Quattro poesie da Bagnanti di Renata Morresi (Perrone Editore, 2013) seguite da una recensione di Davide Castiglione.
fuori l’anno agosto,
preceduto dal lavorio di un secolo
di settimane
la cronaca ufficiale lo annuncia
fino a che non cade, resta
la bouganvilla rossa
intreccia
la stagione totale
*
dalle rocce dai picchi sulle acque gli iddii
vedrebbero popoli morbidi lentissimi
fondersi agli anemoni polipi i tanti
piedi avvinghiati agli scogli
staccarsi, larve sbocciare
in azzurri
dagli astri, gli stessi
continuamente fossili
*
è che a forza di pensare all’Italia
siamo diventati un po’ Italia anche noi
mugola da scorza vecchissima
mugola mucosa
ulcerata dalla plastica
c’hanno visti con le altre nelle vasche
a Linosa all’ospedale
cinquanta chili o dieci o due di carapace
(le bambine più bruciate) in cura dalle piaghe
prega per dio non dal mare
*
ufficio degli scomparsi
ampio mar mediterraneo
ognuno coi suoi vivi e i suoi morti
opachi e momentanei
per un attimo evidente il profilo
è lo stesso, il tempo fa mezzo
cerchio –
***
Bagnanti è, propriamente, la sequenza di testi posti in apertura a questa seconda, e necessaria, raccolta di Renata Morresi. Sequenza che forma un poemetto ellittico ma coeso, a occupare per intero la prima sezione del libro e, in ciò seguendo precedenti illustri, a dargli il titolo complessivo. Rispetto alle sezioni successive (Aeroporto, Vendesi, Trenitalia), Bagnanti si pone dunque come prioritaria o forse preliminare: e si vedrà come, in effetti, il tema talora obliquamente alluso talaltra frontalmente dichiarato si propaghi, come per onda d’urto (è il caso di dirlo) al resto del libro.
Al lettore ignaro che ancora non si fosse tuffato in questa scrittura liquida e ardita, e però mai astrusa, un titolo del genere potrebbe suggerire pacificazione. Bagnanti è infatti titolo ieratico, merito tanto della forma participiale e dunque assoluta – come messo in luce dal postfatore, Adelelmo Ruggieri – ma anche, aggiungerei, del referente che designa: corpi a mollo, nell’inerzia di una vacanza che, nel trattamento tematico e stilistico del libro, acquista l’accezione etimologica di “vuoto” senza rinunciare, anzi rinforzando a livello mimetico, quella d’uso corrente.
I frammenti di Bagnanti sono caratterizzati da uno stile nominale, un verso breve e accelerato nel ritmo, e tendenza a svincolare il dettaglio fisico dal suo contesto, ora rendendolo opaco e quasi mitico (in estinzione ma all’alba / risaliti gli ultimi stolidi / esemplari, p. 8) ora investendolo di un valore simbolico che lo distanzia dalla lezione imagista, di cui pure Morresi è assai consapevole (la bouganvilla rossa intreccia / la stagione totale, p. 9). Ci troviamo davanti a una scrittura cangiante, metaforica, e al tempo stesso narrativa e dai moventi chiaramente etici. Non è un caso se, sparse qua e là, fanno capolino sentenziosità fulminanti, come la chiusa del primo frammento (partoriranno tutti / anche i vecchi, p. 8) o l’incipit, da citazione, del frammento a p. 15: è che a forza di pensare all’Italia / siamo diventati un po’ Italia anche noi. Qui l’inflessione parlata (“è che”), la misura distesa del verso e quel pronome di prima persona plurale conferiscono una rassegnata dolcezza e un senso di vera comunione. Chi prende parola in questo testo sono i profughi costretti a cercar sopravvivenza, e spesso trovare morte o rimpatrio, nelle coste di Lampedusa. Il loro sovraffollamento fa scattare l’immagine delle vasche d’allevamento intensivo di crostacei e molluschi, anche in obbedienza all’analogia uomo-pesce che ricorre in più zone del poemetto quale principio strutturale (la paronomasia “popoli-polipi” nel testo di p. 11 è esemplare). In altri luoghi della sequenza, il noi è più irrigidito, messo all’angolo dall’imparzialità del resoconto storico (le nostre vite dicembre / sulle isole Pelagie // furono dei pirati / di Tomasi, p. 12) finché, alla fine dello stesso componimento citato, la cronaca si sfibra in un ricorso all’asintatticismo di domande spezzate (ma come, cosa, chi altri / che l’aria) che, se da un lato richiama la pratica di Marco Giovenale (da cui, non a caso, è tratto un esergo posto in limine alla terza sezione, Vendesi), dall’altro è funzionale allo smarrimento e alla privazione di voce sofferto da chi affoga in mare o nelle maglie di un paese incapace, nel suo complesso, di accoglienza. Divenire e fissità s’intrecciano, come nel potentissimo sintagma continuamente fossili (p. 11) ma anche nella congestione dei tempi