di Italo Testa
Epigramma del traduttore
Per afferrarne almeno un lembo[1]
cerco di tradurre Eugenio De Signoribus.
Le sue parole vengono a rifugiarsi a tratti
come agnelli tra le foglie che crescono
tutt’intorno, “lana o neve”, dolce “mantello”[2],
ma più spesso inafferrabili ritrose[3].
(21-09-15)
Una “doppia appartenenza”[4], secondo la felice formula coniata da Giovanni Raboni, segna costitutivamente l’esperienza artistica di Jean-Charles Vegliante. Nato a Roma, da una famiglia italiana presto emigrata in Francia, Jean-Charles Vegliante è divenuto poeta di lingua francese, traduttore dall’italiano della Divina commedia, docente alla Sorbonne Nouvelle, trovando nell’”intreccio-collisione tra due lingue”[5] la ragion d’essere del suo percorso. La sua opera è letteralmente “scritta tra due mondi”, secondo un percorso che sovverte l’ordine usuale tra lingua madre e lingua d’arrivo, sottoposto a una serie di continui spostamenti e straniamenti.
Molteplice e variegato è già il modo in cui si svolge empiricamente questa treccia di lingue. Accanto ai testi in lingua francese – prevalenti, ma internamente segnati, nella tessitura fonica, metrica, ritmica, e nella massa semantica, dalla tradizione italiana come da una “seconda natura”[6] – troviamo nell’opera di Vegliante alcune poesie direttamente in italiano, altre in entrambe le lingue – non auto-traduzioni ma creazioni differite – altre ancora, nell’una o nell’altra lingua ma segnate da interferenze interne (Vert Vérone)[7], anche con dialetti o parlate minori (L’ancien)[8]. Per arrivare a poesie – come l’emblematica Babbell[9] – dove una base lessicale italiana evolve, attraverso l’innesto di termini francesi, tedeschi, inglesi, o dialettali, in una fantastica e immaginaria lingua ibrida europea.
Nel dialogo con Giovanni Raboni che chiude Nel Lutto della luce, la silloge einaudiana che presentava per la prima volta in forma organica il percorso di Vegliante al pubblico italiano, questi fenomeni sono inquadrati esattamente nel loro aspetto tecnico, che si manifesta nella forma di uno “straniamento doppio e spontaneo”[10]. Lo straniamento è quella procedura letteraria che portando la lingua, i generi, in contesti differenti dalla norma, è volta a deformare la visione abituale, producendo un senso di estraneità e alienazione nei lettori che può così rivelare aspetti nuovi e inconsueti. In Vegliante lo straniamento agisce a un livello profondo, intra- e interlinguistico, ove il sistema di norme e valori di una lingua è fatto agire all’interno di un’altra lingua, producendo così un oggetto mutante, che è difficilmente classificabile secondo i parametri dell’una o dell’altra, e che sposta così in avanti le nostre possibilità espressive. Come afferma plasticamente Vegliante, “la traduzione porta ad un oggetto estraneo, il quale deve rimanere estraneo”[11].
Ma il senso di questa esperienza dell’estraneo non si lascia ridurre a una procedura letteraria e manifesta una più decisiva postura etica, segnata dall’apertura all’altro quale dimensione esistenziale, secondo le indicazioni decisive che si trovano in un saggio teorico, Bilinguisme ou bi-appartenances[12]. Qui il bilinguismo, così come la “lingua doppia” o biforcuta del traduttore, tradizionalmente qualificato come bifarius, sono intesi non come semplici competenze linguistiche, mera “abilità diglossica”, ma piuttosto come una fondamentale “capacità d’ascolto” in cui è in gioco qualcosa d’essenziale. Bilinguismo è qui “la facoltà – certamente non innata – di poter ascoltare l’altro, di potere (un po’, come si suol dire) mettersi al suo posto”: una forma etica di riconoscimento dell’altro, che ha il suo opposto nella “ignoranza dell’alterità (una forma sottile di disprezzo)”.
