Il testo che segue è un capitolo del saggio di Antonella Anedda “Le piante di Darwin e i topi di Leopardi”, da poco uscito per Interlinea.
Le pretese leggi della natura non sono altro che i fatti che noi non conosciamo.
(Leopardi, “Zibaldone”)
La definizione di Celati di un Leopardi «darwiniano» capace di smascherare le nostre vanità insegnandoci a non credere in «niente di assoluto» e dunque a non essere «categorici» significa prendere le distanze da ogni autocompiacimento e autoreferenzialità. Leopardi e i Darwin condividono il fastidio per l’arroganza dell’uomo che si crede il padrone dell’universo, distinto per destino da tutti gli altri esseri viventi. Per tutti e tre la teologia non deve avere voce in capitolo nella storia naturale e la reazione all’antropocentrismo si traduce in un linguaggio nuovo, in grado di scardinare un pensiero radicato nei secoli che metteva “naturalmente” l’uomo al centro di ogni significato.
Darwin deve fare i conti con una visione antropocentrica e, nello sforzo di trovare un’espressione adeguata alla novità del suo pensiero, arriva a un nuovo linguaggio: “franco”, non paludato, il cui esito è «come una nudità», dice Mandel’stam, del quale vale la pena citare ancora uno stralcio dell’appassionato elogio:
Darwin scienziato moderno si limitò al disegno, fosse o non fosse opera del caso: e il Caso entrò forte come un uragano nella scienza, era un po’ che aspettava. Fu come se le stelle sprofondassero per la prima volta in un universo infinito in cui ciascuna è sola ma condizionata dal suo rapporto con le altre, definitivamente la teologia col loro moto non c’entrava più.
Un esito come una nudità. Lo studioso ora viveva anche lui il viaggio delle cose e degli esseri, non ne era più soltanto il devoto decodificatore amanuense. Il Beagle andò ben più in là delle caravelle mentre le ossa, gli studi comparati, gli erbari giacevano numerati dentro ai musei, dove – bellissimi – ancora s’impolverano.
Oggetto della polemica di Darwin è un linguaggio ancora permeato di teologia naturale che poneva l’uomo al centro di un “magnifico sistema” ma considerava la mente umana un prodotto divino. Leopardi è scopertamente polemico nei confronti di queste «superbe fole» come le chiamerà nella “Ginestra”. Le condizioni dell’uomo non rispondono a un disegno superiore, ma sono effetti delle circostanze, del puro caso.
Nelle “Operette morali” e in particolare nella “Scommessa di Prometeo” e nel “Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo”, Leopardi amplificherà la sua ironia nei confronti della “perfezione” della specie umana (Zib. 2896 e 4280) prospettando una possibile «civilizzazione de’ bruti e in particolare delle scimie».
Leggiamo, tenendo a mente le parole di Leopardi e ricordando la presunzione di Tommaseo, un’affermazione di Charles Bell, medico contemporaneo di Darwin e famoso sia per l’ambizione sfrenata che per l’alto tasso di mortalità tra i suoi pazienti. Scrive Bell in un passo di “The Hand” (La mano): «Se un uomo osserva intorno a sé gli oggetti comuni […] percepirà che è nel centro di un sistema magnifico e che sussiste una strettissima relazione tra la capacità intellettiva e il mondo materiale».
Confrontiamo il tono trionfante di Bell con la cautela (e la tolleranza) di Darwin quando, dopo la pubblicazione di “L’origine delle specie”, scrive:
Rispetto all’uomo, sono molto lontano dal desiderare di imporre le mie convinzioni ma ho pensato fosse disonesto nascondere la mia opinione. Certamente ognuno è libero di credere che l’uomo sia apparso per un miracolo a parte, benché io non ne veda la necessità o la probabilità.
