Per chi ha trascorso gran parte della vita a leggere versi, dattiloscritti, libri di poesia, movimenti letterari che si rinviano l’un l’altro in un moto perpetuo, è inevitabile avere tre o quattro punti di riferimento cardinali, letteralmente, punti cardinali che riuniscono in sé questa fitta trama di esperienze, tre o quattro vie consolari che attraversano la città della poesia e ti conducono là dove vuoi arrivare, un pugno di strade che portano il nome di un poeta e che coincidono con quelle che avevamo dentro di noi. Mario Luzi è una di queste strade. Non è quella che ho incontrato per prima. Dapprima ho incontrato i miei simili. Ho incontrato Pavese, Montale, Benn, Celan, gli autori tragici. Poi altri poeti, pochissimi, tra cui Mario Luzi.
Luzi non è un autore tragico. Non è un autore del nulla o della caduta nel vuoto. Ma è un autore inquieto, profondamente inquieto. Forse è per eccellenza il poeta novecentesco dell’inquietudine. In lui tutto è mobile, instabile, mercuriale, connesso a una metamorfosi incessante. La sua stessa opera lo testimonia. Ogni libro costituisce una svolta. Nessun libro di Luzi è la continuazione del precedente, nessuno vive di rendita sullo stile e sulle invenzioni del precedente. Grande è la distanza tra la convulsione immaginativa dei primi libri e quelli degli anni cinquanta, tra la verticale lirica di Avvento notturno (1940) e la poesia carica di pensiero di Onore del vero, quando comincia ad affacciarsi Dante: comincia ad apparire la storia e a dissolversi la rima, comincia ad affacciarsi il teatro e a farsi più labile la presenza dell’io.
Ma c’è un libro che più di tutti crea uno strappo nella scrittura di Luzi e anche uno sconcerto quando uscì nel 1963, costringendo tutti a riconsiderare l’immagine del poeta metafisico e assoluto, erede diretto di Mallarmé. Questo libro naturalmente è Nel magma e sancisce da una parte la sospensione dell’endecasillabo e del vortice analogico e dall’altra l’immersione nell’alveare umano, nella comunità, nel fiume della storia con i suoi aspetti più informi e degradati, con dettagli realistici impensabili nel Luzi precedente (dal “masticare gomma” allo “schiocco di dentiera” alla “gola forata” del compagno di scuola) e anche con una presenza decisiva del dialogo e del parlato che erano assenti nei libri degli anni quaranta e cinquanta.
Nel magma è il libro che preferisco di Mario Luzi. Ho amato molto anche Onore del vero e Su fondamenti invisibili, ma Nel magma è il libro più cupo, drammatico, crudele, e per questo mi è così caro. E’ il libro che sa tenere inconciliate alcune delle sue antinomie, sa tenere aperta la ferita. E poi c’è il dialogo, che è un’invenzione purissima di Luzi, qualcosa che non ha precedenti. Ecco, in questo scritto cerco di mettere a fuoco la sua novità.
Innanzitutto a Luzi interessa la parte in ombra di questo dialogo, la parte più segreta e invisibile. Non gli interessa rappresentare due verità che si oppongono ma piuttosto il terreno tra l’una e l’altra. A Luzi sta a cuore questa preposizione “tra”… trapasso, trascorrere, trasformare, trasmettere… che intreccia l’uno e l’altro. L’altro. Ecco un termine chiave della poetica luziana. Luzi dice continuamente che l’io è ciò di cui un altro detiene il segreto. Dice cioè che il nostro segreto non possiamo svelarlo da soli. Non c’è autonomia… auto/nomia… non c’è la possibilità di darsi la legge da sé. La verità di ciascuno è nell’incontro. E l’incontro accade. Non siamo noi a cercarlo. E’ lui che s’impone. Quella di Nel magma non è una poesia dell’essere o del divenire, ma una poesia dell’accadere, una ierofania. L’altro si presenta a noi come un’apparizione… “ne escono quattro/non so se visti o non mai visti prima…” …l’io è ciò di cui un altro detiene il segreto… mi disse subito Luzi nel nostro primo incontro fiorentino, aprendo la porta di casa, nel novembre del 1971. Ecco, vediamo come questa massima dell’esistenzialismo percorre le pagine di Nel magma.