Questo è il punto, lo snodo segreto dove straniamento e utopia si congiungono. La manifestazione dell’estraneo, la prossimità ad esso che il bilinguismo rende possibile, è intesa qui come vicinanza a una “giuntura segreta tra tutte le lingue”. Esperienza dell’”entre-deux” – riscontrata ad esempio nel bilinguismo costitutivo di Ungaretti – che ci approssima alla lingua edenica: a quella “lingua pura” – “non langue ou toute langue” – che Walter Benjamin, in un saggio spesso richiamato da Vegliante, indicava come ciò che rende possibile il Compito del traduttore e insieme come il telos impossibile cui questi, mettendo in comunicazione i diversi linguaggi, ultimamente tende[13].
Ma nella tensione alla lingua pura, edenica, rimane, ineliminabile, lo straniamento, l’esperienza di un’alterità inappropriabile. E proprio qui diventa evidente come l’esperienza del traduttore e l’ispirazione poetica dell’autore si intreccino indissolubilmente. Scrive Vegliante, “ ti senti trascinato e non sai se e da quale bocca la lingua che credevi tua s’impossessa di altro, oppure dall’altro si lascia attraversare”[14], con parole in cui la trasposizione della lingua diventa cifra costitutiva e chiave d’accesso alla divina mania del fare poetico. Non è un caso che le poesie di Vegliante che, sin dal titolo, fanno riferimento alla traduzione, siano insieme dichiarazioni di poetica in prima persona, e mettano a tema il nucleo originario del suo immaginario. In Traduzione, testo che compare in Pensiero del niente, l’ultima silloge pubblicata in italiano di recente a cura di Felice Piemontese, Vegliante scrive: “L’ho presa per mano, così / giovane intimidita come alla sua nascita, / per portarla nell’altra mia lingua”[15]. In Tradurre, non tradurre leggiamo: “e i miei occhi non si porteranno / sulla pena della nudità, / questa casa aperta che i ghiacci / di un idioma di distanza trapassano”[16]. E ancora, in La messaggera del dentro, testo cruciale incluso già Nel lutto della luce: “Poi attraverso il corpo / lei si è fatta passare / il filo folgorante / dell’altro linguaggio”[17].
Notiamo qui come il motivo della trasposizione nell’”idioma di distanza”, nell’”altra mia lingua”, nel “filo folgorante dell’altro linguaggio” che la messaggera fa passare attraverso sé, sia connesso a un elemento figurativo ricorrente: l’immagine della “giovane intimidita”, la “messaggera del dentro” che in un altro testo Vegliante chiama anche “un’ambigua straniera intravista”[18]. In questa sovrapposizione e identificazione tra l’altra lingua e il mitologema della fanciulla straniera accade qualcosa di decisivo su cui conviene soffermarsi. La traduzione, come trasposizione nell’estraneo e dell’estraneo, riguarda qui centralmente anche il rapporto che s’istituisce tra lingua poetica e linguaggi figurativi. Emerge così con l’immagine dell’ambigua straniera intravista, una vera e propria formula di pathos, un topos della poesia di Vegliante che non si lascia trattare con i soli strumenti della critica letteraria.
