Case perdute

da | Ott 24, 2022

Da poco uscita una nuova edizione ampliata di “Case perdute” (1976-1985) di Eugenio De Signoribus. Curato da Francesca Santucci, il volume, pubblicato da Giometti&Antonello, contiene note critiche di Simona Morando e Massimiliano Tortora, di cui riportiamo due stralci assieme a una selezione di poesie.

 

da “casa perduta” (1976)

qui, non visto, potrò stare
sopra la folla meccanica
nell’avantindietro senza sosta
àugure dal corpo d’uccello

e all’accommiatarsi d’ogni dì feroce
io senza sosta potrò prendermi la notte
e studiarne i buchi neri del consistere
in attesa di segnali luminosi

(ma voi, cerco di ricordare, barlume
che s’incugna nella testa,
le vostre facce, dico, non mi sono
nuove né molto liete le vostre parvenze!…)

 

 

da “paternali” (1980)

(PATERNA MENTE)

(questo è il mio corpo e il mio sangue)

queste parole – non altre – semplicemente
sontuose gli affioravano alla mente
scavalcando il suo cervello selettivo
approdato a sole cento parole base
ma ridotte praticamente a zero a causa
del verbiloquio contemporaneo…

queste parole – non altre – molecole
d’una reale educazione cattolica
gli vagavano dentro la testa
come intrepidi conigli affamati
e premevano veementi sulle labbra
per un’improbabile riproduzione sonora

(– logica, lucida mente
mente logica, lucida
lucida logica, mente –
si ripeteva come deterrente
mentre il forsennato dietro gli occhi
bastonava un cane andaluso col muso
di Marx)

 

 

da “week-end” (1982-1983)

se mai c’è stata anima viva
uso figura lessico
se mai questo luogo è stato
abitato davvero…

agli occhi interroganti solo pare
una chiusa voce che non si rivela

sui rami fremendo lancio la corda
tirami su – ti prego – prima della neve

 

 

da “figure figuri figurine” (1977-1985)

(SPAROLAIO)

lo sparolaio, l’onnisciente
di ogni tema-parola, sa
da nascita a morte
da dio diavolo a sorte

il sapiente, il verbaiolo
mette sempre il suo tappo
ingurgita spazio e aria
il mai sazio ingorgaiolo

e striglia e scriviglia
senza scampo e nesso
né capisce l’inciampo
il buttafuori di se stesso

 

 

da “pratiche licenziose” (1980)

dopo ogni caduta
è opportuno rinvenire
chiedersi dove sono cum gaudio
et spe (o dolo indeliberato)
rinfilare memoria invenire
inventare riprepararsi

 

 

da “altre croniche” (1980-1982)

ogni ora da vivere è buona per parlare
o per stare accucciato come un cauto animale
sul divano grigio, contro i doppi vetri,
dai linguaggi ambigui dei moti circondato
e da oscillanti visioni di edifici che mai crollano…
Ogni agone può bruciare tutta un’ora
può bruciare la lingua fin nelle radici

 

 

da “minima vocalia” (1981-1984)

(FOLLA)

Le telecamere sono fissate ai lati del percorso sgusciante dalle mura della città.
Quella che si offre è una visione di corpi nudibondi, non ben allineati, variamente atteggiati, più incurvati che eretti. Qualcuno guarda indietro… ma dietro la fila s’allunga a vista d’occhio, crea
un’ansa. Da laggiù sale per scendere di qua, verso la macchia in fondo alla collina, dove sviolina un canto lamentoso, rituale.
Ogni tanto c’è chi si ferma e si mette a gridare lo scandalo della sequenza. Si formano capannelli che, dopo un agitato gesticolare, si sciolgono in direzioni diverse, traverse.
Molti singoli decidono di avanzare zigzagando, oltre i margini della strada: l’angolo più lontano che vanno a toccare non perde di vista l’andamento della massa.
Sui monitors, situati al posto delle pietre miliari, i soggetti si sguardano mentre passano, sorridono, sono seri, smorfiano, indietreggiano per riguardarsi… ma sono scomparsi. Devono arrivare ai prossimi specchi per vedere chi sono, se sono, se si riconoscono…
L’inquadratura è fissa. Davanti avviene l’animazione, l’imitazione di sé e di altri già passati. Alcuni spingono, si antepongono, si sovrappongono, tanto che le immagini risultano spesso affollate, deformate.
Quando la luce naturale s’affievolisce, sembra un passaggio d’ombre. E c’è qualcuno allora che, come uscito da un incubo, grida (malgrado la supina evidenza) «non è vero che tutto ciò che nasce è degno d’andare in rovina!»…
(ma forse è una sensazione, un vocalizzo interiore)

 

 

