia, perché spari se loro si provano, se provano ad avvicinarsi, i piantoni gli sparano, gli sparano perché non si ammazzi, non si ammazzino, questi e quelli, uno non si butti giù, non ci pensi, per fare smettere la gente smettere di pensare queste cose bisognerebbe entrarle nel cervello, per risparmiare tutti i muri, ringhiere, grate, i cordoni, i fili, i soldati, sarebbe più facile, forse è più facile.
[s.t.]
Dopo il semaforo è tutta campagna. Dopo il semaforo è tutta enciclopedia. Da qui in poi è tutta campagna, da qui in poi è tutta enciclopedia. Da qui in avanti è tutto cambiato, è tutto cambiato negli ultimi trent’anni. Da qui in avanti è tutta enciclopedia, da trent’anni è tutta enciclopedia. Passata l’enciclopedia è tutta campagna. Dopo l’enciclopedia c’è soltanto la campagna, la campagna con il suo sapere enciclopedico diretto, eterodiretto, le erbe, gli uccelli, gli insetti. È tutta campagna. Poi dopo trent’anni non c’è più campagna. Da qui in avanti è solo enciclopedia. I nomi, da qui in avanti cominciano i nomi, gli insetti, le erbe, cominciano le ruberie, cominciano i ti faccio vedere, gli assessori, da qui in avanti è tutto assessori, trent’anni, tutto assessori, trent’anni fa non c’era neanche qui. Prima qui era tutta campagna. Città con macchie di campagna. Nella preistoria, prima, lo dice la parola. Prima neanche a parlarne. Prima della parola, neanche a dirlo, o a parlarne. Adesso nel cortile ci sono le galline, razzolano in sei sette. Sono grasse e marroni. Solo adesso. Da qui in avanti è tutto cenozoico, animali ibridi, pezzi di vegetali, staccati mischiati, una spora lì un ramo qui, un corallo nel becco, una scansione inattuabile irrealizzabile, dei pezzi, pezzi che restano sconcertati sul tavolo, il tavolo anatomico, sull’inameno tavolo anatomico. Tra i pezzi respirano, c’è il respiro grosso, nel cenozoico, si respira male, ballano le galline, bollono, nella campagna, passano il vitto, passa uno, due, è tutta enciclopedia, c’è poco cibo, si stanca, tre. Si vede come intorno. Come fosse intorno, saranno sei sette, saranno quattro. Si vede come intorno a un disco tutto è diventato enciclopedia. Forse anche in meno di trent’anni. Il disco si vede come intorno al disco.
L’ultimo libro uscito, che si intitola Il paziente crede di essere (ed. Gorilla Sapiens, Roma, 2016), raccoglie una serie di testi, alcuni più narrativi o latamente narrativi, che risalgono addirittura agli anni ’90, altri sono del 2009, già inclusi in un libro collettivo (pubblicato da Le Lettere nella collana fuoriformato diretta da Andrea Cortellessa) che si intitolava Prosa in prosa, e che ovviamente deve il suo titolo alla felicissima espressione di Jean-Marie Gleize, prose en prose(s). Essendo tale libro non eccezionalmente reperibile, ho pensato di recuperare alcune delle pagine e metterle nel Paziente. Infine, nel Paziente ho raccolto alcune cose da Oggettistica, da cui leggevo frammenti all’inizio.
E.
Uno biondo molto nervoso con gli occhiali aspetta fuori dal bar provando la coerenza di quanto vede con quanto gli dice l’auricolare. Canta un gallo registrato in un vicolo a fianco, sembrando però molto lontano. Il rumore del ferrarsi di supporti a un cuoio indica una bottega. L’altro, con i capelli neri, ha appena finito di pensare ora mi volto ed esco. Non lo lasciano continuare. Un piccolo colpo di tosse discreto al primo piano, il disserrarsi di un portone. Gli sono sopra in cinque. La tv è senza audio, le velature azzurre sono progressive, tutte le macchine sono macchine che passano. Il pomeriggio trattiene tutta l’estate, la piazzetta vuota, l’acqua gettata dalla cannella, la più discreta. Non può finire, per questo finisce. Sul muro medievale scalzato via da un arco di selci, oltre le carcasse, è scritto quasi in spray completato dal gesso: Eraclito
Una delle follie che con altri amici ci siamo inventati per uscire dalla gabbia di un’editoria che sempre di più sta diventando insensata e inefficiente in termini di distribuzione (nel senso proprio di approvvigionamento di materiali) è un progetto di collana che si chiama Benway, come il Dr. Benway di William Burroughs. Il progetto tra le sue stranezze annovera anche questi fogli A3, quindi di grandi dimensioni: come il mio ce ne sono altri otto, che raccolgono testi di diversi autori – al momento quasi solo italiani. Trovate sul retro la traduzione in francese. Mi perdonerete se leggo in italiano. Il testo si intitola Phobos.
fammi vedere, giocando sulle rotaie, lo so che hai paura dei giornalisti, degli ospiti, delle ospiti, dei gatti sulla tovaglia (se a quadri), paura dei cappelli, della verginità, della russia, di lasciarti andare, dell’eco, degli ex voto, delle marionette di porcellana, se hanno gli occhi stravolti, verso l’alto, ma è leggera, ma hai paura del cibo, comunque dell’arte astratta, delle infezioni, delle intossicazioni, da cibo, paura delle crêpes, delle creme, delle panne, delle curve delle tende, dei sipari, meglio, delle fotografie di frattaglie, delle lumache, dei cani, dei luoghi chiusi con dentro i cani, dei cani in libertà, nel parchetto, nell’erba alta, terrore dell’erba alta, degli spazi aperti, dei cani negli spazi aperti, se gli stessi spazi contengono anche luoghi chiusi con dentro altri cani, quelli degli spazi chiusi, alla catena, ma anche senza catena, con catene fatte a loro volta di piccoli cani legati uno all’altro, che potrebbero sciogliersi, paura di questo, e di conseguenza paura dei bambini che piangono perché a loro volta spaventati, imparando a farsi forza, non riuscendoci, con la paura di imparare, di seguire a ritroso il percorso, smarrire il sentiero, rientrare e trovare solo delle facili allegorie, che fanno paura, molta paura degli insetti, piccoli e grandi, dei pesci preistorici, delle case di campagna, dei millepiedi nelle case che cadono dai sottotetti, nelle pieghe, senza contare appunto la paura delle pieghe, sul collo dei cani, paura della nebbia, dei fari che stanno arrivando, ti accecano, ti vengono a prendere, no, non ti vedono, ti lasceranno lì da solo nella nebbia, esposto all’umidità, alla pianura (paurosa) e alle macchine che avanzano senza fari, che non possono vederti, ti schiacciano, ti feriscono, senza medici (di cui avresti comunque paura), che ti investono, ti gettano verso la foresta prima degli alieni, prima che arrivino, anzi in gara con loro, alieni di cui a dirla tutta temi il ritorno, o la partenza, e le luci violente, ma anche tenui, come temi gli argani di legno del santo, la processione, il carretto che scricchiola e le dame con le candele, che gocciano, il giallo della traccia, la colla, il vestito stretto (se è stretto) della maschera, la sua torcia, allontanata, allontanandosi allo stesso modo, o in un modo diverso, divaricato, innaturale, scaleno, minaccioso che dà paura, paura di aver detto troppo in udienza, in assenza di avvocato, protezioni, di lamiere, lamierini, tettucci, scalinate, scritte, scrivendo che hai paura dei terremoti, della scogliera che si avvicina fracassando lo scafo, sapendo di non saper nuotare, agglutinare le parole, non avere più la lingua, o avere troppe scarpe e pochi piedi, tua paura principale, fobia della pioggia, dei ragni, della pioggia di ragni, paura di sbagliare a riportare il discorso come il cane riporta lo stecco, paura dello stecco, del ringhio, dei canini, dei delfini, dei postini, dei destini, dei morigerati, degli sconci, di vagare nel senso di errare, sbagliare indirizzo, luogo, essere fuori luogo, fuori zona, per poco ma irrimediabilmente, e che attraverso il tempo non si possa vedere, in effetti, non si vede mai chiaro, almeno in un primo momento, quasi, poi non si sa, è addirittura meno chiaro, quasi buio, con delle luci accecanti ma sono passate, cose così, passate, innocue alla fine
Eva Taylor:
Per cominciare due mie poesie: una da Volti di parole, la mia seconda plaquette di poesie in italiano, che ho intitolato così per dare un’idea di concretezza alla mia esperienza linguistica plurilingue (il titolo allude a Wittgenstein e a un suo interprete, il linguista Federico Albano Leoni); l’altra, invece, fa parte di Novunque, che è un libretto della Compagnia delle poete (www.compagniadellepoete.com), di cui faccio parte. Inizio con quest’ultima:
Il sogno di Rebecca
Ho sognato di essere in Canaan un giorno,
per caso, da qualche parte sulla collina.