Forse il modo più appropriato per penetrare l’opera di quest’autore è adottare la prospettiva con cui Aby Warburg guardava alla storia dell’arte[19]. Per Warburg le immagini sono stratificazioni, quasi geologiche, in cui diversi sedimenti possono riemergere dal sottosuolo dopo essere state assenti per secoli. Pathosformeln, formule di pathos, sono appunto certe immagini archetipiche che ritornano nei secoli, trasponendosi in contesti differenti. Ma questo fenomeno non è una mera ripetizione dell’identico. Le pathosformeln, in quanto formule, fanno si riferimento a un canone ripetitivo, ma insieme condensano un gesto espressivo, una creatività originaria, e in questo atto riprendono per così dire il loro movimento, assistendo ad una continua trasformazione nel tempo e nello spazio. Il Nachleben delle formule di pathos, così, è alimentato da questa traduzione nell’estraneo cui dà luogo la reviviscenza in contesti differenti. Warburg si è concentrato su alcune immagini di movimento e in particolare, a partire dall’analisi della Venere e della Primavera di Botticelli, sulla Ninfa e la serie delle sue differenti reincarnazioni. L’imago reviviscente della ninfa, con la sua immagine sospesa e inconfondibile, figurata con il panneggio, il velo svolazzante, l’ambiguo incedere del passo. Ma anche la ninfa, come nella tavola 47 dell’Atlante di Mnemosyne[20], con le sue rappresentazioni terrorizzanti: menade, cacciatrice di testa, Giuditta. E ancora, nella metamorfosi di tale formula di pathos, l’inarrestabile caduta della Ninfa, vale a dire il fatto che, nelle sue trasmutazioni moderne, questa immagine è accompagnata da un movimento, quasi al rallentatore, in cui il velo tende a cadere a terra, lasciandola nuda e disarmata.
Il mondo poetico di Vegliante non può essere compreso se non si coglie come esso sia strutturato da formule di pathos figurative che danno forma a un compatto quanto metamorfico immaginario. E anzitutto è proprio l’imago reviviscente della ninfa, nelle sue diverse trasposizioni, che abbiamo già incontrato nei versi citati poco sopra: l’esitante “giovane intimidita”, la marziale “messaggera del dentro”, l’inarrestabile caduta del velo nella “pena della nudità”. L’immaginario poetico di Vegliante ha così una precisa topologia, segnata da alcuni motivi ricorrenti che ne definiscono i confini. L’”iniquo mistero” dell’infanzia[21], il trauma dell’origine: “Ciascuno pensa al paese ferito / dei propri giochi senza tenerezza, / cercando alla cieca l’uscita / da una casa straniera”[22]. La madre terribile, la madre nera, “negata”[23], nel suo “ruolo di madre fredda incorruttibile / e vacante, per sempre priva di gioia”[24]. L’elemento acquatico – “l’eco di un’acqua trascorsa”[25] – una sorta di “liquidità dell’esserci”, secondo una formula di Maurizio Cucchi[26]. La fluida materialità di “acque gelide / turbinanti in mondi che discendono”[27], risucchiate in un moto discensivo. L’attrazione verso il basso, il “risucchio più irresistibile / dell’acqua dove aspiri a latitudini / di oblio”[28]. Il richiamo del fondale, del “nero”, dell’”informe”[29]. La calamita del “nord sotterraneo”[30], la magnetica e ossessiva attrazione verso “le cisterne dove le donne annegano”[31]. E infine, il mescolarsi di questi motivi nel dominio dei morti, il “fondersi nel nero”, “l’onda notturna”, il “plancton della notte [che] invade le strade”[32]. Le “lunghe file dei transfughi, /dei transeunti, dei trapassati” che ritornano nelle nostre dimore, ci percorrono e attraversano nel sogno e nella veglia[33].
