Alessandro Baldacci, Milo De Angelis. Le voragini del lirico

da | Ago 10, 2020

Da poco uscito il saggio di Alessandro Baldacci, Milo De Angelis. Le voragini del lirico, per Mimesis. Pubblichiamo la prima parte dell’introduzione.

MILO DE ANGELIS E L’ESPERIENZA DELL’ABISSO

L’eternità non è gran che più lunga della vita.

R. Char

Nel 1978 Enzo Di Mauro e Giancarlo Pontiggia lanciano presso l’editore Feltrinelli, con tono entusiastico e battagliero, l’antologia La parola innamorata. A guidarli è l’urgenza di reagire a decenni dominati dalle poetiche della sperimentazione e dell’impegno, segnati dall’imperativo del sociale e del politico, optando per la dimensione desiderante, romantica, soggettiva e anarchica della parola poetica, presentata come ‘terribile dono’, gesto rapinoso, gratuito, generato da entusiasmi e passioni irrefrenabili. Sono presenti nel volume autori molto distanti fra di loro, e non tutti pienamente riconducibili all’infervorato intervento di apertura, intitolato La statua vuota, in cui i curatori invitano alla verticalità, all’avventura e all’azzardo, a uno scrivere rapinoso, seduttivo e ipnotico, che richiede al poeta, così come al suo lettore, di “entrare nel fuoco della follia senza ritorno”, in nome del sacro e gioioso enigma del verso, rivendicando le ragioni di un “canto che, tagliato, continua a cantare, e si fa beffe degli spadoni del potere, o delle bocche metronome di chi chiede e implora moderazione”[1]. Tra gli antologizzati c’è anche Milo De Angelis, nato a Milano nel 1951, immediatamente impostosi, dopo l’esordio poetico di Somiglianze (1976), come uno dei protagonisti più sicuri della nuova generazione poetica. Segnato dal ‘demone della poesia’ egli è l’unico fra gli autori presentati da Pontiggia e Di Mauro che, con pieno diritto, potrebbe accusare la Parola innamorata di non essere abbastanza ‘innamorata’ e di permanere, in definitiva, troppo titubante verso una ‘eternità poetica’ che l’autore intende come aspirazione prima e inderogabile del verso.

Esplicitando una idea di poesia riconducibile alla possessione e manifestazione del dionisiaco, alla solennità e severità del sublime, inteso come ‘rischio’ che spinge il soggetto a centrarsi e “concentrarsi solo su ciò che abbaglia”[2], De Angelis ricerca nella scrittura verità fondamentali, che si ripresentano nei secoli, e che solo il lirico, inteso come forma metastorica, disposizione e postura dell’anima, è, a suo avviso, chiamato a disvelare, con un passaggio di testimone che va da Alcmane a Bonnefoy, da Hölderlin al contemporaneo. Egli in pratica avverte e ritrova nel verso l’espressione di una emozione bruciante, di “una forza sovrana e invincibile”[3] che cattura il soggetto e lo proietta, violentemente, verso il proprio limite, e, al contempo, al centro della sua vita, per una folgorante “meditazione sulle origini e le ragioni di uno smarrimento che è essenziale non misconoscere”[4]. Il lirico per De Angelis non è una scelta ma uno Zwang, è il rispondere, obbedendo, a un comando superiore e indiscutibile, al fine di “mostrare la nuda e glaciale evidenza dell’essere, la sua radicale prossimità al nulla”[5].

Nella sua idea di poesia come convergenza di folgorazione e rigore, De Angelis, in pratica, sin dal suo primo libro, rivendica una “idea romantica ed assoluta della scrittura. […]. Assoluta ma anche consapevole che l’assoluto può vivere soltanto nel palpito vivo della lingua, nel suo respiro contemporaneo”[6]. Per rimanere fedeli all’essenziale, sfuggendo alla società della chiacchiera e dell’effimero, per lui, non si danno alternative allo scrivere versi, a questo “gesto inattuale, fuori tempo e fuori modo, […] gesto postumo per sua natura, storia e vocazione”[7] che è il fare poetico. La riproposizione e la rivendicazione del lirico come estrema esperienza di verità, all’interno di un orizzonte sacrale e ontologico, rappresenta uno dei punti nodali della poetica deangelisiana, e pone questo autore in netta opposizione con la scrittura confessionale esplosa in Italia con il Sessantotto, così come con la linea sperimentale della neoavanguardia, quanto con la poesia dell’engagement politico[8] o dello scarto ironico, così come con quella del gioco parodico o formalistico. Egli punta a investigare, per converso, le zone più cupe e sconnesse dell’interiorità, le irruzioni dell’irrazionale nel quotidiano, i cortocircuiti fra ragione e non-ragione, fra arcaico e presente, spingendo il verso a ruotare attorno a un insolvibile nucleo drammatico, “attraverso una forma che, partendo da una percezione analogica della realtà, è concreta e dolente”[9]. La poesia deve, secondo De Angelis, collocarsi nello strappo dell’aut aut, sposando una contraddizione che appare come sanguinante e inesauribile, vitale e disperata, ma al contempo chiamata ad abbracciare eterno e fuggevole. Ciò porta a una declinazione estrema del lirico, dove il desiderio è azionato e impedito da potenze oscure e ignote, mentre la “volontà è frenata continuamente dalla materia, che non segue il suo folle volo e l’àncora a terra”[10]. Il lirico deangelisiano è inoltre caratterizzato da una evidente vena anti-elegiaca e si polarizza attorno a un io che rifiuta intimismi, confessioni, psicologismi, al fine di “sfondare il nucleo biografico, far respirare […] l’energia che ogni tragedia scaglia fuori dalle sue cellule”[11]. Alle teorizzazioni sulla ‘morte del soggetto’ egli contrappone il ruolo imprescindibile della prima persona in poesia, capace di “fondersi con il cosmo meglio di ogni altra. Meglio della seconda persona, per esempio, che può diventare confidenziale. Meglio della terza, che può richiudersi nella cinepresa narrativa ed episodica”[12]. Per De Angelis, acerrimo nemico del disincanto del moderno, la poesia è “potenza ontologica”[13] in grado di sorreggerci e guidarci nel viaggio all’interno di noi stessi, al fine di affrontare la “tenebra infinita” [14]che domina il fondo abissale del nostro essere. Per questo, egli afferma recisamente: “nei veri poeti il soggetto ritornava sempre, ferito e arricchito dall’impatto con il mondo e dal fuoco dell’esperienza, ritornava sempre e imponeva la sua firma solitaria”[15].