Il passaggio dai primi libri a Nel magma non è tanto un passaggio dall’oscurità alla chiarezza, ma è un passaggio dal singolare al plurale, al magma del molteplice e del contaminato. Non è tanto e non è solo un passaggio dal grumo denso e fitto delle analogie a una maggiore distensione della frase, ma è soprattutto il passaggio a un noi e a una coralità immersa nella storia e nel presente. Il paesaggio è più vario e al tempo stesso più definito. Non è più il paesaggio stilizzato e simbolico della campagna toscana, ma è una cinepresa modernissima che entra in un bar, in un ufficio, in una clinica, nella hall di un albergo, all’interno di un’automobile. Il paesaggio è dunque precisato più che in ogni altro libro passato o futuro. Questo non significa che Luzi sia un poeta realista o politico in senso stretto. Questo gli è impossibile, per natura e ispirazione. Il suo sguardo connette sempre il contingente alla durata, l’esperienza quotidiana all’assoluto, la musica delle sfere alla sirena di un’autoambulanza. In questo libro però ci sono entrambi i poli. Non si descrive un paesaggio già metafisico in partenza, ma si suggerisce il nesso misterioso tra il particolare che è lì sotto gli occhi e lo sfondo di eternità in cui si colloca… lo sfondo oppure a volte la drammatica tensione all’eterno… la tremante speranza che un eterno ci sia e ci attenda.
Nel magma è un caso a sé. Nel magma contiene degli aut-aut, ossia il segnale del dramma. In altre opere l’aut-aut è molto meno presente e viene sostituito dal “vel”: non c’è la contrapposizione violenta tra due posizioni, ma piuttosto un “vel”, che collega l’una con l’altra. Il vel latino è un modo più blando e sfumato di esprimere il contrasto. Il vel sta a indicare che, dopo avere scelto uno dei due poli, è impossibile evitare la presenza e la verità dell’altro. Nel magma invece presenta alcuni dialoghi – Bureau, In due, Presso il Bisenzio e altri – in cui l’aut aut è presente in forma lancinante e le antinomie non si lasciano avvicinare, creando effetti di rancore, paralisi, disprezzo.
“L’io è ciò di cui un altro detiene il segreto”, ricordo bene questa frase, la prima volta che sono andato a trovare Mario Luzi in via di Bellariva. “E’ un altro che decide, sempre un altro”. Non siamo padroni in casa nostra. Non siamo auto-nomi. Non possiamo darci da soli il nomos, non possiamo darci da soli la legge, non possiamo essere giudici e giudicati, dipendiamo da una legge più grande, che esiste prima di noi, da una verità che è illusorio cercare in noi stessi. La verità, scrive Luzi, appartiene all’incontro. L’io è ciò di cui un altro detiene il segreto. Non possiamo conoscerci al di fuori dello sguardo altrui. Dipendiamo da lui. Abbiamo bisogno di lui per sapere qualcosa di noi. Non siamo isolati. Soli, forse, ma non isolati. Nemmeno in uno specchio siamo a tu per tu con noi stessi. In uno specchio non ci si vede, ma ci si vede visti. Anche lì si annida lo sguardo dell’altro. Per Luzi si direbbe che il due preceda l’ uno e lo fondi, che ciascuno di noi possa esistere solo nell’incontro e nel dialogo. Il due precede l’uno. L’uno procede dal due.
