Pubblichiamo in anteprima un estratto dalla nuova edizione di “Baudelaire e l’esperienza dell’abisso” di Benjamin Fondane, a cura di Luca Orlandini, uscita per le Lettere.
«L’infinito (ἄπειρον) è la Colpa», sostenevano i Pitagorici, se crediamo ad Aristotele, che li cita nell’Etica Nicomachea (II 6, 1106 b 9-10). Sarebbe troppo lungo tentare qui anche il più breve commento al pensiero enigmatico cui i pitagorici, primi pionieri della “Mathesis universalis” che avrebbe ridotto il creato alla quantità e al numero, dedicarono tutta la loro saggezza. Un pensiero forse solidale all’altro pensiero greco, attribuibile ad Anassimandro, per cui il principio di tutte le cose è l’infinito e la causa della loro nascita è anche l’origine della loro corruzione, cosicché il loro manifestarsi rappresenta un atto d’empietà verso il puro essere? È più che probabile, per quanto di incerta filologia. Ma la filosofia greca, al pari di quella indiana, in merito non si è mai espressa chiaramente; aveva i suoi «misteri», riservati ai suoi iniziati; e questo pensiero figura ancora tra i misteri che rifiutò di comunicare apertamente al pubblico dei non-geometri, a cui, come sappiamo, l’accesso alla saggezza era negato. Solo indirettamente era insegnato che la vita in sé è audacia, una colpa, un’empietà e che il più grande peccato della creatura è quello di aver avuto accesso, a causa della sua sete d’infinito, all’esistenza, al non-essere, nel flusso della nascita e della morte, della generazione e della corruzione.
La filosofia greca si presenta così, a noi, come la Vittoria di Samotracia, una scultura acefala, ma da cui la testa fu deliberatamente omessa, per rimanere esclusiva proprietà degli ierofanti; consegnato il corpo al pubblico, la testa, gelosamente conservata chissà dove, non smetteva di guidarne l’espressione e il significato, come verità occulta e ineffabile su cui riposava il discorso visibile ed espresso. È tale postulato invisibile a dominare misteriosamente, fino al pensiero, all’apparenza d’ordine puramente pratico, che Aristotele formula in questi termini: l’infinito è l’eccesso, l’opposto del giusto mezzo, della misura, del finito. Egli descrive così i due estremi entro i quali si trova l’equilibrio. Che un legame occulto unisca questo pensiero alla massima pitagorica è indubbio, poiché dall’alba del pensiero speculativo il rapporto viene posto in termini di senso dell’infinito in metafisica, dell’eccesso e della dismisura nell’etica, e del profondo nell’arte. Tutto il pensiero speculativo è stato un arduo tentativo di afferrare il loro intimo legame e rendere solidali questi termini a prima vista eterogenei: l’empietà, il male, la bruttezza.
Il pensiero antico (e non solo il pensiero antico) vi scopriva un elemento comune: la passività dell’intelletto, privato della conoscenza e della libertà. In effetti queste realtà, nei termini della conoscenza, non riflettevano la coscienza in azione ma solo in quanto agita e patita; così la virtù che il nostro spirito ricava in sé è atto e Verità, mentre l’amore, che presuppone l’esistenza di un dato, è passione ed errore. Ogni presenza irrazionale svilisce la coscienza, ogni valore concesso al dato la nega. Sofocle, poco prima dell’immenso trionfo del pensiero speculativo, prova ancora degli scrupoli e tocca solo con prudenza i misteri dell’arte, elogiando per esempio Eschilo per ciò che faceva, benché lo facesse inconsciamente. Ma i suoi scrupoli non tardano a essere spazzati via dallo «spirito del tempo». Nietzsche, commentando il pensiero sofocleo, ci assicura che Euripide, discepolo di Socrate, non avrebbe più ammesso come giusta l’azione inconscia; l’infinito per lui è già una colpa: solo la coscienza, la giusta via di mezzo, l’obbedienza a sé erano un bene. A mia volta mi assumo la responsabilità di affermare che Valéry, discepolo di Cartesio, potrebbe spingersi perfino oltre Euripide, in tale rifiuto.