E il sogno è volato oltre
ha incontrato una lingua.
Una lingua che diventa lontana
e un’altra a tratti vicina
prendono fuoco al suono del nome
Isacco.
In mezzo al prato
sento Isacco
e quella lingua.
Isacco, dal tuo violino
scorre l’immagine di te
nel paese dei due fiumi.
Ricetta per pesce fuor d’acqua
La maggior parte dei pesci è muto
per cui lasciatelo bollire qualche istante
fatelo raffreddare nell’acqua di cottura
infine versatelo nell’alfabeto.
Imparerà a nuotare, a respirare e a parlare
ma avrà sempre l’impressione
di essere qualcos’altro.
Il suo lieve sapore amarognolo
che alcuni apprezzano
altri trovano nauseante
vi suonerà come accento.
Si può togliere con un filo d’olio d’oliva.
Extra vergine, macinato a freddo.
Meglio freddissimo. Quasi come d’acqua.
Questi due testi esemplificano il tema di cui mi occupo da tempo – la lingua, le difficoltà del bilinguismo, del plurilinguismo, l’apprendimento, vivere come plurilingue in una società monolingue, tutte le varie costellazioni che si possono verificare. Mi sono chiesta ancora una volta, proprio prima di questo incontro, come mai scrivo in italiano? Avevo già una lingua in cui a volte scrivevo. Credo che sia legato a un’esperienza, si tratta – se volete – di un mito personale. Da bambina stavo accanto alla radio e sentivo una lingua straniera dalla quale ero profondamente attratta, come si è attratti senza freni da bambini. Un bel giorno di domenica, il prete di famiglia mi disse «questo è italiano». Da lì è nata una specie di fantasia – se volete pre-babilonica – di comprendere questa lingua, senza saperla. (E sappiamo che tanti piccoli – e non solo – hanno di queste fantasie, sentono di comprendere una lingua, a volte una lingua fantastica che si inventano, a volte una lingua straniera che in verità non conoscono. Questa specie di fantasia pre-babilonica mette in moto un fantasticare linguistico che si può articolare anche non in forma di una lingua concreta). Questo credo sia il nucleo del mio legame profondo, proprio viscerale, fantastico, simbolico, con l’italiano.
In italiano ho pubblicato poi la mia prima plaquette dal titolo L’igiene della bocca, che nasce prima da un’esperienza di lettura e poi da un tentativo di scrittura intertestuale. Guardando le varie patologie che venivano documentate in un libro che ho trovato nella sala d’aspetto di una dentista, ho riconosciuto la situazione a rischio, patologica della mia bocca a livello linguistico, la bocca che diventava un teatrino esistenziale. Ho diviso questa raccolta in tre parti: La prima igiene, L’igiene alfabetica, L’ultima igiene, che consiste in una poesia soltanto. Ecco tre poesie, le prime due dalla Prima igiene, la terza dall’Igiene alfabetica:
Io vivo con due bocche
e parlo con tre lingue.
Forse per questo
le parole si spezzano
come denti in frammenti:
in polvere si posano sull’ortografia
e la nascondono.
E non c’è corona che tenga i tessuti orali.
Ho due bocche
da una parlo
dall’altra sanguino.
Stamattina ho scelto il rossetto più rosso
per coprire le tracce di sangue.
Mi hai guardato e hai detto:
stai bene.
Bruxismo
La mattina mi dici:
di notte c’era un rumore stridente in tutta la casa.
E subito sono colpita da un senso di vergogna appiccicoso.
Nello specchio si vedono chiari segni d’abrasione.
I muscoli dei miei mascellari sono affaticati e dolenti.
Soffro di mal di testa: davanti all’orecchio, sulla guancia e
sulla tempia.
Digrignamento e chiusura contratta dei denti:
forme comuni di parafunzioni
di cui la paziente non è consapevole.
Sono virgole, punti, trattini e lettere da stritolare
il contingente di tre lingue in ogni parola
E il dolore è sordo, pulsante e continuo.
L’italiano per me è quindi come un serbatoio di nuova possibilità espressiva, perché nella mia lingua madre, nel tedesco, per un lungo periodo, sentivo la forte presenza di un silenzio, un silenzio articolato su vari piani, esperienziale, individuale, a causa della storia che Mia ha accennato prima, di questa storia di fuga dall’Est all’Ovest, della mia storia personale, appunto, della mia famiglia, che, nonostante sia una storia piuttosto comune, era avvolta da una specie di silenzio. Inoltre, questo silenzio personale era amplificato dal silenzio che in generale c’è stato nella cultura tedesca sul passato, di cui questa fuga è soltanto un altro anello.
Quindi l’italiano per me era diventato una lingua di mediazione, una lingua di mediazione per poter raccontare delle storie che altrimenti in tedesco non potevo raccontare nella stessa maniera.
La casa del nonno
Nei muri le crepe
le finestre spalancate
sul prato il bianco delle oche
il tiglio piantato quel giorno.
Sento il racconto degli ultimi anni
le notti senza sonno e le lettere
i viaggi, le attese e la rabbia.
Io guardo
ma tu sull’altro lato della strada
in questo luogo dove sei nato
non torni più
per una virgola di legge
messa a Mosca
firmata a Berlino.
L’ombra del tiglio abbraccia noi due
ma tu non ti riposi
ed io ne sfuggo.
Leggo un paio di poesie inedite:
genealogia del grembiule di casa
1
il grembiule di mia nonna non era grembiule
era vestito, pelle sua verde-blu
il grembiule di mia nonna nascondeva
la donna che mia nonna era e non voleva
vedere e far vedere, le ore cucite dentro
col filo di sudore, sottile febbre nel preparare montagne
di neve chiara, laghi di composte, fiumi di succhi,
interi paesaggi del palato,
e nelle tasche nascondeva foto e parole
accanto a chiavi, monete e fazzoletti
nuvole grattate con lo sguardo languido
da cucina
il grembiule di mia nonna era il mondo a quadretti
era ritmo, verità e casa
quel corpo grembiule verde-blu
2
mia madre portava grembiuli bianchi
inamidati come ghiacciai
davanti ai forni non si scioglieva
era sibilla bianca cera
creava dolci di ubbidienza nel forno
che bruciavano con dolore
l’ubbidienza appare sempre bianca
e mia madre rimane se stessa
ma il grembiule s’infuoca la notte
si consuma sotto la luce
nuda di luna
3
vedo un grembiule appeso alla porta
quando lo muove il vento
si apre come un libro spiegato
ci sono chiazze al posto del nero
delle lettere, ci sono occhi e mani
e ogni lavaggio conferma il passato:
i colori sbiaditi
le macchie che non si tolgono
ogni giorno me lo metto
per nuotare contro corrente
risalire ad un’origine
quel grembiule è una pelle
chi lo porta indossa la mia storia
Come vedete, l’intertestualità è stata per me sempre un forte stimolo, un po’ perché nel mio caso – parlo solo per me – la differenza tra le due lingue, il tedesco e l’italiano, emerge anche nella poesia, o meglio nel rapporto con la tradizione poetica, perché in italiano i poeti, anche quelli che non seguono più l’endecasillabo, sono tuttavia influenzati dalla tradizione, perché quella italiana è una poesia/lirica che si pone in una tensione creativa con questa origine. Questo in tedesco non c’è, o almeno non c’è più, la poesia del Novecento ha costituito una netta cesura con la produzione e i metri tradizionali, cosicché le costellazioni ritmiche e metriche si sono poi sviluppate diversamente, con una particolare attenzione agli aspetti ritmici.