Già da questo limitato campionamento si nota che tali motivi trasmutano l’uno nell’altro – il mistero dell’infanzia nella madre terribile, il richiamo dei morti nell’attrazione nel fondale acquatico e nel richiamo dell’annegata. Ma va ulteriormente osservato che l’immagine di movimento che connette tali elementi in un insieme dinamico, fluttuante, è proprio la Ninfa: “Quella che inquieta nel profondo di te / dorme, la piccola atterrita invincibile, / sai che la tocco qualche volta senza / tenerla, anche in sogno, dove piangiamo”[34]. C’e’ qui certamente una Storia privata – per riprendere il titolo di un inedito[35] – un nucleo biografico segreto e esistenziale. Ma perderemmo il senso di questa poesia se ci limitassimo a tale piano di lettura, non cogliendo il fatto che proprio laddove emergono questi nodi indissolubili e idiosincratici, si manifesta nella poesia di Vegliante un elemento estraneo. Ricorrono qui alcune Pathosformeln che fanno irruzione dal “serbatoio dei sogni”, da una memoria culturale, un inconscio collettivo dove dormivano irrequiete, riemergendo subitaneamente, in una continua ripetizione e variazione, vera e propria trasmutazione di forme. Come Warburg inseguiva l’ossessionante ritorno dell’immagine di movimento della ninfa nell’arte moderna, bisogna qui disporsi a seguire le metamorfosi dell’”infanta”, della “ragazza-ombra”, di “Euridice Bambina” e “Beatrice” quali formule di pathos, potenze infelici di una sofferenza-lutto pervasiva: “sono i tuoi volti potenza infelice / errante nel caos degli atomi soli”[36]. Tra i volti in cui si manifesta questa potenza infelice incontriamo così l’”Euridice bambina” di Vert Vérone (“ oh non svegliare quella / immemore sempre e / nuda nue di anni e dolore / viva Euridice bambina”)[37] e la testa di morta di L’ancien (“sento el colar zó / del le teste morte”[38]); le “sorelle non rassegnate”, le “sorelle velate murate” di Tombeau métro[39] e Beatrice “la morta” ispiratrice[40].
Un’immagine sfuggente e sospesa, che continuamente muta e si ripete, ma che non può essere fissata se non nel suo trascorrere, incessantemente visita questa poesia e ne è invocata (“E i loro corpi trasmutano in forme / dietro la porpora delle palpebre senza / fine nella rovina cancellandosi / e chi vuole fissarle le distrugge”[41]). E’ l’”infanta sirena”[42] – dove c’è acqua ci sono ninfe; la “piccola annegata recalcitrante”[43], la “Miss Water” invocata in diversi testi quale estrema e illanguidita manifestazione degli “dei antiquati[44]”. La “ragazza-ombra” che compare “tra i vuoti d’aria”, come un “essere senza dimora”[45]. O ancora la figura della messaggera che, in tre testi cruciali quali La messaggera del dentro, La messaggera del fuori e L’altra messaggera, appare nella sua irredimibile estraneità (“Eccoti infine totalmente / diversa, / tutta da contemplare, / esteriore. / Rivolta a un là da cui venivi / senza sapere”[46]), e la cui voce minuscola, e flebile, è testimone di un “ordine antico”[47].
Non è un caso se l’infanta sirena si muta subitaneamente ora in “Atene perduta”[48], ora in Diana, “viva di vivida bocca infante”[49], ora nella “piccola sibilla”, la cui presenza assenza, il cui manifestarsi sottraendosi, sembra un avatar della poesia stessa: “Piccola sibilla dei nostri sogni, / sempre dici e non dici – / credo, per divertirti in questo tempo / che mai per te si evolve, / […] / Dunque, viviamo della tua mancanza. / Senza menzogna tu c’inganni, ci aiuti”[50]. La poesia di Vegliante è fittamente attraversata dall’irruzione nel presente di queste piccole voci, di queste interferenze. Da “remoti recessi del quotidiano” emergono figure altere e distanti, ambigue, inappropiabili; figure e visitazioni dell’estraneo che hanno le sembianze ora di madri nere e sorelle murate, ora di infante o antiche dee sfiorate in sogno, fortemente innervate dall’imago reviviscente della Ninfa. Immagini femminili, formule di pathos Più o meno vicine – per citare un titolo emblematico[51] . Una figura accompagnata warburghianamente dal “lembo lattiginoso / del velo sempre nuovo”[52] o anche svelata, nella sua inarrestabile caduta, come “Colei che contempla, ancora nuda / tra le tende la sua forma inaccessibile”[53]. Per arrivare, infine, a uno dei testi più belli di Vegliante, L’infinito, dove il richiamo alla tradizione italiana, all’altra lingua – con Leopardi e anche Montale in sottotesto – torna di nuovo a ibridarsi con l’imago dell’”ambigua straniera intravista”, della sua presenza-assenza, dell’inevitabile esperienza di ascolto dell’alterità di cui la poesia si fa testimone:
Perché chiudo gli occhi per conservarti,
immagine più effimera della mia stessa vita,
fanciulla, anima a fior di pelle, che
attende da noi solo un segnale, un riconoscimento?
