Cercatemi perdono

da | Gen 20, 2015

Nella sua poesia Joseph Tusiani fa con il significante ciò che Borges fa con i significati. Contro una Babele di contenuti, costruisce un sistema di segni e di suoni, esaltando la forza mediatica e mimetica della lingua. Emigrato a New York da San Marco in Lamis subito dopo la laurea nel 1947, Tusiani sceglie il sincretismo di codici linguistici diversi e anche opposti, tra cui il latino, la lingua sobria degli antichi, messa in contatto con l’italiano, l’inglese e il dialetto garganico. “Il dialetto è forse un nostos liberatorio. Segna il ritorno alla verginità del vedere e del sentire”. L’opera di Joseph Tusiani si pone nel solco dell’affermazione del dialetto come lingua antagonista. La riscoperta del dialetto sta nel suo offrirsi come lingua in rivolta contro il conformismo linguistico della società di massa, post-industriale e continentale, che ha imposto, tanto a livello nazionale, quanto a livello globale l’uso universale dell’inglese. Il dialetto ha trovato valore e legittimazione nella lotta al pensiero unico occidentale che abroga ogni soggettività territoriale e culturale. La subalternità si rivela la sua forza. Per Tusiani il pericolo maggiore della poesia è proprio la letteratura (opinione che curiosamente condivide con Mark Strand), ossia il rischio che la dimensione letteraria possa offuscare la realtà autentica dell’esperienza vissuta che si porta in poesia. Per questo, quando tutte le altre lingue restano mute, parla la “parola antica”, con la quale Joseph Tusiani è “riuscito a dire cose che forse non avrebbe mai detto, o saputo dire”.

Pasquale Vitagliano

* Tutte le citazioni sono tratte da Joseph Tusiani, La parola difficile. Autobiografia di un italo-americano, Schena Editore, Fasano, 1988.

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Lettera a don Fernando Pessoa
di Joseph Tusiani

alle rime non bado: è raro scorgere
alberi uguali, l’uno accanto all’altro
Col dovuto rispetto, Don Fernando,
in questo solitario andirivieni
che ha nome vita, m’agghiaccia il pensiero
di restar solo, orridamente solo
in mezzo a creature sole, alberi soli,
in una solitudine stellare
su questa terra, stella umana e sola.
Diventa gioco anche la solitudine,
dal nascere al morire, dalla prima
ombra che, nulla in sé, s’insinua sola
sopra ogni cosa e si fa poi valere
con il nome ed il monito di notte.
Io cerco compagnia per sopravvivere
o almeno per durare fino al giorno
a me assegnato da Qualcuno ignoto
di cui avverto a volte la presenza
in me, proprio per questo mio bisogno
di sentire, a me intorno, un suono eguale
alla mia voce ed, al di là del mio
silenzio estremo, un simile tacere
d’astri e natura in vincolo fraterno.
È opulenza di musica e luce
che da recessi di radici e linfe,
con pretesto di rima, mi costringe
a ricercare rivoli ed accordi
onde allietarmi pareti senz’eco
e senza volto che mi rassomigli.

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Aubade in Gray

Gray was the color of all timelessness
when timelessness and color were all one.
There was no fire yet, there was no sun,
there was God dreaming of a light called man.
And then time trembled out of timelessness,
victory rising from no battle won.
There was no music yet, no crying done,
there was God dreaming of a voice called man.
Now look and listen. In this timelessness
the first birds twitter, the first shadows run,
heaven and earth and dusk and dawn are one,
and I am dreaming of a God called man.

*

Canto dell’alba in grigio

Era il colore grigio senza tempo,
e senza-tempo e grigio eran tutt’uno.
Non c’era fuoco già, né sole alcuno,
c’era Dio sognante lume d’uomo.
E il tempo nell’eterno scosse un fremito,
vittoria senz’alcuna guerra vinta.
Non c’era musica ancora, né gemito,
c’era Dio sognante voce d’uomo.
E guarda e ascolta: in questa eternità
fischiano i primi uccelli e scorron l’ombre,
cielo è terra, alba è sera in unità,
ed io sogno un dio detto uomo.

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Cercàteme perdone (Cercatemi perdono)

Che? V’ avessite ccrede che pe’ quisti
quarant’ anne de’ Merica
me so scurdate quidde che i’ viste

cu quist’occhiera meia
prima de parte pe’ dda terra trista?

Che? Credete voi che perquesti/ quarant’anni d’America/ mi sia dimenticato di ciò che ho visto/ con questi occhi miei/ prima di partire per quella triste terra? Bronx, America 9

*

“So menute culla scurda:
cumpà Pé, non te recurde?
Me canusce? So Tusiane,
so menute da luntane”.

Cumpà Petre trainere
no’ responne a nu frustere.
Tutte li spine sonn’asciute,
tutte li stelle so fernute.

Sono venuto di notte:/ compare Pietro, non ti ricordi? / Mi conosci. Sono Tusiani?,/ son venuto da lontano”.// Compare Pietro carrettiere/ non risponde ad un forestiero./ Tutte le spine sono spuntate / tutte le stelle son finite. Tìreca tàreca

*

Sciò sciò! Musce muscille! Sciò!
‘Ndi ‘ndò! ‘Ndì ‘ndò!
La campana de Sant’Antó!
None none! I’ non stegne sbalijanne:
me stegne ‘mbrijacanne
de quiddi sóne che senteva ‘ntanne,
quande teneva sett’anne,
fore lu Puzzeranne.
Scì e nno! Scì e nno! Cicche ci vò!
Cicche ciacche, cicche ciacche!
Petre Mola e vacchevacche!
Nucenzie e Nespolone!
Tirolò e Trufelone!

Sciò sciò! Musce muscille! Sciò! / ‘Ndi ‘ndò! ‘Ndì ‘ndò!/ La campana di Sant’Antonio!/ No no! Io non sto farneticando:/ mi sto ubriacando/ di quei suoni che ascoltavo allora,/ quando avevo sette anni,/ fuori il Pozzogrande./ Scì e nno! Scì e nno! Cicche ci vò! Cicche ciacche!/ Pietro Mola e Vacchevacche!/ Nucenzio e Nespolone!/ Tirolò e Trufolone! Bronx, America.

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Immagine: Brooklyn Street Art – JR in the Bronx.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).