Il tedesco, quindi, per me è stato sempre una specie di sponda critica di riflessione alla quale arriva qualcos’altro – un’altra parola, frasi, metafore – come una Flaschenpost (un messaggio in bottiglia) che arriva e sta lì, inosservata finché un giorno scopro una parola per le sue qualità foniche e semantiche e cerco di farla adagiare in ciò che è il mio spontaneo moto d’espressione, direi più che una lingua, un ritmo tedesco.
Franco Fortini ha detto una volta che nella sua traduzione di Bertolt Brecht voleva rinnovare la sintassi italiana con ciò che trovava nella poesia di Brecht. Io non vorrei e non saprei rinnovare la sintassi italiana, però credo che un certo lavoro ritmico, un legame a una prosaicità della poesia è qualcosa che automaticamente mi viene naturale nella scrittura dell’italiano, un qualcosa che, senza arrivare ad un plurilinguismo in superficie con parole in tedesco inserite nella sintassi dell’italiano, crea già un plurilinguismo implicito.
Torno alle mie poesie. Le prime due sono legate alla lettura di un libro di Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, e ho scelto di scrivere alcune lettere al signor B.
Caro Signor B,
il Conte mi ha dato delle lettere
con poesie scritte negli anni cinquanta.
Le ha trovate in un armadio
avvolte in un asciugamano di lino.
Lui non le capisce, sono in tedesco.
Quando restituisco le lettere
non parlerò dell’amore di sua madre.
Parlerò delle lingue, del dolce stil novo
che ci manca.
Caro Signor B,
la casa doveva abito
ha due porte d’ingresso
una volta varcata la prima
si può ancora tornare
far finta di non esserci
lasciare la casa
senza essere vista
come una perfetta straniera.
E l’ultima, che non ha a che fare col Signor B., si intitola Fachwerkhaus
Il bisnonno porta una giacca lunga
braccia dritte e mani lungo il corpo
come un militare
è forte, ma sembra vecchio.
Accanto la figlia, mia nonna
sedici anni forse,
agita un fazzoletto
come se salutasse il mondo intero.
Il Wanderfotograf ha fatto click
e ridono per sempre
davanti a quella casa
il Fachwerkhaus –
parola composta e angusta
parola di casa
con travi di legno
come segnali stradali
verso un dentro.
Fabio Zinelli:
Parlare dei testi che abbiamo sentito è fondamentale ma non deve diventare una scusa per nascondersi dietro ai testi. Dovremo, piuttosto, accettare l’invito posto dal titolo del nostro incontro per arrivare ai testi. Il titolo comprende due poli fondamentali: uno si chiama identità, l’altro plurilinguismo. Da quest’ultimo arriviamo facilmente ai testi e ai poeti che hanno accolto il nostro invito. Eva Taylor ci ha parlato direttamente dell’esperienza, anche vissuta, del plurilinguismo. Con i testi in sardo di Antonella Anedda abbiamo fatto l’esperienza di un altro mondo linguistico. Solo con Marco Giovenale siamo rimasti apparentemente in un mondo monolinguistico, ma è un impressione certamente sbagliata.
Circa il plurilinguismo premetterei una cosa importante, proprio perché ne parleremo da una prospettiva tutta italiana. Noi italiani il plurilinguismo, in letteratura, lo conosciamo da sempre, e su una durata più lunga che nel resto delle culture europee. Il plurilinguismo è una categoria (e uso il termine secondo l’uso che ne fa Agamben in Categorie italiane) che è insieme una nostra specificità e, per riprendere il primo polo del titolo, un nostro fattore di identità, un’identità plurale. La lingua è identità in ogni contesto, ma la letteratura italiana nasce proprio nel segno della ricerca di una lingua che non abbiamo smesso di cercare per secoli e che è stata anzi, in molti momenti, la nostra sola identità. E la cosa più importante qui è che la ricerca stessa di questa lingua è da sempre un tema centrale, da noi, per fare letteratura. Le ragioni storiche sono quelle note: siamo un paese pluricentrico. Possiamo perfino parlare di tante letterature italiane secondo lo sviluppo delle regioni storiche, letterature che si sono continuate fino alle esperienze dialettali e polifoniche che hanno arricchito letteratura (e cinema) del Novecento e oltre. La tradizione italiana, per fare solo un esempio, forte dell’eredità plurilinguistica, dispone di un’escursione lessicale più ampia che quella disponibile nella letteratura francese (e non si parla dell’ampiezza del vocabolario, ma del suo impiego). La tradizione francese, stretta da un sentimento fortissimo della norma linguistica, tenta semmai di spostare i confini del testo dall’interno della variazione e della ricerca sintattica.
Ora, se tutto questo è abbastanza noto, quello che costituisce una vera e propria notizia è che quella che abbiamo sempre chiamato la questione della lingua è finita. Il Novecento, con la sua fine, se la è portata via. Siamo cambiati e una lingua ormai, bella o brutta, ce l’abbiamo. È quella in cui sono scritti i giornali (gli elzeviristi rimpiazzati da ‘tecnici’, anche sui blogs), i romanzi ripuliti da editors aggiornati in world literature, e la poesia lirica ‘media’. Insomma, la guerra è finita e la pace della lingua ci ha resi un po’ più uguali agli altri. Rimane la questione dell’eredità, particolarmente pesante in poesia, ma non potrà diventare una scusa e dobbiamo guardare le cose in faccia: abbiamo vissuto di rendita rispetto a questo nostro innato plurilinguismo che ci ha permesso di fare molte cose, spesso belle e profonde. Ma torniamo in quella parte del campo letterario che ci compete: la poesia italiana che non è più plurilingue, a dispetto della varietà di esperienze che si stanno facendo, a tratti esaltanti e comunque sufficienti a non farci troppo ammalare di nostalgia. Abbiamo avuto lingue fantastiche: la poesia neodialettale, le avanguardie con l’eversione permanente della lingua come istituzione e la grandissima tradizione lirica, da Montale a Sereni (a Fortini e Pusterla). Esisteva anzitutto la lingua come una scelta di campo, adesso domina piuttosto la preoccupazione per le forme. Si tratta in parte di questo. L’abbandono della categoria della lingua come ‘identitaria’ rispetto al produrre una ‘letteratura italiana’ corrisponde a una necessaria ‘uscita dalla tradizione’ comune ad altri modi di fare arte. In alcuni casi, per la poesia, si può parlare anche di uscita dalla lingua, quando il modello trainante diventa quello fornito dalle arti plastiche e figurative dove la categoria concettuale del montaggio è tutto (in particolare per fotografia e videoarte).
Partire da questa constatazione ci conduce ai testi di Marco Giovenale che si collocano all’interno della cosiddetta poesia di ricerca che ha di fatto preso il posto della poesia d’avanguardia. Se diciamo avanguardia si pensa all’eversione, alla voglia di spaccare tutto, ma alla parola avanguardia si è sostituita la parola ricerca, come se fossero un po’ la stessa cosa. La ricerca non spacca ma costruisce, la ricerca sa che la rivoluzione non ha funzionato e che quindi la lotta deve diventare intelligente, aggiornarsi e internazionalizzarsi di continuo. L’attenzione per i linguaggi artistici ha conferito alla scrittura di poeti come Marco Giovenale una dimensione particolare a cui ci si riferisce spesso come scrittura espositiva. Se vogliamo, plurilinguismo significa qui operare su sovrapposizioni di linguaggi mediali assai diversi. La prospettiva ci è ormai del tutto consueta, resta di vedere come applicarla alla storia della letteratura e se si può situare idealmente accanto all’idea di plurilinguismo come l’abbiamo intesa finora. Usare altri linguaggi significa però (ed è una differenza non piccola) che la prima cosa con cui un poeta si identifica non è la lingua ma il funzionamento della lingua. Lavorare sul funzionamento può servire a contestare, decostruire, rimontare. I testi letti da Marco erano in buona parte delle istruzioni per l’uso, dei modes d’emploi, e sono fatti molto bene e ci hanno anche spinto a ridere di cuore non solo per l’understatement legato alla situazione di una lettura pubblica: il mode d’emploi funzionava perfettamente come mode d’emploi, ma poi c’erano i paradossi, le diaboliche frasi fatte, « qui un tempo era tutta campagna », dove la dimensione più trita del linguaggio quotidiano si allarga al gioco spettacolare della descrizione enciclopedica della campagna. È un modo di fare scrittura che azzera la distanza tra libreria e galleria d’arte, è un modo concettuale, dove la scrittura non è (solo) lingua, ma materiale da far vedere. Invece di fare fotografie (e Giovenale, nei suoi libri, usa comunque molto la fotografia) o video, si costruisce qualcosa, un oggetto testuale, con delle parole. E dobbiamo ancora aggiungere che, a ben vedere sono ancora parole molto scritte, parole letterate di qualcuno che ha molto orecchio ma che scavalca spesso il recinto del testo di versi, del verso prosodico e ritmico per fare oggetti speciali che lo stesso Giovenale e altri poeti (tra cui Andrea Inglese che è qui oggi con noi), hanno chiamato ‘prose in prosa’ accogliendo a modo loro il gesto della cosiddetta poésie pauvre di Jean-Marie Gleize.
