Nel centenario della nascita di Paul Celan, pubblichiamo in anteprima l’introduzione del volume, di prossima uscita per Quodlibet, Ricercar per verba. Paul Celan e la musica della materia di Camilla Miglio.
Paul Celan dà voce ai sommersi, mostrando come i salvati possano scrivere poesia dopo la distruzione, per antonomasia, dopo la Seconda guerra mondiale: il toponimo Auschwitz[1]– cui proprio Celan, in più occasioni, ha aggiunto il ‘Kompositum’ Atombombe. Lo fa cambiando molte regole dell’arte, in una lingua e in una scrittura segnate dall’esperienza individuale, eppure permeate da lingue altre, voci altrui.
Mettendosi in posizione scomoda, non sempre compreso, venne travolto da infamanti accuse di plagio o tendenziose – per lui che “diffidava del bello” – letture estetizzanti. Diffidava del bello e della lingua tedesca, che interrogava fino in fondo, scavando dentro ogni parola. Il tedesco dei carnefici era (con le differenze che vedremo in questo libro) anche la lingua di sua madre, uccisa dai nazisti presso il lager di Michailowka, tra i fiumi Bug e Dnestr nell’inverno ucraino del 1942.
Rivoltando, riaggregando, ricercando la linguamadre Celan ne fa una patria portatile e una “tenda”[2]. Nel suo nomadismo europeo partito da un ‘Est’ ex asburgico, poi rumeno, sovietico e infine ucraino, approda all’Ovest parigino in una lingua diversa eppure familiare, per ventidue anni vivendo in francese, scrivendo in tedesco, traducendo da nove lingue; in una terra altra trovando casa, lavoro, famiglia, ma anche ricoveri in clinica psichiatrica e morte per acqua nella Senna, nel 1970.
A cinquant’anni dalla morte e a cento dalla nascita, lo studio di fonti d’archivio consente una revisione del mito di un Celan poeta ‘oscuro’, rappresentato sul ciglio del mutismo, o invece depositario di una parola redentrice dal Male assoluto.
Celan scava, si tuffa più a fondo nella realtà – nel concreto, fisico stare sulla terra di uomini ed elementi. Scava e riaggrega, si tuffa e riemerge altrove, e mai una volta per sempre; seguendo ritmi e figure musicali, ma in un modo del tutto nuovo.
La prima parte di questo libro, Intavolatura, dispone gli argomenti nella loro relazione reciproca. Ho voluto appunto provare a ‘intavolare’[3] la materia apparentemente dispersa e dispersiva dei capitoli seguenti, in un impasto di esperienza traumatica individuale, storia naturale e culturale della distruzione, e forme (musicali) che ne contengano la dispersione.
L’intavolare però è legato anche alla musica, e genera il sostantivo ‘intavolatura’, che si attesta tra XV e XVII secolo: trascrizione della posizione che le dita devono assumere sul manico di un liuto, corda per corda, particolarmente congeniale all’adattamento del contrappunto vocale alla sua esecuzione strumentale[4]. L’intavolatura rende visibile sulla pagina, trascrive la tensione di parole che sono controparole, oggetti oscuri perché controluce. Contrappuntistica è la relazione di Celan con la materia: materia mnestica (gli assenti, i morti, altri autori e letture, la propria stessa scrittura e vita passata: entrano a far parte della sua, attuale e presente, come con-voci e contro-voci); materia naturale (cosmica, geologica, biologica, vegetale e animale, visibile e invisibile, macroscopica e persino quantistica); materia storica (eventi, luoghi di memoria collettiva e culturale).
La poesia intavola dialoghi con parole di altri (“nel segreto dell’incontro”), improvvisamente e come per caso accesi in polifonie condivise.