Charles Bell è uno strenuo difensore del creazionismo. Il suo manuale di anatomia pubblicato nel 1822 e intitolato: “The Hand, Its Mechanism and Vital Endowments as Evincing Design” tratta della mano umana come esempio innegabile di un disegno divino. Le mani dell’uomo, tanto perfette, non possono non essere state create. A Bell si affiancava un altro anatomista, sir Owen, che nella sua monografia “On the Nature of Limbs” vedeva un piano divino nello scheletro di tutti gli animali. In realtà, come sostiene Darwin, il motivo per cui uomini e animali condividono uno stesso scheletro è che hanno un antenato comune. Neil Shubin nel secondo capitolo di “Your Inner Fish” (in italiano: Il pesce che è in noi) dedicato alla scoperta del fossile di pesce, il tiktaalik, pesce di acque basse in lingua inuit, confuta proprio le tesi creazioniste di Bell. Il tiktaalik, con le sue pinne adattate a gomiti in grado di farlo emergere dai fondali, lentissimo passaggio verso i mammiferi, gli avrebbe dato ragione.
Le mani sono pinne.
L’onestà intellettuale di Charles Darwin è la stessa che, come racconta ancora nell’ “Autobiografia”, lo portò a escludere la carriera ecclesiastica, perché avrebbe dovuto giurare di credere in qualcosa di indimostrabile. Contro l’antropologia di chi vedeva nell’evoluzione umana l’intervento divino, Darwin rivendicò in “L’origine dell’uomo” il carattere selettivo di quella, contro «ogni idea di aggiunte più o meno miracolose o soprannaturali».
«Per Darwin», scrive Beer, «il costante mettere l’uomo al centro della spiegazione è stato probabilmente la caratteristica più esasperante della scrittura teologica naturale». A questo antropocentrismo della teologia egli risponde attraverso la scrittura. L’arroganza di chi, come Herbert Mayo, allievo di Bell, e William Whewell, considerava il mondo fatto su misura per gli esseri umani, viene denunciata usando, in un solo periodo, una pioggia di punti esclamativi: sette in tre righe: «Mayo (Filosofia del vivere) cita Whewell per la sua acutezza, perché afferma che la lunghezza delle giornate si è adattata alla durata del sonno umano!! Tutto l’universo si è così adattato!!! E non l’uomo ai pianeti – che esempio di arroganza!!».
Tutto l’universo si è così adattato. All’ironia scandalizzata di Darwin può far eco il “Dialogo tra due bestie p.e. un cavallo e un bue”. Il testo, abbozzo di un’operetta mai compiuta, non è che un esempio del sarcasmo che Leopardi riserva alla specie umana pronta a credersi più immagine d’un Dio inventato che parte della comune famiglia di piante e animali.
Oggetto della beffa non sono però solo gli uomini, ma anche gli animali se usano il linguaggio e il pensiero degli uomini. Pensiamo a uno dei passi più ironici del “Dialogo” in cui il toro, parlando con il cavallo a proposito della razza umana ormai estinta, dice: «Credevano poi che il mondo fosse fatto per loro. Oh questa sì che è bellissima! Come se non fosse fatto per li tori». Al che il cavallo risponde: «Tu burli. Toro: Come burlo? Cavallo: E via non sai ch’è fatto per li cavalli?»
Credevano che il mondo fosse fatto per loro. La consapevolezza che il mondo non sia fatto per noi esseri umani rintocca in tutto il pensiero di Leopardi. Leopardi oppone a una rappresentazione verticale che idealmente va dal meno organizzato al più perfetto degli esseri, l’idea provocatoria che «l’uomo è il più imperfetto degli esseri terrestri» (Zib. 2895-2900), come nel ritratto dell’uomo che Leopardi affida al cavallo nel “Dialogo di un cavallo e un bue”: «Hai veduto quell’animale che ieri mi saltò a cavalcioni sulla groppa […] era una sorta di bestia a quattro zampe come siamo noialtri, ma stava ritta e camminava con due sole come fanno gli uccelli, e colle altre due s’aiutava a strapazzare la gente». Questo «animale», spiegherà la nonna del cavallo, è una «scimia». Non può essere l’uomo (in quel caso il cavallo avrebbe provato «una gran paura») perché la «razza è perduta». L’uomo è allora scimmia della scimmia, una sorta di bestia ormai estinta, il cui ricordo provoca ancora spavento.
È un concetto che Leopardi ribadisce senza stancarsi: gli esseri umani credono che il sole sorga per loro, che le stesse stelle siano come candele. Qui il sarcasmo è affidato alla voce del cavallo: «i racconti delle loro faccende li chiamavano le storie del mondo, e sì non erano altro che d’una specie d’animali, quando ce ne saranno state e ce ne saranno ora altrettante quanti uomini si contavano allora…».