Antonella Anedda: perdita e salvezza

da | Feb 13, 2015

Due poesie dall’Antologia di Antonella Anedda, tradotta e curata da Jorge Aulicino, Buenos Aires, Hilos, 2014. Segue un saggio di Diego Bentivegna letto in occasione della presentazione del volume, e tradotto da Primo De Vecchis.

***

(da Notti di pace occidentale, 1999)

Irgendwo in RuBland ist meine Seele.
Gertrud Kolmar

In qualche luogo in Russia esiste la mia anima
se anima si chiama
questo ascolto del corpo a gola tesa: voce – e libri
libri simili a ferri tra le pietre di un monte
metalli su cui posare i piedi lentamente.
Dunque non solo carta – immagini:
steppa, slitta, sonagliera
ma in quell´uscire del corpo dall´infanzia
colori netti come mai accade da bambini
non un dio ma un´orma nelle cose
come se a ogni forma potessimo levare il suo sigillo.

Forse l´anima non esiste ma esistono i suoi luoghi
la distanza: verstre da percorrere a ritroso
una lingua capace di dire ció che preme
suono, frontalitá, selvatiche radici
respiro di pianure
si respiro – per lo stretto di un´isola
e al posto delle rime
il ritmo di un pensiero
mai udito
inaudito
come sempre é cercare concisione nell’altezza.

*

Irgendwo in RuBland ist meine Seele.
Gertrud Kolmar

En algún lugar de Rusia existe mi alma
si se llama alma
esta escucha del cuerpo a pleno: voz -y libros
libros parecidos a hierros entre las piedras de un monte
metales sobre los que posar lo pies lentamente.
Entonces no solo pape – imágenes:
estepas, trineo, cencerros
sino aquel salir del cuerpo de la infancia
colores netos como nunca sucede desde niños
no un dios sino una huella de las cosas
como si a cada forma pudiéramos quitarle su suello.

Tal vez el alma no existe, pero existen sus lugares
la distancia: verstas a recorrer en sentido opuesto
una lengua capaz de decir lo que oprime
sonido, frontalidad, selváticas raíces
aliento de llanura
ese aliento -por la estrechez de esta isla
y en el lugar de las rimas
el ritmo de un pensamiento
jamás oído
inaduito
como es siempre buscar la concisión en la altura.

***

(da Dal balcone del corpo, 2008)

All´angelo, dopo la cacciata

Mi spingi dicendo “si sta bene al buio”.
Guardo i gerani sulla finestra cieca
penso: li annaffieró comunque
fino alla schiarita di una foglia
all´unghia di un colore,
ma la lingua che a un tratto mi hai tagliato
non puó pensare a lungo.
“Perché?” avevo chiesto all ínizio.
Adesso che non parlo e ho solo gli occhi
dici che sono fatta per le tenebre
leggi con la tua voce di mattone rauco
cosa é scritto su muro, per me, per te, noi tutti
“spargo le vostre opere, le do in pasto agli uccelli
col miglio sul balcone. Vi basta un po´di pane
uno sagabello. Forse avete dimenticato: é una prigione”.

*

Al ángel, después de la expulsión

Me empujas diciendo: “se está bien en la oscuridad”:
Miro los geranios sobre la ventana ciega
pienso: los regaré de todos modos
hasta el clarear de una hoja
la uña de un color,
pero la lengua que hace un momento me has cortado
no puede pensar mucho tiempo.
“¿Por qué?”, había preguntado al comienzo.
Ahora que no hablo y tengo solo los ojos
dices que estoy hecha para las tinieblas
lees con tu voz de ladrillo ronco
lo que está escrito en la pared para mí, para ti, todos [nosotros
“esparzo las obras, se las doy de comida a los pájaros
con el mijo en el balcón. A ustedes les basta un poco de [pan,
un escabel. Tal vez lo hayan olvidado: es una prisión”.