Con Antonella Anedda abbiamo a che fare con un poeta a cui, all’interno dei propri testi, accade sempre qualcosa: parlando di sé o in quanto testimone di qualcosa. Sto usando una perifrasi per evitare di dire ‘poeta lirico’, che come etichetta puramente descrittiva di ‘poeta dell’io’ andrebbe ancora bene, non fosse che quest’io e le sue strategie sono talmente cambiate rispetto a quando è stata inventata l’espressione che è molto difficile potere riconoscere nell’io, toccato dall’esperienza della poesia confessional e di gender americana o dalla rivoluzione di Amelia Rosselli, lo stesso io finzionale. È invece un io eversivo che conosce la discesa verticale nel profondo (psicanalitica e mitica) e l’estensione orizzontale (sociale). Nel libro Dal balcone del corpo convive anche direttamente con la voce di un noi espressa dalla presenza polifonica di vere e proprie parti corali. Cambiato il centro del testo, una dimensione linguistica virtualmente plurima accompagna allora il ventaglio di esperienze dell’io. Abbiamo appena visto come il modo di fare poesia di Marco Giovanale possa definirsi come espositivo e installativo. Ora, la familiarità con l’esperienza artistica è anche una delle costanti della scrittura di Antonella, che ha letto prima un testo/ekphrasis su Mantegna e che ha fatto questo libro meraviglioso che è Salva con nome, pieno di fotografie, frammenti di fotografie, cose ‘strane’ come dei fregi tipografici a cornice, e ancora i tags che si usano per esempio per le previsioni del tempo. Insomma, è un libro che ha a sua volta una dimensione installativa: solo che non c’è un uso del linguaggio come materiale espositivo, si usa un linguaggio che poco dipende dalla struttura-libro, più vicino alla ‘poesia in poesia’ (ancora una perifrasi: per evitare di dire ‘lirica’). Le immagini e i miti dell’arte contemporanea vi hanno un ruolo importante. Prendiamo solo un tema noto, la metafora del cucire che non è soltanto metafora di gender (la poetessa cuce perché cuce parole e perché è una donna e sono le donne che rammendano) ma rimanda a tutto il lavoro di Louise Bourgeois per cui cucire era un’opzione di gender ma anche modo per produrre grande arte. Il libro come contenitore di immagini, immagini scritte o viste, è lontanissimo da una scrittura monolinguistica perché monosoggettiva. La monolingua è piegata in tante direzioni e esperimenti, al punto da sembrare moltiplicata. Ma Antonella ci ha letto prima anche alcune poesie in limba sarda. Sul piano del mezzo, si tratta di plurilinguismo, non c’è dubbio: di un incontro linguisticamente diretto con l’alterità. È una scelta che si allinea con tanta poesia (lirica) neodialettale assai raffinata anche recente. Il sardo di Antonella viene da una sua esperienza personale. Come ci dice nel libro sull’isola della Maddalena (Isolatria) lo ha imparato dalla domestica Micheledda a servizio dalla nonna. Il recupero del sardo è però traumatico, come ci ha detto «ho cominciato a scrivere, a pensare di scrivere dopo una situazione di lutto». Questo dialetto è dunque vestito di nero, vestito a lutto. L’effetto è quello di un arcaismo tanto forte quanto voluto: non c’è niente più arcaico della Sardegna, della limba, del racconto della vita/morte, dei miti e agenti atmosferici, racconto allineato con una visione di ‘eterno mediterraneo’ come la conosciamo, per esempio, per l’Andalusia di sole e morte di Garcia Lorca. È una dimensione molto diversa, dunque, dal sardo di Fabrizio De André. Le canzoni di De André (che fu un precursore anche in quest’uso) in sardo o in genovese corrispondono a un modo di usare il dialetto come si usa il gaelico o il bretone, o ancora il provenzale per fare il rap a Marsiglia: si tratta dunque di world music, che è tutta un’altra categoria linguistica. Nelle poesie sarde di Anedda colpisce invece la dimensione privata e interna della lingua che come già per le Poesie a Casarsa di Pasolini funziona soprattutto come una sorta di protesi dell’italiano. È una posizione lontana da quanto si può fare col dialetto in termini espressivi (prendete Raffaello Baldini, o oggi Edoardo Zuccato, dove il romagnolo e il milanese sono usati a partire proprio dal loro sostrato “grezzo” di lingua parlata). L’uso del dialetto ha in Anedda sì una radice vera ed antropologica, però sono testi che nascono dalla stessa sorgente dei testi italiani. Facciamo un solo esempio. Nel testo in sardo ad un certo punto si usa la parola sartaina, ‘padella’, una delle tantissime parole latine che non hanno riscontro in italiano. Ora, il testo italiano dice rame, non ‘padella’. Una padella è fatta di rame, diremo dunque che è una metonimia. Però se dico rame nel testo italiano, con una metonimia, con una parola che si illumina, sono in pieno splendore lirico e mi sono allontanato dall’oggetto probabilmente un po’ ammaccato che sta sul fuoco nella sua realtà fenomenologica e oggettuale. Queste poesie sarde mi sembrano perfino più tradizionalmente ‘liriche’ dei testi italiani di Anedda dove c’è sicuramente molta tradizione di lingua e parole ed immagini importanti, ma dove il gesto che domina è quello della costruzione. C’è una poesia di Salva col nome che parte sempre da una situazione di gender, in cui la poetessa sta sbucciando le cipolle, le si appannano gli occhiali per le lacrime, si sbaglia e confonde mentalmente la penna con il coltello… sembra di ritrovare la vanga della famosa poesia di Seamus Heaney riletta in prospettiva gender. Non si tratta più di scavare la lingua con la pala, una pala inglese che smuove un mondo perduto di sonorità celtiche tanto familiari quanto sconosciute, ma siamo in cucina, in un microcosmo strategico dove ogni pluralità sarà riorganizzata come uno, senza però appiattirsi.
