Appartenere

da | Mag 20, 2024

Cinque poesie dalla raccolta “Appartenir” (Le Castor Astral, 2024) nella traduzione inedita dal francese di Francesca Spinelli.

 

RITRATTI

Il lato materno: secchio colmo di vermi neri
corti, lucenti — in perpetuo movimento
Un solo buco per parlare, defecare
Lo stesso inquinamento

Il lato paterno: specchio infranto, schegge
che si incidono — i bordi più grossi della superficie
Provando a disporli, ti tagli le dita
— sangue, non si assemblano.

 

SECONDE GENERAZIONI

Accanto ai freschi e genuini
c’infuriamo — cosa ho fatto per meritare
di non sapere altrettanto?

Quel che ci manca in esperienza
— lancinanti cavità

proviamo a compensarlo

camminando su una linea dove due maree
— fantasie, frammenti vissuti — ci soffiano
battute

Nella mischia
Tra denigratori e ammaliati
— ignari fratelli

sferriamo, eccediamo
— in devozione, intransigenza

Nate dai tormenti del nostro disagio
le bugie scorrono nel flusso collettivo

E restiamo così, a mezz’aria
con i nostri spazi incolmi di legittimità.

 

SAPERE TROPPO

Appena — Un po’, ma non proprio —
Riesco a leggerlo — le mie variazioni
alla domanda ricorrente:
Parli greco? — mio padre
non ci ha parlato — mio fratello ed io
abbiamo acquisito le basi per altre
vie — nessuno nei due andando molto
avanti — a vent’anni, un desiderio
pugno sul tavolo: andare a viverci
— un anno, per recuperare — recuperare cosa?
Non l’ho fatto — e oggi so
— imparare davvero il greco, imparare
fino a sapere, avrebbe significato
stringere ancora il legame
con mio padre, distruggere la diga
— massa d’acqua del suo dolore,
dei suoi ricordi, la gravità —
non più sporadico traboccare
— immergercisi — imparare, davvero
la lingua del padre — sarebbe stato
saperne troppo.

 

SINTOMI, GIORNO

Ma cos’hai, di preciso?
Un peso — no: un nodo
cristallizzato, nero diamante inseparabile
innestato sul mio diaframma

Il respiro sempre interrotto — non proprio
(nel mio stato la precisione non è di alcun
aiuto — piuttosto una vanità, come affrontare
ben vestita il plotone d’esecuzione)

— il respiro incapace di soddisfare
di giungere al termine — di offrire
l’ossigeno sufficiente a mettere il nodo
in sordina nell’attimo in cui inspiro

Un disgusto simile a nebbia
— non voglia di vomitare — come se anima
e odore fossero tutt’uno — e l’anima
appunto — l’anima di giorno la sotterro
sotto compiti manuali, ripetizione

e di notte ritorna.

 

SINTOMI, NOTTE

Anche se bendo, stringo
c’è piscio ovunque
— tappo un buco
subito l’anima ne squarcia altri tre
— fuoriesce con più impeto ancora

Esco in giardino, è notte — cielo senza nubi
stelle a non vederne la fine — un po’
di cosa? conforto è sciocco — oblio
— appena il tempo circoscritto
dello sguardo alla notte — respiro.

 

NB: Non è stato sempre possibile rispettare la grafia dell’originale, ci scusiamo per l’inconveniente.