Ma non voglio farmi passare per un indovino; è lo stesso Valéry ad aver espresso e difeso questo pensiero, come meglio non si potrebbe, sotto il velo della tradizione francese, nella misura in cui, ben inteso, è percepito e presupposto piuttosto che apertamente espresso, in questa tradizione che fa sua: «avrei preferito aver scritto un’opera mediocre, in perfetta lucidità, a un capolavoro tra i più belli in uno stato di trance». E ancora: «Preferirei riuscire a produrre un’opera mediocre in tutta lucidità, a un capolavoro per folgorazione, in uno stato di trance». Spero ci verrà concesso che, in questi testi, è chiaramente in questione tutt’altro da una posizione interessata alla conformità o meno a una tradizione poetica privilegiata; realizziamo che è una verità portata avanti solo per coprirne una più profonda, poco interessata al successo o meno di un testo poetico, e con l’unico fine di mantenere a ogni costo una definizione a priori della poesia, concepita in modo tale da impedire decisamente, in lei, ogni intrusione dell’infinito.
E se l’infinito penetra nella poesia senza tuttavia nuocere alla sua bellezza, si vuole impedire che si sappia, che sia una trasgressione cosciente; poiché in caso contrario cosa resterebbe della sua definizione? Se la sola possibilità di una poesia che venga meno alla sua definizione è una contraddizione in termini, indubbiamente, a maggior ragione, il suo successo sarebbe una prova inquietante di come questa risponda a delle esigenze reali del nostro spirito, e la contraddizione all’improvviso svanirebbe. Che la poesia intuisca di poter trasgredire la propria definizione senza tuttavia intaccarne l’essenza, senza perdere sostanza né forma, e ci si accorgerà che l’infinito non è una colpa, o almeno non una colpa artistica.
Valéry non ignora che questo pensiero può turbare il poeta, e perfino tentarlo. E non è lo stesso Baudelaire a incaricarsi di conferire una forma e un oggetto alle sue preoccupazioni, con una considerazione che nulla aveva di ambiguo: «il fondo del nostro carattere sta nel tenersi lontano da ogni estremo, e uno dei segni particolari di… ogni arte francese è di rifuggire dall’eccessivo, dall’assoluto e dal profondo»? Importa poco stabilire se il ragionamento sia falso o vero; d’altronde non vi è alcun inconveniente nel ritenerlo vero. La tradizione francese continua a ritenere un merito ciò che Baudelaire le rimprovera; ma questo spiega, forse, perché gli stranieri difficilmente e a malincuore ci riconoscano una forza poetica, mentre la nostra prosa ha sempre goduto del loro favore. Lo straniero non è affatto insensibile alla nostra poesia a causa delle nostre virtù – modestia, pudore, timore del ridicolo –, dato che tali virtù le apprezza nella nostra prosa, tuttavia, molto probabilmente, le virtù che questi ama nella prosa le trova insufficienti e fuori luogo nella poesia. Converremo così che una buona prosa deve essere chiara, ponderata e in grado di ottenere il suo scopo, ma ci si immagina anche, forse a torto, che la poesia deve possedere un grano di follia.
Valéry è lusingato dall’invidia o dal rimprovero dello «straniero» rivolte al nostro gusto del limite nel mestiere. Un pregiudizio affrettato che la lettura dei suoi scrittori avrebbe da subito dissipato: ma lo straniero crede alla nostra confusione della perfezione artistica con l’impiego deliberato di certe virtù etiche minori, come il pudore e la modestia; questi ritiene che la perfezione del linguaggio nei sentimenti e nelle idee si adatti sia all’inclinazione verso la moderazione che a un gusto per l’estremo. Se esiste un «finito» francese, non riguarda il mestiere o il linguaggio, ma una forma di pensiero, una disposizione metafisica.
Al pari di Valéry, Baudelaire ci mette indubbiamente di fronte a un problema che va oltre la tradizione francese, anche se entrambi la rimettono in causa esagerandone i tratti, l’uno per difenderla, l’altro per rinforzare il suo attacco; mentre Baudelaire si scontra con questa tradizione, Valéry, suo tramite, fa appello alla proposizione pitagorica. Anche se accade che citi Aristotele, è probabile che Baudelaire non abbia mai aperto la “Metafisica”, ma, che sia un caso o meno, il gusto che professa per l’estremo, l’assoluto e il profondo, lo chiama «il gusto dell’infinito». Più avanti vedremo che non è un semplice incontro di vocaboli; qualunque cosa intenda Baudelaire per «infinito», è sempre il «principio di tutte le cose», la vita che eccede le forme, il mondo in quanto creato e non solo pensato; l’atto che si propone di coglierlo, di viverlo o esprimerlo è sempre pensato come eccesso, audacia. E benché Baudelaire ci spinga a far uso dell’eccesso e a non fuggire l’audacia, tuttavia, non esita a vedervi un peccato, una colpa. Sembra impossibile concepire una migliore posizione del problema…
È forse un caso che, nell’elogiare tanto fermamente l’«intelligenza critica» di Baudelaire, Valéry trascuri di ricordare i testi che abbiamo citato e tanti altri, ancor più audaci, che avrebbero dovuto imporsi all’attenzione di colui che si proponeva di illuminare il mistero della singolare «importanza» di Baudelaire? È un caso che Valéry sia così certo del totale accordo tra l’intelligenza critica e la produzione poetica in Baudelaire? Che abbia sottomano solo i testi poetici che nelle “Fleurs du Mal” rappresentano l’ordine, il rigore e la tendenza astratta, come se quest’opera contenesse solo poesie «perfette» e «incantevoli»? Davvero Valéry non ricorda che il libro ha suscitato scandalo e irritato i suoi contemporanei, che fu oggetto di un celebre processo e condannato dai suoi giudici, che è intitolato “Les Fleurs du Mal” e che il suo autore, almeno agli occhi di Rimbaud, era considerato «il re dei veggenti»? Sarebbe stato troppo un «caso», e stranamente incline a prendere sotto la sua protezione principî poco compatibili, per non dire di più, con la sua natura.