***

Mi sono imbattuto nei versi di Antonella Anedda, come spesso accade con i poeti contemporanei, casualmente. Stavo giusto preparando una campionatura di poeti contemporanei italiani. In quel momento mi interessavano soprattutto i poeti che allora, verso il 2009, erano in piena attività e le cui opere era quasi impossibile trovare a Buenos Aires. Privo di fondi per fare un viaggio in Italia e trovare lì i materiali che potessero risultare utili per dare forma a una antologia come quella che stavo progettando, cercavo di trovare quello che mi interessava nella poesia italiana contemporanea attraverso Internet. Non inserivo nei motori di ricerca il nome di autori precisi, che certamente non potevo ancora conoscere, bensì sceglievo piuttosto espressioni come “poesia italiana”, “poesia contemporanea in italiano”, “poeti nati tra gli anni 50 e 60”, eccetera. Cercavo di evitare a tutti i costi le parole dei compilatori di antologie e dei critici, autorizzati ad affrontare invece una ricerca propria, con i rischi e le sorprese che questo comportava. Molte volte, in alcuni casi attraverso la mediazione concreta degli autori, dopo essermi messo in contatto con loro via email o attraverso facebook, potevo accedere anche a documenti in diversi formati che potevo conservare nella mia apparecchiatura per stamparli e leggerli, in ogni caso, con più attenzione e cura. Perciò, certamente, occorreva “salvarli”. Salva con nome è il titolo dell’ultima raccolta poetica di Anedda, pubblicata molto dopo l’edizione originale della mia carrellata del 2009 (Viaggio in Italia. Otto poeti italiani contemporanei, Olivos, Sigamos Enamoradas). La conosco, quindi, grazie al libro che stiamo presentando, l’Antologia di Anedda, preparata, selezionata e tradotta da Jorge Aulicino: che è stata “curata” da lui, potremmo dire con un termine più affettivo, nel quale sono presenti le sfumature dell’attenzione e dell’ascolto con i quali Jorge, ormai da anni, va traducendo in spagnolo le opere dei più svariati poeti italiani, in un lavoro che include tanto i versi dei poeti che oggi hanno più o meno sui venticinque anni quanto l’Inferno della Commedia dantesca. Salva con nome è la forma italiana della funzione “salva come”, che tutti i sistemi operativi posseggono e che permette non solo di scorrere i documenti online bensì, fondamentalmente, di disporre di essi nelle nostre apparecchiature, anche quando queste rimangono senza la connessione a Internet. È un titolo intenso e al tempo stesso autoriflessivo, nella misura in cui insieme ad esso lo è la poesia, che percepisce se stessa nel presente, e ciò non si limita solo all’opera di Anedda. Possiamo trovare in questo titolo un dato significativo per pensare il modo con il quale ci relazioniamo oggi con la poesia contemporanea. Il titolo parla del modo con il quale Anedda, e la serie dei poeti e delle pratiche estetiche alle quali lei si associa, si mette in relazione con la poesia. Nella poetica dei trovatori provenzali e dei poeti dello Stil Novo, il congedo era la forma tipica con la quale si chiudevano le canzoni, dove avveniva la chiusura di una composizione, che era consegnata a un altro affinché potesse proseguire la sua diffusione e, in ultima istanza, la sua vita. Quando “salviamo con nome”, salviamo “come”,“Enter” è il comando con il quale si “consegna” o si “Invia”. Consegnare in una cartella che eventualmente non sarà mai aperta, togliere per un momento dalla circolazione, dal flusso virtuale e, al tempo stesso, “salvare”, nella tradizione cristiana che Anedda visita in ogni momento, è l’azione soteriologica per definizione. Forse senza esserne del tutto cosciente, la poesia di Anedda assume in tal modo alcuni dei problemi che emergono come i più centrali e ricorrenti nel pensiero contemporaneo: il problema dell’archivio come cumulo di ciò che è stato detto, come insieme di quello che è stato enunciato e che è sottomesso, per la sua stessa condizione di fatto finito, alle politiche della protezione, della sopravvivenza, e in ultima istanza, della memoria testuale, ma anche della soppressione, dello “sterminio” o della sparizione virtuale. Della perdita. Quando nel Catalogo della gioia, Anedda dispiega la sua batteria poetica attorno alla lettera P, la questione messa in rilievo è quella della perdita e dell’accumulazione, della preservazione e di ciò che fluisce. Cito:

«Perdere: smettere di possedere (…). Perdere oggetti e beni, perdere quanto è voluto. Rendere difficile per perdere (…). L’arte di perdere (…). Perdita di tempo (…). Lasciar correre, non fermare (…). Perdersi. Dispossessare. Discrearsi (…). Perdere i limiti di sé (…).»