La musica di questi testi resta forte proprio perché si allontana dall’idea di armonia conciliata ed espressiva, e attraversa i territori della dissonanza, reinventando il contrappunto, lavorando su interruzioni e cesure. Stringe insieme elementi e voci apparentemente erratici e lontani, sempre parziali, che si richiamano a vicenda invertendo la freccia del tempo memoriale. Le composizioni di Celan sono vicine alla musica contemporanea, e sono in grado di articolare in figure precarie la materia sopravvissuta alla distruzione totale (nei lager, nei gulag e nel disastro atomico). Come ha ben visto Zanzotto pensando a Celan e a se stesso – pur sapendo di non potersi “sostituire alla deriva della destrutturazione per trasformarla in altro, per cambiarle segno”, Celan col suo linguaggio rovescia “la storia e qualcosa di più della storia”[5], per innescare una “controtendenza” all’”annichilimento assoluto”[6].
In queste ‘contro-strutture’ si articola la materia: materia mnestica con i suoi punti ciechi traumatici, che trova nelle pause il modo di tralucere, come un alone (Zeithof), quasi un orizzonte degli eventi; grana di una lingua polifonica alimentata dal plurilinguismo dell’origine e dalle molte lingue della traduzione (ogni parola un Worthof). In cerca di “resti” cantabili della realtà, Celan attraversa i territori della natura apparentemente più lontana dall’umano: pietre, cristalli, sedimenti e faglie geologiche (e nei libri trova parole come Kontakthof); spazi siderali e cosmici, dal pulviscolo ai pianeti; cerca l’inorganico, laddove esso si salda alla traccia dell’organico scomparso: fossili, resti, lische e brandelli di corpi, di piante, di animali anche minimi, hanno la medesima funzione delle cesure metriche (ogni spazio liminale un Atemhof).
La seconda parte, Conglomerati cantabili, riprende una parola zanzottiana. Conglomerati[7] è il titolo di una tarda raccolta di Zanzotto, e parte dal nome di formazioni geologiche sedimentarie, di grana grossa, in cui si raccolgono diversi componenti (soprattutto ghiaia e sassi, o macerie)[8]. Zanzotto, nella sua idea di scrittura come conglomerato, cerca una possibilità di apertura verso uno spazo futuro, che nasca dal conglomerarsi di diversi materiali e strati provenienti da origine sparsa e tempi stratificati. Questo aspetto lo ha certamente riconosciuto nella scrittura celaniana. E tra le ultime righe scritte da Zanzotto, raccolte sotto il titolo Lo spazio e il tempo della speranza[9] tornano con accenti che rimandano al passato come al futuro. E se è vero che lo stesso nome della Natura non è più che un relitto senza un referente adeguato alla realtà contemporanea, è anche vero che
la poesia si trova ad essere investita di un ruolo paradossalmente fondamentale: quello di instaurare, magari ricreandole ex novo, le pur esilissime connessioni vitali tra un “passato remotissimo” e l’odierno “futuro anteriore” di un rimorso che, pur percependosi come tale, non è oggi in grado di spiegarsene la ragione.
Resta ferma, insomma, la convinzione che la poesia debba ostinarsi a costituire il luogo di un insediamento autenticamente “umano”, mantenendo vivo il ricordo di un “tempo” proiettato verso il “futuro semplice” – banale forse, ma necessario – della speranza.
In questa prospettiva la seconda parte del libro va in cerca della musica della materia conglomerata, tra natura, maceria, storia, memoria individuale e catastrofe collettiva. Legge da vicino alcune poesie che a partire dal titolo citano forme musicali contrappuntistiche, e nello stesso tempo articolano “per verba” (parole, suoni, forme di pieno e vuoto, ritmi in figura) la materia mnestica e traumatica, storica e cosmica del mondo. Del mondo e dell’umano dopo la distruzione. La sua visione della storia, della memoria, dell’umano da far risuonare nonostante tutto a fronte dell’orrore, usa strutture della tradizione musicale europea, cristiana ed ebraica (Fuga, Stretto, Ricercar, Lied, Canzone, salmo, Officium tenebrae), ne rivela le contiguità paradossali col sistema che ha portato alla fine del progetto umanistico di cui esse erano parte esibita, le svuota dei contenuti conciliatori. Le usa, come impalcature danneggiate ma riconoscibili, per le accensioni improvvise dei suoi “congolomerati” poetici e metrici.
