Due poesie da Argéman, Marcos y Marcos, 2014.
LIBELLULA
I
Come perdutamente taciturno
l’occhio verde così verde del piccolo lago,
d’un verde tanto improbabile, chiaro
di sabbie e folti canneti (e l’acqua
nel fermo immagine tace, si raggela
in superficie attonita o stranita,
chissà), dove si annullano grida
e rumori distanti di traffico,
arrochiti. Bene bene,
qui è tutto perfetto, finalmente, tutto
precisamente riassumibile e in pace:
le case sopra i colli, i luminosi deserti villaggi,
gli orti e i giardini elettricamente isolati,
ogni cosa ha il suo avverbio preciso che delimita
la portata dell’azione, il delicato
definitivo ringhio del silenzio. Quelli
che qui camminano sanno
da sempre qual è la giusta direzione: cavalli,
biciclette, tutine da jogging,
yuk yuk, mumble mumble. L’armonia
è questa, dunque? L’equilibrio è nel vuoto
del senso, nella saggia
rinuncia all’incertezza dei venti
che scompigliano le praterie?
O pensi sia una questione d’età,
l’epoca della storia o della vita? Questo pensi?
Tappe del progresso, esitazioni del mondo,
rappezzi e rammendi del cielo?
Questo pensano gli ameni viandanti che sorridono
e si scansano appena se intercettano
il dubbio di un’occhiata che sta in bilico
sopra un gorghetto che è meglio non guardare?
E tu, tu cosa vuoi, per finire? Con il tuo sonno
arretrato, la stanchezza del sangue, e quel modo
di non desiderare più nulla
o quasi nulla? Cosa sai ancora chiedere
ai giorni, e in che gironi
di quale purgatorio ti incammini
controvoglia, a testa china e questa volta
a passi lenti e in fondo in fondo rassegnato
a non scoprire altre terre se non questa
labirintite prealpina? Poi:
dica con precisione il soggetto
da quanti anni decenni ore minuti secondi
vaga senza meta precisa e senza
sapere perché; dica se crede
onestamente che sia la cosa logica
o anche solo lontanamente scusabile. Dica
chi si crede dove pensa di andare
fin dove e se davvero
non riconosce in sé coscienza d’errore,
inanità di sforzi a ben vedere ridicoli.
Ponga il capo alla fine
mitemente sul ceppo e nessuna
lama cadrà, stia certo. Riconosca, riconosca,
sorrida.
***
NAHAL ARGEMAN
(CON IRIS E DEEP PURPLE)
Iris argeman di porpora, fitto viola
sulle alture quasi deserte, come un papavero
in lacrime in fuga, e lontano lampeggia il corso
lentissimo del Giordano, da lago
verso lago, da mar morto a mar morto, lontano
lingue di fuoco e muri chiudono i territori
feriti, in una bolla d’esclusione. Ciascuno
conta i suoi morti qui,
le sue vergogne.
*
Ma queste sabbie, le piste
tra rocce antiche e perduti santuari,
i rivoli d’acqua che cercano uno sfogo e colano
da altezze modeste a modeste bassure,
con l’umiltà del dattero e della capra,
della pietra e dell’asino,
caparbie nel trovare
angusta una via più semplice per crescere,
un destino…
*
Nahal Argeman, dunque, il mondo
alla rovescia. Altrove lingua di neve
che chiama verso l’oltre,
quaggiù lingua di terra bruciata bruciante,
l’ustione di una vicenda umana senza speranze,
e più ancora dei morti l’orrore
più nero subìto che torna e trasforma
la mano in pugno che schiaccia altre vite
altre vittime uguali.
Lastre verticali, torrette di guardia.
Requisizione dell’accqua.
Bambini di pietra.
E tu, sweet child in time,
wait for the ricochet.
*
Un fiume. Cos’è un fiume nel deserto?
Dentro un deserto che non possiamo vedere
c’è un fiume soltanto immaginato, che scende
uguale da millenni devastati e luminosi di storia,
passi e passi e mani passate di qui
tra battesimi e fustigazioni: e per finire
lo stupore, davanti al concetto di fiume, il nostro
commosso stupore. Nell’acqua,
sulle rive dell’acqua che dice
altro sempre e che va.
Che disseta animali.
*
Non dai potenti o dai trattati, mai.
Solo dal cuore degli umili la pace.
La voce del fiume, che scorre.
I nostri occhi ulcerati.
*
Lingua di neve alpina
lingua di terra orientale
torrente che cammina
coincidenza che lascia sperare.
Argeman argemonion
suono d’argento vivo
specchio di gelo, montagna
di roccia e fil di neve.
Argeman sguardo che cerca
argeman bocca che dice
quando scende la notte
e la luce svanisce.
Svanisce dietro le cime
o al fondo dei deserti.
Quando la tenebra è lama
e gli occhi rimangono aperti.
***
NOTA DELL’AUTORE
Nahal Argeman: provando a digitare il termine argeman in google, ho scoperto questa località sulle alture occidentali della valle del Giordano, con grande stupore. Come se il lessico potesse condurre dal gelo alpino al Mar Morto, nei Territori occupati e circondati dal muro della vergogna. Un iris argeman, dall’intenso colore porporino, ha fatto scattare l’associazione con una delle più celebri canzoni dei Deep Purple, Sweet child in time. Del resto altre parole danzano in questa poesia: argema “piccole ulcere del giro dell’iride”, e argemone (o argemonia o argemonion) “papavero messicano o spinoso”, che si riteneva in grado di curare l’argema.
Immagine: Foto della Valle del Giordano.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).