Nei dialoghi di Luzi tutto avviene al presente. Tutto sta bruciando. Non si ha mai l’impressione di un’inquadratura distante, oggettiva, panoramica, un’inquadratura in campo lungo che consenta di osservare la scena da lontano e di prendere dunque le distanze sufficienti per valutare e giudicare. No, il lettore è gettato lì, nella presenza fisica dei due personaggi, dentro le loro voci e i loro gesti, nel cuore del contrasto, nel fuoco della disputa. Nel magma è una miniera di sguardi ed è percorso da una grande varietà di verbi che hanno a che fare con lo sguardo: guardare, vedere, osservare, contemplare, fissare, intravvedere, intuire con lo sguardo, anticipare con lo sguardo, penetrare con lo sguardo. Lo sguardo diventa il luogo in cui gli uomini si comprendono o si combattono, si avvicinano o si lasciano, si giudicano o si perdonano in silenzio. La forza della parola svanisce nella nebbia di un paesaggio senza luce. Ed ecco allora che lo sguardo prende il suo posto, diventa attacco, interrogazione, difesa, assenza, pietà, rivolta, fuga. Tutta la poesia Bureau – che è forse quella più carica di odio dell’intero libro – può essere letta in un conflitto di sguardi che si affrontano e si combattono. All’inizio il primo incontro con lo sguardo dell’avversario (“sguardo di malato o d’ebete svuotato e bianco”). Poi il proprio sguardo che lo osserva a lungo e non trova in lui un solo appiglio di ascolto e comprensione. Ed ecco di nuovo lo sguardo del nemico che si acuisce e si prepara all’attacco, per poi esplodere in un impeto di collera scomposta: (“Non sono ancora finito” esplode poi/con occhi stralunati/fiatandomi nel viso il suo respiro forte di tabacco e d’alcool). E infine il proprio sguardo, che non prova nemmeno più a replicare e si distacca dalla scena osservando al di là dei vetri la gente in cui tra poco sarà immerso.
Eppure ci sono momenti in cui né lo sguardo né la parola possono davvero giungere all’altro, valicare le sue mura, le roccaforti e i fossati che egli adopera per difendersi. Allora l’altro diventa, drammaticamente, inespugnabile. E noi siamo riportati alla nostra solitudine e a nostra volta ci proteggiamo dalla luce sconosciuta della vita e ci rinchiudiamo in un dolore senza sbocco e senza uscita. Raramente qui il dolore diventa contatto e pietà, raramente si rilancia in un’altra direzione, si offre come ascolto, come ponte d’ingresso… può accadere in certi personaggi femminili, come la protagonista di Accordo (“Lei che soffre ma pronuncia il suo credo…/m’accoglie nella parte più viva della casa”) oppure quella di Ménage (“Non in questa vita, in un’altra” esulta più che mai/sgorgando una luce insostenibile/lo sguardo di lei fiera”). Ma in altri casi, molto più frequenti, il dolore diventa paralisi, si accanisce su se stesso, impedisce il flusso dell’esistere. Diventa l’atto mancato di Presso il Bisenzio oppure “il nodo/di quella sofferenza, rimasto fermo/e serrato in un punto della sua vita senza riscatto”, come leggiamo in Bureau. Ci sono dunque momenti senza riscatto. Ci sono solitudini senza sbocco. ci sono giorni in cui scegliere una via del bivio trasforma l’altra via nell’incubo di un eterno rimorso. Nel magma è il libro più drammatico di Luzi, quello che sa dire il vuoto e la paralisi, quello che tiene ferma la propria spinosa intransigenza e tiene inconciliate alcune delle proprie antinomie. Qui sembra realizzarsi la dolorosa profezia che era apparsa alcuni anni prima in questi versi, tra i più memorabili di Onore del vero:
Amore difficile a portare,
difficile a ricevere. Se osa
si turba, sente il freddo della serpe
ma se non osa volge inappagato,
preme d’età in età, di vita in vita.
Immagine: Luca Macchi, Ritratto di Mario Luzi.
Nel nostro dossier Per Mario Luzi (1914-2014):
– Milo De Angelis, Breve viaggio tra le ombre di Mario Luzi;
– Stefano Verdino, Uno scritto disperso di Mario Luzi;
– Diego Bertelli, Poesia e traduzione nella generazione del ’14: Luzi, Parronchi e Bigongiari;
– Mario Luzi e la Francia (Leonardo Manigrasso, La fortuna francese di Luzi; Laura Organte, Mario Luzi traduttore dal francese: “La cordigliera delle Ande”);
– Francis Catalano, Jamie McKendrick e Juan Carlos Reche traducono Mario Luzi.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).