La poesia di Anedda concepisce se stessa come un atto nel presente che è colpito dalla perdita, che si identifica perfino, in uno stesso gesto, con essa. È perdita di sé e perdita degli archivi: come una preservazione che annienta, un atto inoperoso. L’antologia curata da Jorge Aulicino ci permette di pensare le differenti tensioni e i differenti “dettagli” che è andata assumendo la poesia di Anedda nell’arco di più di due decadi. Come quella di vari suoi contemporanei – penso a Milo de Angelis, del quale sempre la casa editrice Hilos ha presentato da qualche tempo una antologia; penso a Eugenio de Signoribus; penso al friulano Mario Benedetti – la poesia di Anedda torna a radicarsi in una tradizione moderna, nella quale ci sono il Montale fiorentino, l’Ungaretti de La terra promessa e il Mario Luzi che si avventura al di là dei confini dell’ermetismo negli anni di Dal magma. Con poeti come quelli la poesia italiana torna a confrontarsi in modo deciso con un’idea più ampia di poesia moderna e contemporanea, con un’idea che non si percepisce più in termini nazionali, che non si concepisce anche nei termini di una lingua nazionale concreta, che non si inscrive in modo escludente nella forma del verso e che Anedda chiarisce fin dalla prima delle sue raccolte poetiche. In effetti, Residenze invernali, il libro con  il quale Anedda inizia la sua serie di volumi di poesie nel 1992 e salutato tra gli altri da Amelia Rosselli entusiasticamente, può essere letto come la ricerca di una voce poetica incrinata: una voce che oscilla tra la sua appartenenza ad una lingua italiana “cristallina” (adesione, in definitiva, alla voce “soave e piana” con la quale Virgilio si riferisce al parlare di Beatrice nel secondo canto dell’Inferno), e l’apertura verso una serie di stimoli che in un modo o nell’altro rendono rarefatta quella stessa lingua: una serie di punture o di tracce, che Anedda raccoglie da certe esperienze che sente vicine, come la poesia di Celan (riferimento esplicito) o la pittura di Fontana (implicito); una serie di tagli che sollecitano il poetico, che lo aprono verso un divenire qualcos’altro, legato nel caso specifico di questa raccolta poetica con il mondo nordico, popolato di renne, lapponi, abeti e neve. Come se la sua poesia cercasse, a differenza di quello che accade con Milo de Angelis e il suo legame con una Milano in mutamento, o con Mario Benedetti e la sua “residenza in Friuli”, di non poter essere identificata con un luogo specifico, con un paesaggio preciso, identificabile da alcuni tratti del mondo mediterraneo. La “residenza” di Anedda non è, dunque, una residenza terrestre, bensì una forma di sradicamento dove ciò che è più inospitale, il mondo dei lapponi, sbocca nel Baltico, come se l’anguilla di Montale ritornasse nelle sue acque di partenza; la residenza rimanda, quindi, a una dimora di San Pietroburgo, uno spazio di asilo che imita l’universo poetico con il quale dialogò la prima Anedda, popolato di nomi come quelli di Osip Mandel’štam, Marina Cvetaeva, Iosif Brodskij. Nella seconda raccolta poetica di Anedda, Notti di pace occidentale del 1999 il problema si sposta sul piano della lingua, sul piano dell’espressione e, fondamentalmente, sul piano della rappresentazione. Se nelle Residenze invernali il problema della poesia è il problema del luogo, di quel luogo sradicato, nella seconda raccolta il problema passa ad essere piuttosto quello della insufficienza della parola. Non è tanto, voglio dire, la questione del sublime che i poeti romantici trasformarono in una delle ossessioni più forti di quella che concepiamo come la poesia moderna, bensì la trasformazione contemporanea delle domande del secolo XVIII. È una trasformazione che si traduce, per esempio, nelle tesi di Paolo Virno attorno al carattere difettivo della parola davanti alla ricchezza, alla complessità, all’eterogeneità del mondo. Se la modernità nelle sue forme più estreme, le avanguardie, nelle sue diverse manifestazioni, pensava che lo iato tra i mezzi espressivi, e tra questi ovviamente sono inclusi i mezzi linguistici, e ciò che non si riesce a dire, poteva essere salvato, benché in parte lo sia, attraverso la deconfigurazione delle tecniche ereditate, il luogo nel quale oggi la poesia si installa è quello della intemperie e della desolazione: la parola della poesia contemporanea non è più la parola piena dei simbolisti e degli ermetici, né la parola smeccanizzata delle avanguardie e neoavanguardie, non è nemmeno la parola estratta dalla “realtà”, la parola eteronoma e impura che spicca per esempio negli esercizi pasoliniani, bensì una parola fenduta, ferita, tagliata, in maniera analoga al modo con il quale Anedda avvicina l’universo delle arti visive nei saggi de La vita dei dettagli (Donzelli, 2009).