Eva Taylor ha scritto alcune poesie che sono delle ricette in cui metaforicamente si cucina lingua. Eva parla tre lingue, il tedesco (lingua madre), l’inglese e l’italiano come lingue sia affettive che veicolari. Nel suo primo libro in italiano, L’igiene della bocca, il rapporto tra le lingue è tutto giocato sulla metafora dentistica. Il luogo fisico descritto nel libro è peraltro il centro stesso della meccanica linguistica, la bocca, dove lingua e denti partecipano alla formazione dei suoni. L’italiano depurato e perfetto del libro, privo di errori, corrisponde a un’igiene per cui tenere pulita la bocca significa, di fatto, tenere pulite le lingue (che non resti neanche un filo di tedesco in mezzo ai denti!). In altri testi successivi ci sono invece ‘errori’ che valgono non più come ‘resti’, ma come tracce di alloglossia. Quando Eva, per esempio, ci ha letto il verso «la maggior parte dei pesci è muto», l’accordo grammaticale è fatto con il tedesco das Teil, cioè un neutro che in italiano dobbiamo rendere col maschile, mentre parte in italiano è femminile. Ci si fa allora più attenti rispetto ad altre scelte. Ne segnalo una, che non è erronea, ma innocua perché ‘automatica’. Abbiamo sentito l’espressione muscoli dolenti dove dolenti è una parola italiana di quelle che noi sentiamo talvolta come perfino un po’ convenzionalmente legate alla lingua letteraria e un po’ abusate. Ora, nella scelta, gioca un certo automatismo legato a una logica che è quella della traduzione: il muscolo dolente traduce alla lettera schmerzenden Muskeln, è la prima opzione che si presenta, in entrambi casi con l’uso aggettivale di un participio presente. L’uso di dolente ci dice allora più cose rispetto al suo carattere un po’ usurato perché ci fa capire il percorso della parola, attraverso un itinerario necessario di traduzione, fatto dello scarto tra correttezza oggettiva ed insufficienza espressiva che diventa proprio per questo il prodromo e il tracciato di una narrazione metalinguistica implicita ai testi. Eva ci ha dato anche una spiegazione mitica del suo scrivere in italiano, ‘mitica’ in quanto ha le sue radici in un ricordo d’infanzia, ma, da osservatori, non può che colpirci l’investimento compiuto nei confronti di una lingua minore (investimento che tocca non solo la propria scrittura letteraria, ma anche la fatica della traduzione, per esempio rispetto alla bella versione italiana dei testi di Unica Zürn). È una situazione, quella di avere scelto una lingua minore – potevi lasciare il tedesco per l’inglese, per esempio – non per italofilia fulminante ma immagino per essere capita meglio nel luogo dove abita, per capirsi meglio indossando la lingua del luogo. Il plurilinguismo è un problema di strati, sono vestiti, stoffe da indossare in prove allo specchio molto diverse. La scrittura è allora un po’ provarsi tutto questo baule di vestiti. Rovesciando il rapporto con la lingua minore quale esiste per Eva, che la ha scelta, penso a un poeta Gian Maria Annovi, che ha invece il problema contrario. Lui vive e lavora negli Stati Uniti, annegato nella lingua ‘maggiore’, ma che continua a scrivere in italiano e ha tematizzato questa cosa in vari modi, per esempio in un bel libro che si chiama Italics, titolo che vuol dire tanto ‘corsivo tipografico’ ma che anche rimanda al fatto di scrivere in italiano in un ambiente anglofono. Il libro contiene poesie che parlano dei migranti. Anche Antonella Anedda ci ha letto una poesia di ‘morti per acqua’ nel mediterraneo, montaggio modernista di cadaveri che compiono un itinerario mitico dall’essere, con le loro ossa di corallo, direttamente usciti dalla Tempesta shakespeariana, allo stato di cadaveri buoni per un referto in stile medico-legale. Annovi ha un altro libro più recente, La scolta, dove c’è un dialogo in una lingua stranissima tra un’anziana signora, ex-professoressa di greco mangiata dal Parkinson e la badante che parla un italiano tanto sgrammaticato quanto aulico (perché appreso dalla professoressa). Il mimetismo fantastico inventato da Annovi (a cui non sfugge, come critico di arte contemporanea, l’aspetto installativo e politico del composto da lui inventato) ci consente di vedere la lingua minore dall’altra parte, di coglierne la sua assoluta mancanza di igiene.
Quella della badante di Annovi è forse un incubo della lingua, come lo rappresenta bene l’orco linguistico per eccellenza, il Calibano della Tempesta evocato dallo stesso Annovi in Italics. Tra le Categorie italiane di Agamben a cui alludevamo, c’è invece quella del Sogno della lingua, della ricerca della lingua artistica ‘adatta’, da Dante all’infernale caccia del caproniano Conte di Kevenhüller. Il plurilinguismo nutrito dall’apporto dei dialetti, del latino nelle sue varie forme e di tante altre lingue (a partire dal francese), ha contribuito nei secoli alla formazione del Sogno della lingua e corrisponde per questo ad una funzione storica, ancora perfettamente percepibile e, tutto sommato, utilizzabile, della letteratura italiana. La sua fine, contemporanea alla fine della tradizione come orizzonte autosufficiente ad accogliere tutte le intenzioni che si agitano nella scrittura, apre certamente ad altri modi di concepire il plurilinguismo, tanto in letteratura che nelle altre forme di espressione. Le contaminazioni e le operazioni di plastica tra linguaggi artistici diversi sembrano per ora più forti e decisive degli urti sociolinguistici percepibili invece nel lavoro degli scrittori linguistici (la stessa cancellazione, parziale, delle tracce, in Eva Taylor ne è una buona illustrazione). Artigiani e storici del sogno linguistico, abbiamo capito da tempo che dobbiamo ormai lavorare un po’ con tutto, e anche con gli incubi.
DISCUSSIONE CONCLUSIVA
Antonella Anedda:
Quando si parla di poesia ci si ritrova sempre “a pezzi” e questi pezzi spesso cozzano gli uni con gli altri. Il primo termine che mi ha colpito nel titolo di questo incontro è la parola identità. Non sono sicura che esista, non sono neanche sicura che esista il nostro esistere. Sempre più sono convinta che i nomi siano solo suoni e segni e i poeti, come insetti effimeri ma forti, come i vermi di Darwin, conservino la specie poesia. L’altra parola è ricerca. Credo che chiunque scriva faccia ricerca, la “ricerca” è inscindibile dalla scrittura così come il rischio. Mi colpiva inoltre la definizione del sardo come lingua iper-lirica e cercavo di riflettere da un lato sulla necessità delle definizioni, dall’altra sulla realtà della loro insufficienza. Ogni volta che sento la parola lirica provo una specie di stordimento perché ormai è usata come un insulto. Ma Fabio è un amico quindi stavolta non ci sono equivoci.
Quando ho scritto gli Attittos (così si chiamano i canti funebri in Sardegna: il termine viene dal Attittare: si piange chi è stato allattato) avevo l’impressione di non avere più le parole. Nell’introduzione a una serie di testi intitolati Short Talks, Anne Carson, un’autrice che ho tradotto e che ammiro, dice proprio questo: “un giorno mancavano le parole” e scrive una prosa fulminante su Ovidio in cui racconta dell’Ovidio esiliato a Tomi, dell’Ovidio storico ma anche di un qualsiasi essere umano in esilio, che non ha più una lingua, che non ha più una patria, che non ha più un pubblico. Non ha più parole. È un bandito e la parola band viene dal sanscrito e significa “parola”: l’esilio si fa dunque con la parola. Quando ho scritto queste poesie in logudorese, il sardo del Logudoro, letteralmente Luogo-d’oro, ero bandita da una lingua, l’italiano, in cui in quel momento non riuscivo a riconoscermi. Queste poesie non sono nate come una traduzione dall’italiano in sardo ma neppure dal sardo all’italiano. Sono nate da una connivenza tra due mondi diversi e paesaggi diversi: uno urbano e uno rurale. Da una parte Roma, dove sono nata, con la sua memoria classica, i poeti che amo, Catullo, Ovidio, Orazio, la sua architettura, e, dall’altra parte, una memoria orale di poesie recitate nei paesi dell’entroterra sardo povere di aggettivi, ricche di consonanti, bruciate agli orli come i campi murati di pietre. Da bambina ascoltavo la lingua ossessiva di una vecchia domestica Micheledda, che aveva perso un figlio, e che quando piangeva questa morte – mia zia diceva che ululava – cantava specie di ninnananne straziate. Eva Taylor parlava prima di frammenti nella bocca, in qualche modo ho l’impressione che frammenti di quei canti altrui, di un lutto interminabile mi siano rimasti incastrati dentro – non nella mente – ma nella gola. Nel momento in cui io stessa mi sono trovata davanti a una perdita che si è saldata ad una perdita precedente subita da piccola, di una persona amata, questi frammenti si sono composti come si compone un corpo. Forse l’iper-letterarietà non è altro che l’eco di una lingua molto arcaica che per resistere ha bisogno di prendere un tono alto, un po’ terribile come quello della Regina della Notte del Flauto Magico.
Nell’italiano, il primo incontro con la poesia è avvenuto in Sardegna con una poesia russa, perché ho sentito leggere alla radio una poesia di Alexander Blok:
Il vento ha portato da lontano l’ombra di un canto primaverile, luminoso e profondo, chissà dove si è spalancato un brandello di cielo.
