Di Giovanni Turra
All’interno di Corpuscolo (2004) di Alessandro Fo – sorretto, come Bandini, da una più che approfondita conoscenza dei classici (è traduttore di Rutilio Namaziano, di Apuleio, di Virgilio) -, la sezione Bucoliche (al telescopio) avvicina i loci pastorali delle Ecloghe virgiliane alle figurine del presepe.
L’accostamento non deve tuttavia sorprendere: infatti, la voluta oscurità della quarta bucolica di Virgilio e il riferimento a un puer nascente indussero l’apologeta Lattanzio e lo storico cristiano Eusebio di Cesarea a stabilire una predizione della venuta del Figlio di Dio.
In Fo, l’ambientazione inedita e appartata del presepe muove da Piazza Navona, più precisamente dal mercatino romano ivi presente che sotto Natale offre ogni dovizia alle decorazioni delle festività. Non di rado – avverte l’autore in un controcanto prosastico a questa sezione – quel mercato è fatto oggetto di visite «anche solo così, per guardare»[1], non potendo i portafogli di ciascuno sostenere l’esborso di somme considerevoli per l’acquisto di tante piccole tentazioni.
Perciò, i due personaggi che danno vita al frammento d’incontro abbozzato in A integrazione seguono vie contrapposte: l’uno, come Titiro nella Prima ecloga virgiliana, potrà integrare nella quiete di casa il proprio presepe come ogni altro anno trascorso; il secondo invece, come Melibeo che patisce gli espropri del mantovano conseguenti alla battaglia di Filippi, cela dietro l’apparente svogliatezza il dramma delle incertezze di un tempo di recessione:
[…]
Mi serve un gregge di caprette, e un carro di legno
con su del fieno, per un pastore che dorme.
Per integrare. Ogni anno
mettiamo in più qualche particolare.
Io no. Quest’anno
non mi va.
Sono venuto solo a guardare.[2]
Il medesimo sfondo è presente ne Il Ciclope, tutto tramato di riferimenti ancora virgiliani. Fin da Teocrito, il Ciclope – all’opposto del truce mostro dell’Odissea – canta d’amore; e Virgilio ha qua e là ripreso la vicenda di Polifemo nella seconda ecloga, in cui il pastore Coridone, innamorato del bell’Alessi, rivolge ai monti e alle selve un disperato lamento d’amore. In Teocrito, tuttavia, si tratta di un amore eterosessuale[3], e non paidico, come nel componimento virgiliano.
Nella poesia di Fo, Ciclope e amore tornano nuovamente a congiungersi.
Il Ciclope
Da una bancarella e vetrine
l’ultima novità:
…..(fu anni fa,
…..nella stagione opposta,
…..fra l’arco di Severo
…..e i ruderi di Massenzio,
…..fuori dal cinema notturno.
…..Due voci, a turno,
…..per congedo. «Ciao, Zoe»
…..e, già lontana, la risposta
……….«… Ciao, ‘ciclope’…»
…..«O Cornamuse,
…..poi che vostro sono,
…..rendetemela voi, Zoe, la mia vita.
…..Che non sia più solo voce a bandiera
…..dispersa nella trafila
…..di rovine una sera
…..d’estate:
……….ditele la mia lunga fedeltà
…..e che l’aspetto sempre, io, il Ciclope
…..pastore quale sono,
…..qui, fra i pastori del Duemila
…..– in un presepe»)
gli archi, e il silenzio
severo delle rovine.[4]
In Virgilio, simmetria richiede che l’ecloga ottava (rispondente alla seconda) presti la sua eco al medesimo tema: Damone, che lamentando il tradimento della fanciulla Nisa (ora sposa dell’odiato Mopso) vede la morte come unica soluzione del suo dolore, intreccia un canto con Alfesibeo, il quale riferisce di una donna che cerca di riconquistare l’amato Dafni con la forza della magia.
Puntualmente, Damone ritorna in un’altra poesia di Fo:
Damone
«E se poi muoio, tu sarai felice»
grida alla figurina dagli scogli.
