Nella prefazione a Nuovi poeti italiani 2 (Einaudi, 1982), Alfonso Berardinelli scriveva della lingua di Marina Mariani come di «una lingua comune e media, semplificata, quasi da abbecedario»; e del suo incedere come quello di «un diario in versi su cui campeggia l’interrogativo di chi ha la sensazione di non aver capito bene la logica del senso comune, e il dubbio di non essere stato bene informato sulle regole della vita». La sorpresa destata dall’opera di Mariani era nell’«incontro di una particolare anima smarrita con un insieme di oggetti e di circostanze, non meno misteriose e insidiose per il fatto di appartenere alla più prevedibile quotidianità».
Questo lungo preambolo per dire che non è un caso se Valentino Ronchi, nel suo secondo libro di poesie, Anna e Mélanie (2012), pone a esergo di una sezione proprio due quartine di Mariani. Cinquant’anni di differenza, ma legati da più di un’affinità. La prima è biografica: entrambi i poeti sono laureati in filosofia. Ma gli studi non diventano zavorra nelle rispettive opere. Certo è possibile leggere quella di Ronchi – lo si vedeva già, anche più esplicitamente, in Canzoni di bella vita (2006; poi rivisto, integrato e ripubblicato nel 2008) – come una poesia di pensiero, ma non nel senso strettamente filosofico, ovvero del ragionamento; piuttosto si tratta di una poesia dal carattere meditativo, cui piace raccontare (del resto Ronchi ha esordito su rivista come narratore) e raccontare il sentimento del pensiero più che il pensiero stesso, o più spesso la situazione da cui il pensiero si sviluppa. Una poesia che rappresenta scene, circostanze, momenti della quotidianità stando sulla soglia del pensiero, ottenendo pa-radossalmente il massimo della precisione con l’uso di minimi particolari, quando non addirittura con lo strumento dell’ellissi.
Altre affinità legano Ronchi a Mariani, di ordine stilistico e non solo. Quella lingua «comune e media», che è poi tipica di una tendenza piuttosto definita della poesia contemporanea; e, passando ai contenuti, un certo spaesamento dell’io. Ronchi mette in scena la specificità dell’individuo, il miracolo del singolo raccontando vite magari non eclatanti, ma certamente toccate dalla magia, che vuol dire vivere l’esperienza della consapevolezza. Il singolo è presentato nella sua relazione con gli altri, raramente presenti in via diretta, più spesso attraverso gli oggetti, i luoghi e la visione che ne dà il singolo stesso.
Vite non eclatanti ma piene di atmosfera, di consapevolezza sono quelle di Anna e Mélanie. Dire la trama è dire niente, il cuore del libro sta altrove, nelle situazioni di cui le poesie sono occasione e oltre, sulla soglia che dicevo, oltre la quale si libera il pensiero con l’immaginazione. Memori di Weronika e Véronique nel famoso film di Kieślowski, possiamo leggere Anna e Mélanie la prima come il doppio della seconda e, ancora, nell’una il superamento dell’altra. Dietro il gioco e il mistero della ripetizione, lungo le variazioni su un tema – quello dell’«educazione sentimentale» giustamente rilevato da Giampiero Neri nella nota in quarta di copertina –, seguiamo le vicende di queste due donne alle prese con nient’altro che la vita. Fuori dal parallelismo, ad avvicinare i due mondi, solo una manciata di occasioni. Un ragazzo che all’insaputa (o quasi) di entrambe diventa loro amante comune. Un bistrot alla stazione di Roma Termini dove un’unica volta e per un istante le loro esistenze inavvertitamente si incrociano. Un narratore (anzi, un poeta) che «certe sere al tavolo» scrive di loro, «intuisce» il loro legame indicibile ed enigmatico.
La relazione di cui scrivevo, del singolo con la totalità, è di sfasamento. Si ha la sensazione che Anna e Mélanie siano ben integrate nel mondo, che se ne sentano parte. Eppure si nota sempre, puntualmente, un margine di differenza, quasi una diffidenza. È la necessità di distinguersi, delimitare, per conquistarsi uno spazio autenticamente proprio. Come in questa poesia: «La grande piscina è azzurra, azzurra l’acqua / e le piastrelle e il fondo della grande vasca, / ma anche le panche per cambiarsi sono / azzurre, azzurre le pareti degli spogliatoi, / le ciabatte, anche il mio costume è azzurro / anzi blu». Si gioca sulla somiglianza, sulla famigliarità con l’ambiente, per rivendicare solo alla fine la propria alterità. C’è un’altra poesia che parla proprio di questo, delle «poche […] differenze sovrastate dalle somiglianze»; ma del resto è un tema ricorrente, dell’«uguale» che è sempre «un po’ diverso». La stessa dinamica si riconosce nello stile, in una lingua sì «comune e media», ma sensibilmente sovvertita, ad esempio coi frequenti anacoluti.
Il risultato è un libro scritto con garbo e in stato di grazia, compatto ed essenziale, compiuto e perfetto in se stesso, privo di mancanze così come di eccedenze. Un bel passo in avanti, rispetto al già ottimo Canzoni di bella vita, che ci lascia nell’impaziente attesa di un seguito. Un’opera, per citare ancora Neri, «di rara intensità e bellezza».
Valentino Ronchi, Anna e Mélanie, Lampi di stampa, Milano 2012, 94 pagine, 10 €.
Oltre a Canzoni di bella vita, già citato, Valentino Ronchi ha pubblicato un romanzo nel 2013, Vecchi libri per quest’epoca incerta (Foschi editore), ed è l’autore di una raccolta di racconti in uscita per Italic PeQuod.
Immagine: Fotogramma dal film La doppia vita di Veronica di Krzysztof Kieślowski, 1991.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).