Celan risillaba il mondo annotando libri (ora custoditi nell’archivio di Marbach) e sottolineando parole che creano sottili legami tra geologia, astronomia, fisica quantistica; ma anche scavando in dizionari, opere filosofiche e letterarie altrui, articoli di giornale; citando opere proprie, riprese e ricombinate nel tempo. Crea così una morfologia nuova, senza origine (priva della sillaba Ur- così cara ai tedeschi), nella continua, agglutinante e conglomerante attività di metamorfosi, in un cosmo relazionale. È infatti la relazione a tenere in vita ciò che è passato, a riattualizzare le presenze annullate dal trauma; a dare nome e voce ai corpi di cui resta solo l’ombra (Schatten), l’alone (Hof) – pensiamo a cosa resta delle vittime di Hiroshima, o, nei versi di Celan, alla non certo metaforica “tomba nell’aria”, o una “grigia figura” dalle lunghe gambe. Anche nella traduzione, ombra e Gestalt dell’altro assente, vive una relazione che è la vita trasformata attraverso il contatto con altro, in un tempo diverso. Come scrive il fisico Carlo Rovelli a proposito della natura quantistica della realtà (ben nota al Celan lettore di libri scientifici), “le caratteristiche di un oggetto sono il modo in cui esso agisce su altri oggetti”[10]. Soggetti e oggetti perduti e distrutti, parole lontane sono l’effetto che prosegue su altri, su altro, e lo tiene nel cerchio dei vivi. Conglomerati accorpano lingue, memorie, luoghi e mondi, seguendo leggi non deterministiche ma probabilistiche. Si può leggere la poesia di Celan come una partitura sempre rieseguibile di “resti” della materia del mondo, secondo l’angolo di incidenza della storia presente di chi scrive, ma anche di chi legge. Gli oggetti, le parole, i corpi prendono vita grazie a una rete di relazioni di cui essi sono “nodi” – direbbe la fisica quantistica[11]; sono note – direbbe Celan, pensando all’arte del contrappunto; o ancora direbbe: sono pietre, pensando alla geologia “divergente”, alla natura composita eppure organizzata in forme dei cristalli, delle stelle, delle pietre; altrove aggiungerebbe: sono voci dalla via delle ortiche, pensando alla polifonia dolorosa che abita la sua scrittura; oppure: sono erba scritta divergente, pensando alla natura distrutta da cui riparte la sua cosmogonia. I nessi sono tenuti nella misura del ritmo, sincopati da cesure e ripresi in dissonanze – punctus contra punctum: ombra-luce, morte-vita, silenzio-voce, pietra-acqua, cielo-abisso, proprio-estraneo, in una musica migrata dall’armonia verso una risonanza intermittente tra cose, persone (anche estinte) e tracce nel presente.