del calendario nel testo di p. 9: fuori l’anno agosto / preceduto dal lavorio di un secolo / di settimane. Vorrei a questo punto soffermarmi su una sorta di dittico, commovente, che vedo emergere dalla sequenza. Si tratta dei testi a pp. 16 e 17. Sono, stilisticamente parlando, agli antipodi. Il primo è fortemente nominale, dove all’atto percettivo dell’io segue una scomposizione quasi cubista di un corpo galleggiante, reso relitto ancestrale: ho visto la testa tuo / totem di terra spuntare / flottante di loto. C’è della pietas nella catena associativa che conferisce al naufrago attributi legati al nutrimento e alla creazione (loto, pianeta, creta). La mancanza di movimento, sottolineata dall’assenza di verbi finiti, dice dell’impotenza tanto di chi guarda tanto di chi è guardato e forse già traghettato in un aldilà, o in un altro ordine simbolico possibile (pur non apertamente religiosa, quella di Morresi mi pare una poesia almeno in potenza animista). La situazione nel testo successivo è capovolta: qui l’allocutore è ridotto al suo gesto, tutto è movimento senza corpo (messo ad angolo sul / piano, entra dentro / ruota prende / il pieno rulla / spinge l’acqua). Lo spezzarsi del verso è dinamico quanto drammatico, e non a caso la poesia si chiude con una specie di glossa su quanto è mostrato nei versi precedenti: sottratto peso umano / s’assottiglia la figura / fino al filo / che scompare. Corpo senza movimento, o movimento senza corpo: questa negazione speculare di agenza o di identità bene riassume la condizione di chi è ai margini.
Con Aeroporto si cambia decisamente ritmo, e prospettiva: questo lungo componimento, che costituisce la seconda sezione del libro, mette in scena un io grammaticale ingombrante e ricorre a versi lunghi, che vanno scanditi con una cesura la cui posizione nel verso è sempre variabile. Da un punto di vista mimetico, la maggior parte del testo racconta gli atti minimi, meccanici, di chi si prepara all’imbarco: da quelli inevitabili, come entro nell’atrio bianco che precede le partenze, ai tic idiosincratici al soggetto eppure passibili di generalizzazione (parlo col compagno che accompagna nulla /di importante deglutisco per la nausea regolare / del risveglio troppo presto, p. 31). Anche qui c’è un “noi” grammaticale, ma contrariamente a quello solitamente mitico o empatico della prima sezione, qui viene sottoposto a ironia: facciamo fusa intelligenti transluciamo / glitterati ai paviglioni i sé passivi (p. 32). Questo breve stralcio, fra l’altro, vale da solo a testimoniare l’abilità tecnica della poetessa nel rinunciare a ogni naturalezza di dettato, con l’inserzione di termini aulici o comunque di registro inappropriato, con una non troppo velata funzione polemica che, anziché ricadere solo sugli altri, investe il soggetto in primis. C’è un che di ossessivo nell’elencare minutamente dettagli di per sé poco poetici, che inevitabilmente, nell’accumulazione, portano a un effetto saturante, di iperrealismo straniante. La sensibilità auditiva nel modulare le inflessioni del parlato si può cogliere da dettagli grammaticali minimi, e che però molto dicono del sostrato sociale di chi le pronuncia: il determinativo preposto al nome, secondo l’uso lombardo (sai la Claudia al matrimonio con quel gesto) e infatti, poco dopo, si menzionano Milano e le proprietà di chi parla (io ti dico ho sei monitor giù in studio / su Milano su Milano). Scelta notevole questa, perché di contro molta poesia contemporanea ha rinunciato ad attingere dal ricco bacino delle forme parlate. Più avanti, si noti come le forme di derivazione, al confine della tautologia, sono utilizzate in chiave critica, come specchio di povertà lessicale e immaginativa, ritorno del prevedibile: pasteggiando un certo numero / di paste sorseggiando un certo numero di sorsi (p. 33). Eppure, si era detto all’inizio di questa recensione, un ponte o collegamento c’è con i “bagnanti” della prima sezione: il trait-d’union è offerto dalla semplice frase volavamo verso il mare, quel mare teatro delle tragedie sondate nella sezione precedente. Non c’è comunicazione, c’è una giustapposizione di prospettive che condividono lo stesso spazio fisico. Viene in mente il verso di Alvaro Mutis, nella Smisurata Preghiera così tradotta da Fabrizio De André: alta sui nubifragi dai belvedere delle torri, verso riferito alla “maggioranza”: una maggioranza indifferente che, nei versi di Aeroporto, scivola senza lasciare traccia, senza scolpirsi in figure definite.