Nello scompartimento qualcuno ha sentito
forse un soffio, che trasalisce al dubbio
leggero subito respinto, d’essere vivi,
quando timidamente altera incedi
verso un paesaggio per noi invisibile
pronto ad accoglierti come un grande corpo
ferito, a compensare l’ingiustizia di genitori
troppo umani – mentre in te tutto si pensa
al di là, fra le erbe, la terra felice:
in cui tu sarai, prima di me disfatto, mutata[54].
[1] [In italiano nel testo, NdT]. Prima redazione: ‘lambeau’ (brandello).
[2] Cfr. l’apertura di Istmi e chiuse, Marsilio, Venezia, 1996, (da, verso): “la carta che mi ammanta…”. Il verso precedente vuole essere anche un’eco da Franco Fortini, Le piccole piante… (Composita solvantur, Einaudi, Torino, 1994).
[3] “J’essaie pour en saisir au moins un lembo / de traduire Eugènio De Signòribus. / Ses mots viennent parfois comme des agneaux / se réfugier parmi les feuilles qui poussent / tout alentour, « laine ou neige », doux « manteau », / mais plus souvent insaisissables farouches“ (Inedito, trad. di I. Testa).
[4] G. Raboni, “Scrivere, tradurre. Un dialogo tra Giovanni Raboni e Jean-Charles Vegliante”, in J.-Ch. Vegliante, Nel lutto della luce, trad. di G. Raboni, Einaudi, Torino, 2004, p. 169.
[5] Ivi, p. 171.
[6] Vegliante, “Scrivere, tradurre”, cit., p. 170.
[7] “Adige verde torello / come rapido t’avvinghi /alla piccola acerba Roma / seno che fugge e torna : / oh non svegliare quella / immemore sempre e / nuda nue di anni e dolore / viva Euridice bambina / indifesa … che pastel !… / a quanti sogni graffiti, quanta resa” (in Itinerario nord (e un appunto), S. Lucia ai Monti, 2008).
[8] “Je sens le chuintement des têtes / mortes, je sens le vent bis du d’ssous / dans chol’ sale où le temps se voûte, / où une brèche à ç’t’heure bée / dans la haie, puis des portes / sur la crad’ cour sont béantes dans ç’te langue / et un monde crasse nous sourit / dans tout ça (que je lis sans savoir dire) : / on contente du petit monde innocent / et froid, qui nous réchauffe, / serrés fort autour des dernières braises rouges / (fort din quôi ?) ” (in “Suite o scioglimento”, Samgha, 25 gennaio 2013 (https://samgha.me/2013/01/25/la-poesia-di-jean-charles-vegliante-con-uno-scritto-dellautore-e-unantologia-di-poesie/).
[9] “Turgido luno che sproni voli / di voglie ai finestri socchiusi / entra togli i veli rompi volti, / bianche pette, scompiglia anche me / lascia che l’uocchie belle / ’nnammorate se perdano s’accechino / senza resa di sole dentro a te! / Accaldata sole, togliti, / lascia pure tu non insistere / lo vedi che voglio solo dormire / solo senza la solita amore / la mora spolpata crania / e mera skeleton furiosa / in danza di duro morte / là che falcia e falcidia tod / vecchio irrimediabile secco / rumore di bacio scoccato, va! / La mour est un sec faucheur da, / luno di lüna accanto a stella fredda” (Inedito).
[10] Raboni, “Scrivere, tradurre”, cit., p. 171.
[11] Vegliante, “Scrivere, tradurre”, cit., p. 172.