La terza parte approda alla grana della lingua celaniana. Le parole sono con e contro, dopo e a fronte. Celan cerca una scrittura dissonante, del divergere e del dire-insieme. Questo significa innanzitutto comporre in polifonia di voci. Voce propria che ogniqualvolta viene rieseguita, come una musica, ripete e modifica, riporta avanti nel tempo ciò che nel passato è già stato, altrimenti. La voce accoglie e modifica altre voci, le immagini non sono nitide, ma come attraversate da una luce incerta, e possono virare in più direzioni, ogniqualvolta vengono ripronunciate e riscritte. La sua lingua è in se stessa traduzione, citazione d’altro e memoria portatrice di trasformazione, parola antica, sempre dislocata e altra nel tempo, contro la distruzione: un ricercar, non a tre, non a sei, ma a più e più voci. Tra le molte forme musicali citate nell’opus celaniano, il Ricercar assume un rilievo paradigmatico. Ricercar dà il titolo a questo libro, ma anche a una poesia che Celan non volle pubblicare, forse perché svelava troppo). Riprende una forma musicale contrappuntistica in grado di riarticolare voci e note altrui senza ripeterle in modo identico, aprendo, nella performance, il varco tra passato presente e futuro. Celan, dopo la distruzione, fa risuonare la storia, la memoria, l’umano nonostante tutto: ri-usa strutture della tradizione musicale europea, ebraica e cristiana, come impalcature danneggiate ma riconoscibili, che contengano la materia residuale del mondo. Moduli citazionali che non sono mai chiusi come in un canone, bensì aperti sull’asse sincronico e diacronico. Pensiamo, solo per fare un esempio tra i più noti, ai Ricercar a 6 e a 3 voci dell’Offerta musicale di Bach, e alle riprese che ne fece Webern. La struttura aperta del ricercar permette spostamenti avanti e indietro sulla freccia del tempo; consente di mettere insieme il disparato; mantiene le voci distinte e le conglomera, le stringe insieme, le “fuga”, nel senso tedesco di fügen (incastrare). Ed è questo il suo modo del ri-membrare[12], citare, recitare, tradurre[13]. Celan ‘l’oscuro’ non è affatto ‘ermetico’: al contrario tiene aperta la relazione con se stesso e con il proprio lettore. Come il traduttore e il testo con cui entra in relazione di estranea vicinanza, scrittura divergente, chi legge è invitato a essere suo Mit-wisser, colui che con-sa, è informato dei fatti, conscio della loro lacunosità danneggiata (come quella di ogni traduzione).
Celan ci chiede di camminare con lui “sulle mani” – a testa in giù invertendo le prospettive, ma anche come chi tasta uno strumento, pigiando sui tasti che urticano le dita. La poesia di Celan, così sintonica con la lettura che Mandel’štam fece di Dante (leggeva la commedia come uno strumento musicale dotato di una “tastiera rammemorativa”[14], e la sua materia come elemento litico e cristallino), non riguarda il “trasumanar”[15], perché il raggiungimento di una posizione capace di superare la condizione umana non è dato. Rende invece possibile il passo, l’andatura di chi ricerca “per verba” la musica della materia.
Camilla Miglio
Note:
[1] Rimando al saggio di Adorno che ha scatenato, tra anni Cinquanta e Sessanta, il dibattito se fosse “barbarico” fare poesia dopo Auschwitz: Theodor W. Adorno, Kulturkritik und Gesellschaft, in Id., Prismen. Kulturkritik und Gesellschaft cit., p. 334; trad. it. Critica della cultura e società, in Id., Prismi. Saggi sulla critica della cultura cit., pp. 249-282; si veda anche la correzione di punto vista, a proposito di Celan in Ästhetische Theorie, a cura di Gretel Adorno e Rolf Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1970, pp. 475-477; trad. it. di Enrico De Angelis, Teoria estetica, Torino, Einaudi 1975; cfr. su questo argomento “Die wahre Flaschenpost”. Zur Beziehung zwischen Theodor W. Adorno und Paul Celan, “Frankfurter Adorno Blätter”, VIII (2003), pp. 151-176: 164-167. e Paola Gnani Scrivere poesie dopo Auschwitz. Paul Celan e Theodor W. Adorno, La Giuntina, Firenze 2010; si veda anche il recente volume collettaneo Auschwitz dopo Auschwitz. Poetica e politica di fronte alla Shoah con un testo inedito di Günther Anders, a cura di Micaela Latini ed Erasmo Storace, Meltemi, Roma 2018. Rimando anche a Giorgio Agamben Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
[2] Zeltwort (parola-tenda), in un verso di Anabasis (DG, p. 151, trad. it. P, p. 441) – ma la memoria corre a Isaia 33, 20: “I tuoi occhi /vedranno Gerusalemme, dimora tranquilla, tenda inamovibile, i cui / paletti non saranno più divelti, né più staccata alcuna delle funi” e al libro Sefer ha-zohar. Idra rabba. Il libro dello splendore. Grande assemblea, in Giulio Busi-Elena Loewenthal (a cura di), Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo, Einaudi, Torino 1995 e 1999, p. 484.