Accompagnata da una evidenza panica e misteriosa che non serve interrogare o psicologizzare, ma che erompe sulla pagina, magnetizzando intorno a sé schegge e frantumi di senso, la poesia deangelisiana incarna una forma di conoscenza che procede per illuminazioni e svelamenti, figlia del rimbaldiano “immenso e ragionato sregolamento dei sensi”[16], del suo viaggio al fondo dell’ignoto, verso il ‘porto sepolto’ in cui è iscritto il nostro destino mortale, affidando all’intuizione il compito di catturare la ‘rugosità’ e le ombre del reale. La sua opera è per questo in primo luogo contrassegnata da una moderna declinazione del tragico, inteso come radicale coscienza della finitudine, vertigine di angoscia che rigetta non tanto la visione ottimistica dell’esistenza quanto il depotenziamento rassegnato e passivo, pessimistico, del pathos[17].

Bruciata dall’intuizione del negativo e dal dramma dell’esserci, la poesia di De Angelis punta a sondare le ferite della condizione umana, scegliendo una strada che passa, in primo luogo, per le esperienze estreme della modernità incarnate da I fiori del male di Baudelaire, da La nascita della tragedia di Nietzsche, così come dalle Illuminazioni di Rimbaud e dalla mistura esplosiva fra registro argomentativo-narrativo e concatenamento onirico, assurdo, dei Canti di Maldoror di Lautréamont. La sua è una ridefinizione eroica e feroce della poesia, come avventura solitaria, lucida e titanica, segnata dalla coscienza del nulla e della morte, come esperienza essenziale grazie alla quale è possibile entrare in contatto con la “rivelazione di quel che è la vita, di quel che attende da noi, di quel che occorre desiderare di fare”[18]. Rovesciando Bergson la poesia di De Angelis trasforma l’attimo in misura dell’assoluto, un assoluto, per dirla con Bachelard, fatto “di istanti senza durata”[19], di istanti che spiegano la vita, incorporandone i paradossi, e parallelamente la cesura tragica, messaggera di morte, che si pone a fondamento dell’essere e dell’esperienza del tempo.

 

[1] E. Di Mauro, G. Pontiggia, La statua vuota, in Id. (a cura di), La parola innamorata, Feltrinelli, Milano 1978, p. 10.

[2] B. Saint Girons, Fiat Lux. Una filosofia del sublime, tr. it. C. Calì e R. Messori, Aesthetica Edizioni, Palermo 2003, p. 12.

[3] Pseudo-Longino, Del Sublime, a cura di F. Donadi, Rizzoli, Milano 1991, p. 107.

[4] B. Saint Girons, Fiat Lux. Una filosofia del sublime, cit., p. 14.

[5] R. Carifi, Milo De Angelis. Obbedienza e destino, in L. Cesari (a cura di), Anni ’80. Poesia italiana, Jaka Book, Milano 1993, p. 31.

[6] M. De Angelis, Colloqui sulla poesia, La Vita Felice, Milano, 2002, p. 64.

[7] Ivi, p. 130.

[8] A proposito del rapporto fra poesia e impegno De Angelis significativamente dichiara: “La nozione di ‘impegno’ contiene in partenza un inganno: già con il suo nome mette all’indice gli oppositori, bollandoli come uomini che su questa terra non si impegnano. È vero il contrario. L’arte politicamente impegnata è la più facile e la meno rischiosa di tutte, con l’applauso garantito dai buoni sentimenti. Non raggiunge nemmeno il suo unico scopo, quello di essere “politica”. Nulla di meno politico della sua seduzione” (M. De Angelis, La parola data. Interviste 2008-2016, Mimesis, Milano 2017, p. 143).

[9] M. Borio, Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000, Marsilio, Venezia 2018, p. 99.

[10] M. De Angelis, Lucrezio, la notte, l’incubo, in M. Rizzante, C. Gubert (a curadi) La scoperta della poesia, Metauro, Pesaro, 2008, p. 45.

[11] M. De Angelis, Colloqui sulla poesia, cit., p. 118.

[12] M. De Angelis, La parola data. Interviste 2008-2016, cit., p.16.

[13] Ivi, p. 135.

[14] Ivi, p. 138.

[15] Ivi, p. 59.

[16] A. Rimbaud, Opere, tr. it. I. Margoni, Feltrinelli, Milano 1964, p. 143. Del ‘ragionato sregolamento’ rimbaldiano De Angelis coglie tanto l’azzardo avventuroso e ignoto del sostantivo quanto il vincolo, l’esigenza di rigore e precisione insita nell’aggettivo.

[17] Cfr. U. Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008.

[18] Y. Bonnefoy, Rimbaud. Speranza e lucidità, tr. it. F. Scotto, Donzelli, Roma 2010, p. 9.

[19] G. Bachelard, L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco, tr. it. M. Bianchi, Edizioni Dedalo, Bari 1973, p. 49.

 

Immagine: Milo De Angelis, foto di Viviana Nicodemo.