UNA QUESTIONE DI FEDELTÀ
di Simona Morando

“La nuova configurazione di “Case perdute” suggerisce un’aggiornata lettura del libro che tenga conto almeno di due fattori. Il primo concerne il recupero e l’accoglimento, all’interno del libro, che modifica la sua struttura appositamente, di singoli testi e sequenze datati variamente tra il 1980 e il 1985 ed esclusi dalle due edizioni originarie (1986 e 1989) e dalle successive. Il secondo fattore richiede invece di ragionare sull’utilità (parola da leggersi in senso aristotelico) di una nuova edizione di questo percorso d’esordio di De Signoribus nella storia dell’oggi, al cospetto del paese che l’Italia è diventato. Perché di questo si tratta, quando ci si trova dinnanzi ad un nuovo libro di De Signoribus: bisogna capirne la reattività rispetto alle «cronache» in cui si va a collocare. […] “Case perdute” è libro post-pasoliniano a tutti gli effetti, perché scarta rispetto, ad esempio, a Trasumanar e organizzar (1971), l’ultimo libro di poesia di Pasolini, dove insistono una spessa allegoresi autobiografica e il narcisismo dichiarato da un testo come La nascita di un nuovo tipo di buffone: De Signoribus rifiuta drasticamente a priori entrambe le soluzioni. Lo scarto è evidente anche rispetto ad un’altra poesia di quel libro, “La raccolta dei cadaveri”, del 21 dicembre 1969, scritta a valle di Piazza Fontana e dell’omicidio di Pinelli, che dentro una cornice linguistica del tutto diversa utilizza il tema della casa e del rincasare (già perlustrato in “La ricerca di una casa” in “Poesia in forma di rosa”) come alternativo e opposto al tema del covo, simbolo delle fazioni politiche rivoluzionarie a cui Pasolini guarda con affettuoso sospetto e profondo pessimismo storico: «Forse ciò con cui ho tanta confidenza, / le case / come barche abbandonate in una sciagurata bonaccia, / testimoni di terrori per cui rincasare è fuggire / nell’unico covo possibile e inutile; forse è alle mie spalle […]». Le poesie «ordigni» di Pasolini, venate dall’ironia borghese, sono distanti dalla più lucida e oggettiva ricerca di De Signoribus, tempo storico condividendo, che sceglie il grottesco al posto dell’ironia. Nel doppio sguardo verso il proprio passato e verso la presente rivendicazione di una complessità stilistica corrispondente ai realia trattati, questa nuova edizione di “Case perdute” va definita anche nei termini di una questione di fedeltà. Più di quarant’anni dopo (contando la data 1976 come inizio degli inizi), la strada intuita era giusta e “Case perdute” è ancora un libro che smiccia e parla al nostro oscuro tempo.”

 

 

UNA PERSISTENTE NECESSTITÀ: ETICA, STILISTICA, POLITICA
di Massimiliano Tortora

“Case perdute” (dopo un’anticipazione nell’’86) esce definitivamente in volume nel 1989, per Il lavoro editoriale di Ancona, e raccoglie testi scritti a partire dal 1976 fino a tutta la prima metà degli anni Ottanta. Un periodo, quello dei primi anni Ottanta, che vede la fine dell’impegno politico (e di pari passo degli intellettuali), la pagina più efferata, cupa e irrazionale del terrorismo, l’ascesa dell’edonismo, il mito del benessere, del denaro, delle merci, la marginalizzazione della cultura (se non nelle sue forme evenemenziali, ossia grandi iniziative di grande impatto per il grande pubblico: insomma grandi e quantitative, non certo qualitative). In questo clima anche la letteratura retrocede con incoscienti forme di autoesilio, sospese tra fughe in avanti iperletterarie, e irresponsabili abbassamenti al di qua di qualsiasi condiviso registro stilistico. All’interno di questo clima, invece, “Case perdute” si contraddistingue subito come un libro che da un lato si oppone allo spontaneismo che pure aveva avuto una sua fortuna negli anni precedenti (come se scrivere poesia fosse un’istintiva esternazione dei propri stati d’animo) e dall’altro rifugge lo sperimentalismo più esibito, che finisce per far luce più sul mezzo poetico in sé (e l’ipotetico estro di chi lo elabora) che non sull’oggetto del testo. “Case perdute”, insomma, si colloca lungo l’onda lunga del classicismo moderno menzionato all’inizio di questo intervento, nella convinzione che la poesia – anche nel pieno degli anni Ottanta – possa avere ancora un suo diritto di cittadinanza: un diritto che può essere rivendicato senza dover abdicare al proprio specifico statuto poetico. E del resto la riflessione metaletteraria – intrisa di una venatura civile e politica che non è mai venuta meno nella pagina di De Signoribus – è uno dei nuclei di questo fondamentale libro di fine Novecento. […] Nel 2022, a trentatré anni di distanza, “Case perdute” viene ripubblicato: i testi apparsi nell’’89, ad eccezione di alcune sporadiche e minime varianti, non sono cambiati, mentre il montaggio complessivo (come spiega dettagliatamente Francesca Santucci) è stato rivisto. Ma soprattutto vengono aggiunti nuovi testi: non scritti negli ultimi anni, con l’obiettivo di correggere con il senno di poi, ma componimenti anch’essi risalenti agli anni Ottanta. Qual è il senso di questa operazione? Certamente non di archeologia, ma – mi sia concesso il termine – ancora una volta politico. Dopo trent’anni il mondo non è affatto migliorato. E oggi, ancor più che negli anni ’76-’85, si avverte l’esigenza di una parola che non sia immediatamente deperibile.  Lo dichiara (“sparolaio”), il testo che va a sostituire (“lucertole”), a sua volta confluito nei nuovi “bestiali”:

lo sparolaio, l’onnisciente
di ogni tema-parola, sa
da nascita a morte
da dio diavolo a sorte

Ma oggi, ancor più di trent’anni fa, l’assenza di speranza (non si vedono tracce in giro che possano giustificarne l’esistenza) impone un atto di resistenza. Lo attestano i «nuovi» bestiali, composti nella prima parte degli anni Ottanta, e ora riuniti in un’unica sezione. Ebbene in questi testi è vero che si parla di «kapò», di «ragli umani», di «insetti traffichini», di esseri spregevoli che «si fan la scrima ai capelli / per essere più belli», ma è anche vero che la loro forza d’urto, inarrestabile da decenni, non consegna alla resa e alla deriva. Come si legge nelle pratiche licenziose del 1980 e ora inserite in volume, «dopo ogni caduta / è opportuno rinvenire»; rinvenire magari con un atto poetico.”