[3] “Intavolare” ha il significato antico di “impalcare con tavole, rivestire di assi l’ossatura di un’imbarcazione di legno, cioè farne il fasciame, e simili”; disporre pezzi di impasto su una tavola affinchè lievitino in pani prima dell’infornatura; mettere gli uni di fronte agli altri gli scacchi prima della partita; aprire una discussione o una trattativa https://www.treccani.it/vocabolario/intavolare/ [ultimo accesso 8.10.2020]
[4] Cfr. INTAVOLATURA, di Guido Gasperini – Enciclopedia Italiana (1933): “Trascrizione di musiche vocali polifoniche per uso degli strumenti polifonici più diffusi, quali l’organo, il cembalo, il liuto e la chitarra. Segni specialmente usati nelle intavolature furono le lettere dell’alfabeto e i numeri; lettere e numeri che, disposti uno sopra l’altro come le note delle moderne partiture, indicavano, a volte, la nota precisa da intonare, a volte (e questo accadeva specialmente nelle intavolature per strumenti a corde pizzicate) il tasto sul quale la corda doveva essere premuta dal dito del suonatore. […] l’uso di speciali segni che posti sopra le cifre o le lettere delle musiche intavolate indicavano con la massima esattezza la durata da dare ai suoni. […] L’epoca del contrappunto e della grande polifonia vocale, che dal sec. XV si spinge sino al XVII, è, il periodo di tempo che più appare propizio al fiorire dell’intavolatura” http://www.treccani.it/enciclopedia/intavolatura_%28Enciclopedia-Italiana%29/ [ultimo accesso 1.10.2020]
[5] Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura, II, p. 435.
[6] Cfr. Andrea Zanzotto, Sovraimpressioni, Mondadori, Milano 2001; in proprosito Luca Stefanelli, Il divenire di una poetica. Il ‘logos veniente’ di Andrea Zanzotto dalla ‘Beltà’ a ‘Conglomerati’, Mimesis, Milano-Udine 2015.
[7] Zanzotto (2009); Zanzotto (1996); Zanzotto è forse uno die poeti più congenili a Celan, vedi Waterhouse (1998).
[8] Rimando al saggio di Mariaenrica Giannuzzi, Paul Celan e l’uso politico della storia naturale, in “Studi Germanici”, 8, 2016., pp. 67-102 cui molto deve la mia interpretazione delle letture geologiche celaniane.
[9] Cito dal saggio di Dario Borso, Per Paul Celan, in memoriam, in “Humanitas” (2020), 75. 3, pp. 497-498.
[10] Cfr. Carlo Rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano 2020, p. 87.
[11] Ivi, p. 95.
[12] Il re-membering come rito del mettere insieme i pezzi dei corpi defunti; Sulla antica pratica egizia del re-membering, cfr. Jan Assmann, La morte come tema culturale, Torino, Einaudi 2002, p. 65.; ne ho scritto in Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, Quodlibet 2005, p. 18.
[13] Cfr. Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre, Quodlibet, Macerata 2012, in particolare le pp. 111-116.
[14] Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante, a cura di Remo Faccani, il Melangolo, Genova 1994 (ora Nuovo Melangolo, Genova 2007).
[15] “Trasumanar significar per verba / non si porìa […]”, scrive Dante (Par I, 70-71) sull’impossibilità di esprimere a parole esperienze che suoperino la condizione umana.