«A un tratto un dettaglio ci attira tanto da farci avvicinare. L’intero quadro diventa resto. Il dettaglio è l’isola del quadro.» Cos’è un nome? Si chiede Anedda all’inizio di Salva con nome: «Niente – si risponde -. Un suono che chiama un corpo, un campanello che ti aggioga. Ricevere un nome é la prima prova che siamo in balia degli altri. Non avere nome significa fuggire: pochi hanno il coraggio di andarsene dal nome che hanno fino al nome che sono» Possiamo risparmiarci gli echi della storia del pensiero che risuonano in questa affermazione di Anedda. In ogni caso, la poesia è la costruzione di un nome possibile più che la ricostruzione di una parola originaria o la destrutturazione dei nomi che ci sono stati dati. All’inizio dei testi di Salva con nome che Aulicino seleziona nella sua antologia, emerge la figura del “su Compinodori”, un’“apparizione” delle tradizioni popolari del carnevale delle isole di Sardegna: una figura umana che adotta una maschera «che annulla l’identità del singolo e non ha espressione». Mi piacerebbe pensare che “il Compondori”, con il suo nome nel quale la componente sarda mostra la presenza di un superstrato castigliano, condensi la ricerca poetica di Anedda, tra la perdita e la costruzione di un nome e la fuga insulare. Negli ultimi anni, la relazione di Anedda con il mondo delle isole e degli arcipelaghi si è intensificato manifestamente (come rimane incarnato nel suo volume Isolatria, pubblicato nel 2013 dalla Laterza, concepito come un viaggio testuale verso l’arcipelago della Maddalena). Vale a dire, l’insieme di piccole “isole” che si estendono dalla Sardegna alla Corsica e che, a rigor di termini, non sapremmo a quale delle due grandi isole mediterranee attribuire. Quelle isole non rappresentano un luogo fisso, bensì un flusso: sono, nella percezione rigorosamente politica di Anedda, l’arcipelago mediterraneo di Hölderlin, riletto in Italia alla fine del secolo (nel 1984, quando Anedda non aveva ancora pubblicato il suo primo libro, e nelle isole di Venezia, dove la poetessa aveva studiato Belle Arti) da Luigi Nono (con l’assistenza filosofica di Massimo Cacciari), come una zona di dispersione e alterità. Quelle isole sono il luogo di provenienza familiare di Anedda, ma la sua poesia ci porta a credere che esse non sono a rigor di termini in nessun modo il suo luogo di origine, un luogo dove si può tornare alla ricerca di un’esperienza piena, di una parola totale o di una lingua incontaminata. Questa è una delle lezioni più potenti della poesia di Anedda che, benché sia nata a Roma, sembra essersi sentita sempre vicina a quest’arcipelago mediterraneo, iscritto nello spazio regionale della Sardegna, ma che si distingue da essa per il suo rapporto più sostanziale con il mondo marittimo e, non è un dato minore, per la persistenza di forme dialettali del continuum di parlate proprie della regione Liguria, fortemente distinte dalla lingua sarda. Scrivere poesia è, e questo Anedda lo afferma con convinzione dai suoi primi versi costantemente, proiettare spazi di sospensione, di indeterminazione, residenze invernali, corpi nei balconi, isole. “Lei è e non è”, leggiamo in una delle poesie di Salva con nome dedicate alla memoria della madre. Sono luoghi di transizione e di ricerca, di indeterminazione e di passaggio, come gli spazi-soglia dove è esposta la “vita nuda” e dove si mettono in gioco, giorno per giorno, i nostri destini biopolitici: Il corpo nel balcone.

“Raccoglierò dettagli come ossa / Un museo affinché non si disperdano”. Con questi versi si conclude una delle sezioni di Dal balcone del corpo. Tra la vita e la morte, la poesia-soglia di Anedda annuncia un rapporto con i morti, con ciò che è stato detto, con il patrimonio letterario e con la poesia stessa intesa come archivio, come condizione della possibilità della parola, una relazione che appare come un topos ossessivo nella letteratura del ventesimo secolo e che le poesie di Anedda, di De Angelis, di De Signoribus o di Benedetti tornano a riunire in un modo o nell’altro. Il sottotitolo de La vita dei dettagli, lo scritto sulla pittura al quale accennammo prima, è “scomporre quadri, immaginare mondi”. Credo che la poesia di Anedda si inserisca proprio nella fenditura che si apre in questo doppio gioco, costruttivo e decostruttivo, visuale e uditivo, tecnico e mentale. È stato detto (e Boris Groys lo afferma di recente in Going Public) che l’arte contemporanea è un’arte del presente, non più inteso come un punto di transizione tra il passato e l’oggi, bensì come una curvatura perenne del passato nel presente; come un tempo mutevole, un tempo di Moebius. In un nastro come quello, la prosa si curva nella poesia, il saggio nel racconto, la lirica nella tragedia, l’inno nell’elegia. In questo senso, la poesia di Antonella Anedda è una scrittura rigorosamente contemporanea che questa antologia, curata da Jorge Aulicino, ci permette, adesso, in spagnolo, con i suoi giri e le sue inflessioni, con la sua distanza e la sua dislocazione, di attraversare.

Diego Bentivegna

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Immagine: Foto di Dino Ignani.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).