Eunice fila sotto un pino, vivo pregio
di un’altra scena.
…..(Ut vidi, ut perii
…..Nunc scio quid sit Amor)
Le braccia si sollevano – diresti
per richiamare l’attenzione
sulla sua pena.…..No, perché si ridesti
quella prima emozione.
(Giocavo ancora. Poi mi parvero passi
dietro le foglie.…..Mi volto e tu mi vedi).
Si misurava all’epoca coi rami bassi
degli alberi, in punta di piedi
…..(Chos ídon, hòs emánen.
…..Nyn égnon tòn Érota)
Ero a Torino.
Il giardino
girava intorno al ciliegio.[5]
Virgilio nel personaggio di Damone sembra aver fissato un ricordo della propria infanzia, quando in punta di piedi giocava a raggiungere i rami più bassi degli alberi nella campagna di Mantova[6]. Subito però, nella poesia di Fo, il pastore ritorna tale e si appropria del «la vidi e fu finita» di Teocrito: chos ídon hòs emánen[7]; ut vidi ut perii […] Nunc scio quid sit Amor[8], «ed ora ben conosco che cosa sia Amore», tòn Érota. In una nota, l’autore chiarisce un riferimento alla propria vicenda personale: «Ero a Torino quando, ancora adolescente e senza ancora saperlo, giocavo con il ciliegio del giardino gli stessi giochi di Damone e di Virgilio»[9].
Fo presenta la tradizione bucolica in maniera assai dimessa, quasi non fosse più disponibile in un’epoca, la nostra, così radicalmente diversa da quella degli Arcadi; sebbene, come ricorda Zanzotto, il primo a constatare l’impotenza della poesia («scarsa e incerta ricompensa al silenzio degli dèi, al frastuono delle cose […], allo stridore delle armi»[10]) sia stato proprio il Virgilio delle Bucoliche[11].
[1] A. Fo, L’autore, porgendo i suoi auguri agli Arcadi e ai lettori cui giungerà questo libretto, in Id, Corpuscolo, Torino, Einaudi 2004, p. 60.
[2] Id, A integrazione, in Corpuscolo, cit., p. 49.
[3] L’amore non corrisposto del Ciclope per Galatea. Cfr. Teocrito, Idillio II.
[4] A. Fo, Il ciclope, in Corpuscolo, cit., p. 50. Al terzo verso della seconda strofa centrale è patente il fenomeno largamente diffuso nella cultura greca – e apprezzato nella sua ricezione moderna e contemporanea (da Nietzsche a Savinio a Paul Auster) – di svelare nel nome di persona le ragioni forti della sua identità: zoé in greco significa “vita”; e coincidente, quel fenomeno, con l’esibizione del valore etimologico, cioè del contenuto di verità che si presume inerente alla denominazione.
[5] A. Fo, Damone, in Corpuscolo, cit., p. 57.
[6] Cfr. Virgilio, Ec. IX, vv. 28 e ss.
[7] Sempre dall’Idillio II di Teocrito.
[8] Virgilio, Ec. VIII, vv. 41-43.
[9] A. Fo, L’autore, porgendo i suoi auguri agli Arcadi cit., p. 62.
[10] A. Zanzotto, Con Virgilio (1981), in Id, Scritti sulla letteratura, vol. I, cit., p. 344.
[11] La Nona ecloga (vv. 11-13) narra, infatti, dell’incontro, sulla strada per Mantova, di Licida e Meri; i due pastori si lamentano che nuovi proprietari, stranieri, abbiano cacciato i vecchi contadini, e Meri constata che purtroppo fra le armi i canti valgono ben poco: «[…] sed carmina tantum / nostra valent, Lycida, tela inter Martia, quantum / Chaonias dicunt aquila veniente columbas […].[ «(…) ma i nostri carmi, Licida, / valgono tanto tra le armi di Marte, quanto, / si dice, le Caonie colombe al sopraggiungere dell’aquila (…)»].
«Giocare i giochi di Damone e Virgilio» – Poesia e mito /1 (Fernando Bandini)