Ma dopotutto Valéry poteva credersi in diritto di ritenere trascurabili tali elementi. Nulla prova infatti che l’opinione dei contemporanei abbia visto giusto. Che tale o tal altra riflessione, in uno studio critico qualunque, abbia colto la natura profonda dell’autore delle “Fleurs du Mal” e che al contrario il vero tono non si trovi negli altri testi. Valéry non fa altro che seguire l’esempio di uno spirito di cui non si può contestare l’autorità, di cui condivide la visione, dando della poesia la sua stessa definizione. Questo spirito non è altri che Baudelaire. Avremo più di un’occasione per mostrare che, almeno a prima vista, quello che sembra il pensiero di Baudelaire e che instancabilmente, e inspiegabilmente, quest’ultimo sostiene con energia, è precisamente agli antipodi rispetto a quello espresso nel suo testo sull’«Estremo», di cui abbiamo sottolineato la portata. È al primo, e non a quest’ultimo, che Baudelaire deve la reputazione di quella che abbiamo deciso di chiamare «intelligenza critica».
Dobbiamo inoltre aggiungere che solo il pensiero che porta il sigillo della sua intelligenza critica si accorda in ogni punto ai principî etici e metafisici che attribuiamo all’arte; al contrario, la sua estetica della cosa estrema – o dell’infinito, o ancora, della colpa –, se fosse realmente sua, ci porterebbe in un vicolo cieco teorico da cui nessuno saprebbe tirarci fuori. C’è di più: è l’estetica della cosa media – o estetica tout court – a catturare la nostra attenzione, a manifestarsi nella penna di Baudelaire con i caratteri paradossali della novità, dell’aggressività e dell’originalità. I testi inclini alla cosa estrema, al contrario, si mostrano a noi con una tale parvenza di solitudine, di involontario, di lapsus, di imprevisto, gettati qua e là come per caso, accanto ad altri che ne attenuano o negano la portata, che dopotutto il nostro disinteresse è scusabile; anche se (ma i logici raramente chiedono il soccorso della loro intuizione) solo questa seconda estetica è in grado di gettare la giusta luce su un’opera singolare come “Les Fleurs du Mal”.
D’altra parte: ordine, rigore, tendenza all’astratto (verremo perdonati, spero, di non aver citato qui anche la «modestia» e il «pudore») sono così intimamente legati a “Les Fleurs du Mal”, il poeta sembra aver rotto così poco con le tradizioni che generano le sue qualità, che se lo «straniero» non avesse manifestato benevolenza – da parte sua inusuale – nei confronti di un poeta francese che le possedeva, sarebbe stato naturale pensare che è soprattutto a quelle virtù, e solo a quelle, che Baudelaire doveva la sua importanza. In effetti non salta agli occhi che queste virtù in sé non sono più l’obiettivo e che svuotate del loro contenuto metafisico, dipendono soprattutto da un’abitudine, più che da un disegno volontario.
Abbiamo dimenticato lo stupore dei contemporanei di Baudelaire, di fronte al fatto che questi non avesse apportato cambiamenti al vecchio mestiere. Se Valéry confonde tutto ciò come la ricerca di «una forma più elaborata e più pura», al punto da attribuire a questa ricerca il successo e l’importanza singolare di Baudelaire, Rimbaud, con sguardo lucido, per quanto naturalmente malizioso, dissolve il miraggio: «Baudelaire è il primo veggente, il re dei poeti, un vero Dio. Tuttavia egli è vissuto in un ambiente troppo artistico; e la forma tanto vantata in lui è meschina». Quello di Baudelaire non sarebbe dunque il frutto di una riflessione sui versi in quanto tali, in quanto forma, ma uno sforzo semi-cosciente per ottenere dai versi un massimo d’intensità. Dire di più di ciò che si ha da dire, fino a vedere le prime crepe nel verso, senza tuttavia romperlo, riempiendo di vino nuovo la botte vecchia e di nuova linfa la più banale delle forme; a questo si riduce la ricerca formale di Baudelaire. Ma abbiamo anche detto che ciò non salta agli occhi, e uno spirito a cui questo fatto appaia sgradevole, non era tenuto a notarlo.