Ho ascoltato una lingua mai ascoltata, il russo, e la traduzione italiana, in un paese sperduto della Sardegna centrale. Quelle parole non hanno solo spalancato uno spazio, hanno amplificato quello che vedevo e mi hanno anche detto – avevo tredici anni – che stavo ascoltando la poesia di qualcuno che non c’era più, stavo ascoltando la poesia di qualcuno che era vissuto e morto lontano nel tempo e nello spazio. Nella mia testa di ragazzina ho pensato che quella lingua potesse raggiungere la persona che avevo visto morire quando avevo sette anni, e che quella lingua fosse il linguaggio dei morti. Ho scoperto il libro citato alla radio: Poeti russi nella Rivoluzione, traduzione di Bruno Carnevali e là, cercando faticosamente i termini che corrispondevano a quell’alfabeto ho trovato quella strana pace che viene (e che avrei poi ritrovato al liceo con il greco) dalla tregua dei vocabolari, dalle parole isolate che staccate dalla sintassi navigano fino a noi. Credo che da quella scomposizione, gli atomi di una poesia ruotino e si ricompongano.
Per quanto riguarda la diversità credo di averla da sempre conosciuta, riconosciuta e apprezzata. Ho scritto l’introduzione a La casa esposta di Marco, ho molto apprezzato e scritto su La scolta di Gian Maria Annovi e sento molto vicine le poesie di Eva. C’è una ricchezza nella poesia italiana di oggi anche per queste suggestioni. Prima pensavo a un’autrice come Elena Janecek (di lingua-madre tedesca) che ha scelto di scrivere in italiano i suoi romanzi e il cui lavoro ho seguito fin dall’inizio. E’ un italiano molto interessante, ha una specie di luce obliqua, un elemento di disubbidienza che trasmette vita al testo. Mi sembra che l’irruzione di altre lingue nell’italiano sia molto importante. Mette in campo molti interrogativi. Chi siamo noi davanti a una lingua diversa? Affamati di linguaggio, esposti, appunto, come una casa sventrata. Il fraintendimento è sempre in agguato con il suo allarme, la sua potenziale rovina. L’esempio che faceva Fabio a proposito di un testo di Eva è molto interessante perché, è vero la parola dolente può sembrare “trita” a un orecchio italiano ma forse non è giusto isolarla. Forse bisognerebbe ascoltarla all’interno della cassa armonica del testo, analizzare come dialoga, anche visivamente, con l’architettura delle altre parole. Quello che non rende questa parola trita è la verità del tono, la sua giustezza nel sistema costruito dal ritmo del pensiero. È la falsità il guaio peggiore della poesia.
Marco Giovenale :
Dall’età di sei anni sono stato messo a scuola d’inglese. Non è una seconda lingua né tantomeno una lingua madre però per certi aspetti è un fantasma che mi devo portar dietro e che non ho mai avuto modo, per ragioni di vita, di esercitare come si deve. Questo, questa familiarità, stretta (e letteraria, non parlata), mi ha permesso negli ultimi tempi – grazie ad alcuni sodali italiani che si sono occupati moltissimo di scritture di ricerca contemporanee statunitensi, inglesi e canadesi – di conoscere autori che in parte io stesso ho successivamente tradotto, che mi hanno dato orizzonti un po’ diversi anche rispetto alla mia stessa scrittura di inizi anni Zero. Tanto che, più o meno nel 2011 (per ragioni anche politiche, per ragioni note, comuni, sociali, per le stesse ragioni che già molti anni prima, facciamo dal 1994, avevano portato molte persone ad allontanarsi dall’Italia), ho pensato avesse senso fondare uno spazio in rete, un blog collettivo, che si chiamava eexxiitt, con due “e”, due “x”, due “i”, due “t”, a voler sottolineare e quasi gridare usciamo di corsa dall’Italia… Ma era in gioco anche la particella “ex” latina, si trattava cioè anche di un complemento di moto da luogo, ex .it, un segno di origine: si viene da un contesto italofono, italiano. Da questa iniziativa, e anche con altri sodali, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli e Michele Zaffarano, ci siamo inventati dal 2013 vicino Reggio Emilia un incontro e reading esteso che ha coinvolto molte persone, anche tante lingue, soprattutto l’area francofona e l’area anglofona, per uscire da (stando in) Italia, proprio in un paradossale movimento di stasi/fuga. E so di parlare qui ora a molti che fisicamente hanno di fatto abbandonato il Paese rimanendo legati alla tradizione, alla cultura, alla lingua, alle scritture italiane. Nulla di nuovo, dunque.
Una delle ragioni specifiche dell’allontanamento a cui eexxiitt dava voce era dovuto, oltre e insieme ad una insofferenza verso il contesto politico italiano, anche a ragioni di scetticismo verso tanta politica editoriale. A una insofferenza verso traduzioni mancanti o, come si diceva prima con Jean-Charles Vegliante, a delle omissioni colpevoli dell’editoria, della cultura italiana, nell’importare materiali che non solo qui in Francia, ma appunto in Canada o negli Stati Uniti, si scrivevano e si scrivono ma non vengono tradotti. Già nel 2006 con alcuni degli stessi che hanno poi organizzato quegli incontri eexxiitt avevamo fondato un sito che si chiama gammm.org, che proprio di questo si occupa. E già lì e anzi soprattutto lì e da lì – con il sito – era anche un po’ nata l’idea di una “scrittura installativa”, categoria inedita (penso) nelle discussioni italiane, pensata per dar conto di tanti materiali che uscivano, soprattutto di autori statunitensi che lavoravano moltissimo sulla massa testuale, sulla non attraversabilità lineare del testo, su una sorta di monoliti verbali, che possono essere visitati solo per sondaggi minimi ma certo non attraversati come si fa con un testo dall’inizio alla fine (penso a certe cose di Peter Ganick, per dire).
Ecco, questo stare nella propria lingua e starne in parte fuori penso spieghi un po’ la torsione e le diversità e le contraddizioni anche interne dei libri che via via nel tempo mi è capitato di scrivere, tra cui Antonella citava La casa esposta, che – idem – esce nella collana fuoriformato ed è uno strano libro perché inizia con una sequenza di poesie; al suo “quasi centro” (perché è in verità spostato verso la fine) ha una serie di fotografie in bianco e nero di una situazione disastrosa di scasamento, di trasloco; e infine si conclude con un’altra piccola sequenzina di poesie e delle note conclusive… Ma in realtà il libro non si conclude così, anzi cambia addirittura registro grafico (passa dal Garamond all’Helvetica) e presenta una serie di prose che non c’entrano assolutamente niente col resto del libro. È come una sorta di arco che aggetta su un punto dove in realtà c’è un mancamento, e il testo continua, variando e virando bruscamente. Questa sorta di disequilibrio interno dei miei libri – disequi-libri quindi – è poi stata anche una costante. Penso a Shelter, uscito nel 2010, e anche per certi aspetti a Maniera nera, più recente. In entrambi questi libri però la strategia è stata diversa: invece di spostare verso la fine qualcosa che mettesse in crisi e minasse le normali acquisizioni del resto del volume (acquisizioni liriche e di limpidezza di linguaggio, di sintassi torta ma comunque vista nel quadro della tradizione), la contraddizione è stata anticipata, cioè collocata nel cuore del testo, facendolo così esplodere dall’interno, nelle sezioni centrali, pensate per funzionare cioè da asse di rotazione di tutto il libro. Asse dunque di un moto centrifugo, non centripeto. E quindi sia Maniera nera sia Shelter (che ha un titolo inglese per altro, anche perché insegue una idea di luogo che chiude e allo stesso tempo ripara, prigione e nello stesso tempo guscio protettivo) hanno questa sorta di contraddizione interna, di stare nel luogo dove comunque la lingua parla – la propria lingua madre – ma in qualche maniera anche uscirne, spostandosi verso una lingua che continua ad essere l’italiano ma è un italiano straniante, straniato, paradossalmente proprio in virtù della sua chiarezza, perché non ha niente della ricerca linguistica esagitata ed esasperata di tanta scrittura che invece può far riferimento alla seconda parte degli anni ’80, conclusasi con l’esperienza del gruppo ’93. Anzi, per me una direzione importantissima è quella segnalata da Jean- Marie Gleize a proposito della littéralité, o estrema platitude.
Ovviamente bisognerebbe toccare i temi della traduzione da me fatta o non fatta…
Fabio Zinelli:
Si parlava di scrittura installativa nelle gallerie, ma tu con parte dei progetti che ci hai appena raccontato, sei, in qualche modo, anche poeta-curatore. Il curatore della mostra è dunque artista lui stesso.