[12] Vegliante, “Bilinguisme ou bi-appartenances”, Babel, 18, 2008 (ripubblicato in http://www.retididedalus.it/Archivi/2009/maggio/PRIMO_PIANO/vegliante.htm).
[13] W. Benjamin, “Il compito del traduttore” (1921), in Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1962, pp. 39-52.
[14] “Bilinguisme ou bi-appartenances”, cit.
[15] Vegliante, Pensiero del niente, trad. di F. Piemontese, Stampa2009, Azzate, 2016, p. 73.
[16] Ivi, p. 17.
[17] Nel lutto della luce, cit., p. 35.
[18] Pensiero del niente, cit., p. 125.
[19] A. Warburg, “Dürer e l’antichità italiana” (1905), in La rinascita del paganesimo antico [1932], Firenze, 1966.
[20] Warburgh, Mnemosyne. L’atlante delle immagini, Aragno, Torino, 2002.
[21] Vegliante, “Ultime quartine”, trad. di M. Benedetti, Le parole e le cose, 16 settembre 2012 (http://www.leparoleelecose.it/?p=6636»).
[22] Nel lutto della luce, cit., p. 125.
[23] Ivi, p. 109; cfr. p. 101.
[24] Pensiero del niente, cit., p. 23.
[25] “Ultime quartine”, cit.
[26] M. Cucchi, “Prefazione”, in Pensiero del niente, cit., p. 8.
[27] Pensiero del niente, cit., p. 51.
[28] Nel lutto della luce, cit., p. 77.
[29] Ivi, p. 63.
[30] Ivi, p. 89.
[31] Ivi, p. 87. Cfr. “Dunque giù, verso il fondo, mai sopra, / a fondo nel crudele per i cupi / corridoi delle talpe” (ivi, p. 89).
[32] Ivi, p. 109.
[33] “Dei morti sono qui, noi ne siamo le dimore / immemori, le urne fedeli… / E ci percorrono, come attraverso i sentieri / appena visibili di una foresta, quando / meno li attendiamo” (Pensiero del niente, cit., p. 27).
[34] Nel lutto della luce, cit., p. 113.
[35] “Storia privata”, in “Suite o scioglimento”, cit.
[36] Pensiero del niente, cit., trad. mod., p. 87.
[37] “Vert Vèrone”, in Itinerario nord (e un appunto), cit.
[38] “L’ancièn”, trad. di L. Chinellato, in “Suite o scioglimento”, cit.
[39] “Tombeau métro”, in Le reti di Dedalus, maggio 2009 (http://www.retididedalus.it/Archivi/2009/maggio/PRIMO_PIANO/vegliante.htm).
[40] Cfr. « Salut a E.S. », in “Suite o scioglimento”, cit.; “Beatrice”, in Nel lutto della luce, cit., p. 25.
[41] Nel lutto della luce, cit., p. 117.
[42] Ivi, p. 31.
[43] Ivi, p. 135.
[44] “Chiamavi, ombrosa nelle tue notti. / Toccava solo a me consolarti / degli dei antiquati, serbatoi di sogni: / tu li piangevi già nell’infante / che un tenero sangue voleva alla vita” (Pensiero del niente, cit., p. 65): Cfr. “Il fiume l’infanta”, in Nel lutto della luce, cit., p. 13.
[45] Pensiero del niente, cit., p. 35.
[46] Nel lutto della luce, cit., p. 69.
[47] “Da dove mai ti insinui / voce minuscola / tra i fogli / le pagine dei nostri libri / i remoti recessi / del quotidiano’ / Di quale ordine antico / sei testimone?” (Nel lutto della luce, cit., p. 69).
[48] Ivi, p. 43.
[49] Pensiero del niente, cit., p. 121.
[50] Ivi, p. 113.
[51] Ivi, p. 31.
[52] Ivi, p. 119.
[53] Ivi, 31.
[54] Ivi, p. 45.
Immagine: Botticelli, Primavera, dettaglio.