Anche il disinteresse è una forma di comprensione. E se, pertanto, si riterrà che l’evidenza non sia un criterio di verità, Baudelaire ci avrebbe dimostrato, con un esempio formidabile, che le sue virtù – l’eccessivo, l’assoluto e il profondo – tanto sospette allo spirito francese e a quello dei pitagorici, non sono inconciliabili con le qualità del suo discorso: ordine, chiarezza, rigore, pensiero astratto. Baudelaire avrebbe dimostrato ai francesi che la forma più dotta e più pura può accostarsi agli estremi dell’anima, e agli stranieri (nel caso lo ignorassero) che l’estremo non ha nulla da perdere ma tutto da guadagnare, esprimendosi in un mestiere consolidato e certo. Baudelaire, inoltre, ci avrebbe dimostrato che la definizione della poesia è stata a torto legata a una tendenza razionale che la nega, e che non vi è in lei esigenza più intima, più imperiosa, che riprendersi la sua libertà. La poesia pretende il diritto di essere dissennata e frivola, seria e profonda, profetica e visionaria; di non essere ridotta alla vergogna, quando all’improvviso le accade di dire quello che muore dalla voglia di dire. E ciò porta noialtri alla semplice conclusione che l’«importanza» singolare di Baudelaire è nella riscoperta del segreto perduto della grande poesia, un segreto banale, che forse consiste nel volere tutto l’uomo, con tutti i suoi estremi e non solo quello «medio»; che deve «investigare l’invisibile e udire l’inaudito», ponendosi il dovere di fare «indignare, calmare, gioire, addolorare, amare, odiare, ammirare e stupire».
Non dico che sia sufficiente provocare questi sentimenti, affinché esista la poesia, ma ancor meno serve respingerli. L’estremo, non più di quanto non lo siano ciò che è comune o il pudore, in sé non è poesia: sono gli estremi o la via di mezzo vissuti e pensati artisticamente a fare la poesia. Ma la poesia non potrebbe accettare limitazioni a quello che ha da esprimere, o giudizi sull’importanza o meno delle cose che ha da dire; e per la buona ragione che limitazioni e giudizi appartengono al solo pensiero cosciente non-artistico, pensato sub specie cogitationis.
L’arte termina là dove ha inizio il pensiero riflesso. Dunque, forse quello che faceva Eschilo era giusto non «malgrado», ma in quanto fatto inconsciamente. E se Euripide è perfettamente cosciente, fa bene a non simulare di aver ricevuto un dono dagli dèi, ma ha forse torto a vantarsene; non ne ha davvero il motivo. Se Tersite sceglie di essere fiero della propria mediocrità, preferendosi ad Achille, questo è un sentimento molto umano; ma apprezzeremmo di più la sua franchezza se non tentasse di convincerci di aver scelto la mediocrità in «tutta lucidità». Il ruolo della coscienza, nel poeta – nella misura in cui è tale – non necessariamente è critico, e nemmeno consiste soltanto nell’atto di rifiutare il dono degli dèi, preferendo loro la poesia mediocre; al contrario è nell’atto di vigilare con costanza e ostinazione su ciò che solo il dono può far entrare nella poesia, e nient’altro che questo dono, e nient’altro che questa poesia. Non credo che a Eschilo mancasse tale coscienza. Che non ogni coscienza, per il solo fatto di essere coscienza, sia identica all’«intelligenza critica», Valéry lo ha affermato, sostenendo che solo gli scrittori classici portano in sé un critico. Un critico «letterario»? Preoccupato solo del bene della poesia? No, non fintanto che questi si preferirà e troverà più bello il figlio mediocre al figlio nato da uno stato di trance. Il «critico» è dunque tutt’altro che un segreto e intimo alleato della virtù poetica; forse è esattamente il contrario di un alleato… Ma, ancora su questo punto, il dio ingannatore che Cartesio aveva rifiutato, cerca di convincere Valéry di essere sulla buona strada e che il suo pensiero non è poi così diverso da quello di Baudelaire. È curioso constatare che, perfino mentre Dio ci inganna, egli si serva ancora di una verità.