Marco Giovenale:
Questo è quello che per certi aspetti facevano – questa è l’idea di nascita di Benway – gli altri grandi assenti dalla traduzione italiana, che sono appunto gli oggettivisti statunitensi, Reznikoff, Zukofsky, Oppen etc…
Ultima cosa che voglio dire: è tutta la sera che sto cercando di cancellare con l’unghia la scritta Ikea da questa matita. È un po’ quello che sostanzialmente mi sembra di fare anche con la scrittura. Ossia… cerco comunque di far sempre riferimento ad un materiale estremamente povero, linguisticamente anche, perfino transnazionale (talvolta inglese, perché mi succede di pensare e scrivere direttamente in inglese), però con un retropensiero politicamente connotato a togliere e raschiar via le tracce di asservimento che comunque anche la lingua inglese e più in generale la lingua troppo facilmente parlabile o parlata importa, trascina con sé.
Eva Taylor:
Vorrei riallacciarmi al concetto di plurilinguismo introdotto da Fabio Zinelli. Mi pare che finora sia stato delineato come qualcosa di monolitico, mentre le esperienze raccontate da Antonella e Marco si possono considerare fenomeni di eteroglossia, nel senso di Bachtin, cioè del fatto che le lingue stesse abbiano già al loro interno una diversificazione di varietà e di registri analoga alla tensione tra lingue categorizzate come diverse – tedesco, inglese, francese, italiano, etc.. Credo che il processo di fertilizzazione linguistica legato all’eteroglossia sia più sotto cute. Quello che ha raccontato Antonella è un esempio perfetto di questo, perché se il sapere linguistico in superficie non è associato alla competenza attiva di un dialetto, tuttavia in determinate costellazioni storiche e biografiche si può attivare una sorta di sapere nascosto – forse questi sono i momenti in cui ci si mette a scrivere. Perché scrivere non è solo un piacere, c’è tutto un lavoro di limatura faticosa di lingua che a volte non si sa bene da dove arrivi. Non volevo parlare di quest’ultimo aspetto, ma mi pare che l’idea di plurilinguismo che tu hai menzionato sia un po’ ristretta, perché l’avverto troppo legata alla variazione diatopica, dei dialetti. L’attuale poca incisività di questa dimensione nella poesia contemporanea rispecchia probabilmente un processo della storia della poesia italiana. Però questo non significa una mancanza di plurilinguismo nel senso dell’eteroglossia come la intendo io, cioè come (com)presenza di varie lingue, attive, nascoste o fantasticate. Anche l’esempio di Marco va in questa direzione, lui ha parlato del ruolo dell’inglese e di come questo operi a livello di costruzione testuale, non tanto in superficie. Per questo credo che la categoria stessa di ‘plurilinguismo’ non sia più adatta a descrivere la situazione attuale del processo poetico in Italia.
Ora, sulla questione di dolenti, posso dire che avevo usato il termine in Igiene della bocca proprio perché si trattava anche di un lavoro intertestuale, dolenti lì è una citazione del testo di odontoiatria che vi sta alla base, dato che quella mia raccolta usa tutta una serie di collocazioni presenti nella ‘fonte’ perché gioca con la decostruzione di quel testo e con nuovi accostamenti di moduli lì presenti. Sono grata a Antonella per aver “salvato” anche quella possibilità di lettura.
Torno sull’argomento del pluriliguismo: sono tante le situazioni in cui ci si può stilisticamente rapportare al plurilinguismo. Nel volumetto Novunque della Compagnia delle poete ci sono autrici (come Barbara Serdakowski e in parte anche Candelaria Romero) che accostano le lingue, in parte come costante traduzione, come un processo di filtraggio continuo da un idioma all’altro, ma ci sono anche quelle che usano le due lingue contestualmente, come per creare una sintassi di lingue che in realtà non hanno una sintassi comune. Questo tra le lingue romanze funziona meglio. Posso citare qui l’esempio di Adriana Langtry, di come lei scriva al contempo in italiano e in spagnolo.
Che cosa succede nella percezione di questi testi quando chi legge o ascolta è di fronte a delle poesie che accostano lingue diverse? È un fenomeno percettivo che provoca un’apertura dell’orecchio, non soltanto un’apertura della scrittura, ma anche un processo di assimilazione, di un tipo di forme espressive diverse, che farà sì che si percepiscano le lingue e le loro costellazioni in una maniera differente.
Fabio Zinelli:
Dicendo plurilinguismo sicuramente sono rigido, però mi riferivo alla tradizione italiana in cui diventa un fatto veramente identitario. Il friulano di Pasolini uguale la lingua dei trovatori e, in questo senso, identitario, addirittura un blasone, araldico etc… Rispetto alle fenomenologie che dici, siamo poi nel regno della sociolinguistica, cioè il code switching, convergenza – divergenza, ed è estremamente interessante come una lingua agisce perché ne attraversa un’altra oppure anche se noi non lo vediamo agisce comunque perché ha strutture simili in due lingue diverse e allora qualche cosa succede. Insomma, tutta una scala, una gradazione, che porta piuttosto a studiare – e un po’ di caselle le devo fare, perché studiando la casella è l’unico modo per arrivarci – mi offre l’occasione, questo plurilinguismo che ci hai raccontato meglio tu, di lavorare su testi come i tuoi, o come quelli contenuti nell’antologia, o come quelli di Marco. Devo smontare un congegno in qualche modo e fare delle tassonomie.
Ma sentiamo intanto forse il pubblico…
Andrea Inglese:
A me è interessata soprattutto questa osservazione di Eva riguardo la questione della sintassi. Cioè, io credo che per un certo numero di scrittori italiani, in particolare modo poeti, che peraltro sono riconducibili all’aria delle scritture di ricerca, un elemento fondamentale è stata la lettura ad esempio dei testi della poesia francese contemporanea che emerge a partire dagli anni ’90. Una poesia che è estremamente lirica e che, nello stesso tempo, aveva già rotto con la neoavanguardia e che in Francia aveva anche un appoggio, un sostegno direi, da parte delle istituzioni. Esiste in ambito francese un sostegno molto forte anche alla poesia attraverso delle résidences, attraverso delle borse, attraverso un aiuto alla pubblicazione, attraverso una rete di incontri, festival etc… Per delle persone – penso per esempio a Michele Zaffarano che ad un certo punto si trova a Parigi, penso ad Andrea Raos che per lungo tempo è a Parigi, io stesso per periodi più o meno lunghi sono a Parigi – il rapporto con la poesia francese è stato fondamentale proprio per scardinare una serie di figure, di strutture sintattiche, di atmosfere semantiche, senza dover portare dentro il francese in nessun modo nei nostri testi. Per altri autori come Gherardo Bortolotti, come Marco Giovenale, questo passaggio è stato fatto con l’inglese, soprattutto degli autori americani. Penso che questa sia stata una delle cose fondamentali, cioè prendere quella distanza critica rispetto alla propria lingua attraverso l’esplorazione e la traduzione e la lettura di autori con la cui lingua si era in qualche modo estremamente familiari. Quindi non c’era nessuna traccia evidente di questa seconda lingua, ma questa seconda lingua funzionava, come Eva Taylor ha detto, in forme quasi implicite e oblique.
Fulvio Caccia:
Sono anche io scrittore. Faccio parte di questa migrazione italiana all’estero. Mi definisco come italiano di lingua francese perché ho vissuto nel Nord America, e poi sono diventato francese venendo in Francia. Vedo chiaramente, dunque, questa simmetria, questo specchio. Perché l’esperienza l’abbiamo vissuta anni fa in Canada, per esempio. Attorno alla rivista «Vice-versa», degli anni 80: eravamo un gruppo di italiani che avevamo pubblicato in francese, inglese e italiano questa rivista di idee, di letteratura e abbiamo fatto la promozione nell’ ’83, dunque prima di Armando Gnisci, delle écritures migrantes.
Jean-Charles Vegliante:
Volevo dire anche io due parole su questo argomento di migrazioni. Secondo me il sostrato profondo non è di sociolinguistica o di rapporti con le avanguardie, neo-avanguardie o post-avanguardie americane o francesi, ma è proprio questo movimento migratorio enorme che c’è attraverso tutto il mondo e che fa sì che il plurilinguismo, come diceva Eva, è sottocute. Ed è una questione di immaginario ormai, non di caselle. Ho fatto anche io sociolinguistica nel corso della mia carriera, ma non siamo più a quel livello lì.