Vendesi racconta una diversa desolazione. Le ottave di questo poemetto, dove nulla accade, disegnano una toponomastica dell’ordinario (alcuni dei titoli: Via dei Velini, Viale Martiri, Colleverde) in cui si fa il verso agli annunci immobiliari (soggiorno ampio con angolo cottura / panorama sulla valle momentanea; dove quest’ultimo aggettivo rompe l’imitazione e inserisce una funzione straniante e dunque critica) e dove persino si ricorre al calligramma, con un quadrato bianco a minare la compattezza grafica della strofa (Facciata II, p. 54). L’allegoria casa-nazione viene resa esplicita in una delle ottave (Le parti costituenti il corpus casa / nazione, parti più belle più parti immonde, p. 55) e se un rischio c’è è proprio nell’intenzione scrittoria talora alquanto scoperta. Il lettore che abbia una concezione, diciamo così, più tradizionale di poesia, si troverà forse respinto nel non poter partecipare emotivamente molti di questi momenti. Che infatti non devono essere partecipati, ma scrutati come una delle tante serrande chiuse, o negozi dismessi, che costellano il Bel Paese. L’emozione è a monte della pagina, proprio perché – in consonanza, credo, coi movimenti più esterofili della nostra poesia, e specialmente coi Nuovi Oggettivismi – la battaglia implicita è contro l’esposizione diretta dei sentimenti, il melodramma o la confessionalità che irretisce il lettore dentro le coordinate dell’autore. La strategia è invece quella di esporre i resti, i reperti, siano essi corpi umani o appartamenti in vendita e che nessuno vuole o può permettersi. L’impersonalità, spesso perseguita, mi pare felicemente evitata o messa in discussione laddove scelte stranianti (come il “momentanea” evidenziato prima) introducono una funzione dialettica, di rovesciamento non solo della mimesi ma anche della parodia e dell’imitazione.
Il libro, rigorosamente strutturato ma autentico nella ricerca di uno scrivere che si confronti senza indugi con la realtà di tutti i giorni da un lato, e con le esperienze di scrittura fuori dall’Italia (Morresi è stata fine traduttrice di Rachel Blau DuPlessis), si chiude con Trenitalia, che si riaggancia a Bagnanti per i riferimenti ai tempi lunghi dell’evoluzione (noi fossili futuri, p. 62; la preistoria della giornata, p. 67), secondo un topos modernista che fonde poesia e archeologia (come in Geoffrey Hill e in Charles Olson) e abbonda di inserti dialogici ma ora più umani, più aperti alla speranza: buon inizio di una vita nuova, ci vuole (p. 65). In questa rassegna di non-luoghi, da un mare di nessuno all’aeroporto, dalle case in vendita (nemmeno loro permanenti) fino alle moderne Frecce, c’è spazio per molti registri, per molti stati (d’animo) e per molti, sottili rovesciamenti, dove bene e male non sono mai ingenuamente contrapposti. Il tutto sotto l’egida di una stringente disciplina formale che, se potrà forse distanziare qualcuno, è però forse necessario complemento al debordare della visione, del suo aprirsi, il più possibile, verso una precarietà che nemmeno manca di potenziale positivo.
Davide Castiglione
Immagine: Giovanni Iudice, Bagnanti.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).