Sì, su questo punto il pensiero di Baudelaire si accorda con quello di Valéry; entrambi ritengono che l’«intelligenza critica» sia questa veglia continua di sé su di sé, l’intelligenza perennemente vigile, che rifiuta l’esistenza a ciò che va oltre la sua coscienza, nel timore di cadere preda dell’ombra e di acconsentire così all’estremo, all’audacia, alla «colpa». Sono uniti nel sostenere che il poeta è, e debba essere, il padrone assoluto del suo strumento. Proprio perché entrambi consapevoli «qu’on naît rôtisseur», si sforzano di avvilire il dato a favore del voluto, del volontario. Non è colpa di Valéry, se cade nella trappola che lui stesso ha creato; e forse non è un merito di Baudelaire, se il più delle volte vi sfugge. Secondo Valéry, solo l’intenzione conta. E Baudelaire era così pieno di «buone intenzioni»! A volte esagerava perfino, lasciandosi andare a manifestazioni d’ortodossia pressoché imbarazzanti, sia per coprire i suoi errori, sia per dissimulare la propria impazienza quando a volte venivano richiesti sacrifici eccessivi al suo istinto poetico. Certo, Baudelaire sapeva che non era un bene violare i confini dettati dagli dèi venuti da non si sa dove; temeva di irritare questi dèi; era convinto che la sua empietà sarebbe stata severamente punita. In altre parole, aveva un’«intelligenza critica» di prim’ordine che non smetteva, pur di guadagnarlo alla causa del proprio punto di vista, di spronarlo a sangue. Ma il poeta, in Baudelaire, aveva agito di testa sua, malgrado i trattamenti persuasivi.
Bene o male, la sua intelligenza critica fu costretta a dissimulare queste «fughe» e, per non riconoscere le sue sconfitte, a rivendicare con maggior forza le sue buone intenzioni. Che queste «fughe» siano sfuggite all’acume di Valéry? Al contrario, sono convinto che più di una volta Valéry abbia sinceramente ammirato Baudelaire per essere uscito indenne – o quasi – da tale disavventura. Se Valéry tuttavia preferisce non parlare di questi avvenimenti, è perché a suo avviso non sempre il successo ha coronato l’impresa, e lo stesso Baudelaire non sempre si è mostrato sconfortato per la sconfitta; forse se n’è fin troppo compiaciuto. Allora sarebbe stato pericoloso ammettere che Baudelaire si era spinto così lontano, e non sempre suo malgrado, in un territorio «proibito», e che ne avesse riportato frutti selvaggi, dal sapore sconosciuto, forse poco o in nulla estranei a quei valori che avrebbero costituito e perpetuato l’«importanza» dell’autore delle “Fleurs du Mal”. In caso contrario perché ritenere questa importanza «singolare»?
Che l’infinito fosse il male, la colpa, Baudelaire l’aveva capito, e almeno aveva tentato di ricordarlo. Perché allora non ammettere che non sempre se n’è ricordato e che la sua poesia non ha sofferto – come sarebbe stato legittimo aspettarsi – per questi scarti? Avremmo dovuto ammettere che il poeta può osare, senza curarsi degli interessi superiori alla poesia, dai quali siamo governati. Tuttavia non ne avremo mai abbastanza, di intelligenza critica, per metterci in guardia contro il pericolo che, anche se non colpisce la poesia, attenta indubbiamente a qualcosa di più importante: in particolare, alla nostra idea dell’uomo, dell’uomo che non vuole doni dagli dèi, e non deve volerne. Che l’intelligenza critica sia soggetta a questa défaillance, che le accada perfino di essere impotente – senza per questo provocare un disastro –, a che pro dirlo? Aver permesso all’Idea di negare ogni sostanza al terrore superstizioso di cui si circonda! e aver dimostrato che perfino un’intelligenza critica come quella di Baudelaire – per quanto eccezionale! – non sia riuscita a soffocare in lui la voce – assurda – del poeta, né a impedire che tramite la sua opera emergesse l’idea che avvicinarsi alla cosa estrema fosse un atto legittimo, per quanto disseminato di pericoli, e fertile, per quanto stravagante. Aver consentito all’Idea di permettere al primo venuto di intuire che l’orrore – fondato sul prestigio di una venerata tradizione estetica e metafisica – dimostrato nei confronti della cosa estrema è solo l’espressione di un sentimento di paura, molto diffuso nell’Homo sapiens, e dunque perfettamente onorevole, ma niente affatto il frutto di un giudizio fondato in grado di provare che «investigare l’invisibile e udire l’inaudito» (cosa diversa, secondo Rimbaud, da riprendere lo spirito delle cose morte) sia un’avventura assurda, extra-artistica.