Sono stato colpito per esempio dal ritorno di due tematiche della radio. Ebbene, uno che in Francia, tanti anni fa, aveva cominciato a teorizzare questi problemi si chiamava Armand Robin. Robin durante l’occupazione ascoltava tutte le radio del mondo, girando la manopola, e ascoltava queste lingue babeliche che lui non comprendeva per niente e ha cominciato a tradurre così da Alexander Blok, da Petrarca, etc… Senza sapere le lingue. Dunque, c’è un fenomeno di circolazione. Volevo rammentare per chi non lo sapesse che abbiamo pubblicato di recente un bel libro sul plurilinguismo e sul come tradurre il plurilinguismo, i cui responsabili sono Emilio Sciarrino e Lucrezia Chinellato. Sono problematiche che diventano molto forti, che vanno oltre il plurilinguismo – se posso permettermi – “vieto” che ha un po’ usato Fabio Zinelli.
Un’ultima parola. Questa circolazione si può fare da un punto di vista filologico. Per esempio se Attittos viene da allattare, ebbene c’è una tradizione che risale a Jacopone da Todi: la Vergine piange il figlio allattato. Dunque tutto questo si muove sotto la schiuma delle mode, credo. La migrazione in senso antropologico, secondo me, è alla base di tutto questo e coinvolge sia le lingue sia questa specie di ipertesto semovente che abbiamo in questo periodo.
Fabio Zinelli:
Questa è una visione interessante. Difendo senz’altro le categorie storiche di plurilinguismo. Abbiamo sempre sentito plurilinguismo uguale Carnevale, etc… Erano valide per la storia. Il plurilinguismo di oggi è tantissime cose, però parliamo di individui scrittori, si tratta di un caso circoscritto. Naturalmente siamo tutti plurilingue, stando a questa pressione che va oltre la grammatica. Perché se coinvolge l’immaginario va assolutamente oltre la grammatica. D’altra parte credo però ci siano segmenti di esperienza diretta soprattutto quando si parla di scrittura, come quello che evocava Andrea, non solo per il fatto di essere stato in Francia e fra l’altro di esserci tutt’ora, ma avere lavorato su un certo tipo di testi. Qua forse la sparo un po’ troppo generica – è possibile che la variazione di ordine lessicale nella letteratura francese normale sia minore che all’interno della letteratura italiana, genericamente. Noi questo interesse per la sintassi ce l’abbiamo meno, noi siamo ammaliati dal lessico, forse dallo stile, che non è esattamente la stessa cosa della sintassi, anche se faccio stile con la sintassi. L’idea delle migrazioni come infezione – brutta parola infezione- però è veramente molto interessante, peraltro non conoscendo le elaborazioni teoriche e pratiche… sarà un mio interesse sviluppare ed imparare…Comunque, la prospettiva di Andrea mi sembra che parli di un caso in particolare, ma è una cosa che si può descrivere con gli strumenti tecnici soliti. Può essere convergenza, cioè scopro che nella mia lingua c’è una struttura sintattica che non ho mai valorizzato, c’è anche in francese e la vedo perché é esposta grazie a un certo tipo di scrittura che porta fuori la sintassi. Questa è sociolinguistica, non di base nel senso di “livelli di cultura”, ma proprio in termini tecnici…
Eva Taylor:
Volevo aggiungere qualcosa riguardo alla migrazione, perché è vero che c’è in tanti paesi, anche in Germania dagli anni ’60 in poi c’è questa letteratura di migrazione che ha portato a dei risultati veramente notevoli, anzi forse è la letteratura attualmente più effervescente in Germania. È interessante vedere come proprio questi processi migratori consentano l’apertura a fenomeni storici: ho recentemente conosciuto degli scrittori argentini di origine italiana, con una storia familiare di migrazione di circa 100 anni, che recuperano la migrazione e le radici non solo come tema, ma dimostrano anche una particolare attenzione alla lingua, dato che provengono spesso da famiglie di parlanti dialettofoni, dove sono rimaste tracce dei dialetti italiani come lessico familiare. Siamo di fronte a una situazione in cui il plurilinguismo prende una dimensione storica, non è più legato solo all’attualità, ma si vede che tramite la migrazione ha integrato generazioni precedenti, e credo che tutti concordino questo tema ci coinvolgerà sempre di più.
Fabio Zinelli :
Proporrei di concludere con un ultimo giro di letture.
Eva Taylor:
Malìa
Potessi solo
trasformarmi in melagrana.
La buccia rosa pallido
e nelle mie camere
seicentrotredici piccoli pensieri
rosso sangue, buoni da bere.
Uno arriverebbe
e mi chiamerebbe mela paradiso.
Così bello e sbagliato.
Marco Giovenale:
C’è un testo centrale di Shelter intitolato (solutus): è una prosa, una lunga prosa, da cui leggo ora un frammento che è l’ottavo.
(solutus) nel suo insieme è, come dicevo, una sorta di asse centrale che funziona a dissipare, fugare o addirittura centrifugare, le certezze metrico-stilistiche del resto del libro.
Palloni di carta. Parasoli di carta. Bambini di carta. Quello che vedo. La stessa cosa che vedi tu. Un viso comune. Capelli neri. Occhi piccoli. Un mento appuntito. Allora non è la faccia che sto guardando. Preferite che comunichiamo in questo modo. Per me non ha molta importanza. Quindi senti quello che faccio. Vi lascerò scegliere. Mi dispiace. Questo non si può fare. Altroché. È per questo che siamo qui. A che ti servono. Sono molti anni. Come fa a saperlo. Se la riconosco. Là in mezzo. Il fabbricato in fondo alla strada. La finestra all’ultimo piano. Ho capito. Potrebbe essere chiunque. In realtà le assomiglia. Le piace curiosare però. Vedere come si fa. Quella è la cantina. Pensi che abbia commesso qualche reato. Casualmente. Sì. Ci ha fatto entrare. In casa. Speriamo che R. ce lo sappia dire. Quando parleremo con lei. Pensi di poterle parlare. Vedrai. No. Non è chiuso. È bloccato.
Antonella Anedda:
Desiderio
Il suo corpo cade sulla mia paura.
È la mia tregua, il mio sogno notturno.
Affondo nel suo petto, nel suo ventre.
Amo percorrere le distese ho il senso dello spazio.
Il sesso è legato al tempo
caduco come una traduzione
ma la pianura che lo circonda è il deserto su cui innalzare [le mie tende.
Chi potrà cantare la volta stellata del mio amore?
Dire quanto coincida con il mio senso di prateria e di [pace?
Se sapessero la mia povertà e il senso di sete che mi tiene [in vita.
Lo porto in me, immenso e invisibile, sceso in ognuna [delle mie ossa
assorbito dalla spugna dei polmoni, trattenuto dai reni
e ormai così prossimo al cuore da spaccarlo.
Che io l’abbia inghiottito è provato dalla mia pesantezza.
L’anima prima leggera e cava
ora pesa fitta di sassi.
Ho talmente amato da diventare pietra, non fuoco
ma uno dei macigni a guardia dei templi pagani.
E se attraverso l’amore si convertono interi popoli, perché [non io?
Niente più profeti, niente più Messia, niente più attesa,
solo colonne che affondano nella terra, nessun sacrificio.
Il vento scuote le querce e io aspetto solo lui
metà uomo e metà buio, perduto nel labirinto mortale.
Può uccidermi, le mie ossa scricchiolano e si frantumano.
Non ho più corpo, non ho più pelle
perdo ciò che pensavo fosse il centro attorno a cui ruotare.
C’era un’asta invisibile
che lasciava inclinarmi continuando a sopravvivere
lui l’ha spezzata. È notte, vedo i secoli sfilare uno davanti [all’altro.
Sono la terra come la pensò Tolomeo.
Apro le braccia. Il terrore non ha più spazio.
Le case sono briciole.
L’intero mondo si appiattisce e scompare.
Immagine: Opera di Wael Shawky.
[1] S.Ghidinelli, Marco Giovenale e la mise en livre. Appunti su Tagli/tmesi e Delvaux, in «Il Verri», n.60, febbraio 2016, p.140.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).