Dal luogo illune del tuo silenzio
mi riscuote ogni giorno l’urlo del mattino.
O notte celeste senza resurrezione
perdonami se torno ancora a queste voci.
Io premo l’orecchio sulla terra
a un’eco assurda dei battiti sepolti.
Dietro la belva in fuga irraggiungibile
mi butto sulla traccia del sangue.
Voglio salvarti dalla strage che ti ruba
e riportarti nel tuo lettuccio a dormire.
Ma tu vergognoso delle tue ferite
mascheri i cammini della tua tana.
Io fingo e rido in un ballo disperato
per distrarti dall’orrenda mestizia
ma i tuoi occhi scolorati di sotto le palpebre
non ammiccano piú ai miei trucchi d’amore.
Alla ricerca dei tuoi colori del tuo sorriso
io corro le città lungo una pista confusa.
Ogni ragazzo che passa è una morgana.
Io credo di riconoscerti, per un momento.
E mendicando rincorro lo sventolio di un ciufietto
o una maglietta rossa che scantona…
Ma tu rintanato nel tuo freddo nascondiglio
disprezzi la mia commedia miserabile.
Buffone inutile io deliro per le vie
dove ogni fiato vivente ti rinnega.
Poi, la sera, rovescio sulla soglia deserta
un carniere di piume insanguinate.
E chiedo una tenerezza al buio della stanza,
almeno una decadenza della memoria,
la senilità, l’equivoco del tempo volgare
che medica ogni dolore…
Ma la tua morte cresce ogni giorno.
E in questa piena che monta io vado e mi riavvento
in corsa dirotta, per un segno,
un punto nella tua direzione.
O nido irraggiungibile e caro,
non c’è passo terrestre che mi porti a te.
Forse fuori dai giorni e dai luoghi?
La tua morte è una voce di sirena.
Forse attraverso una perdizione? o una grazia?
o in quale veleno? in quale droga?
forse nella ragione? forse nel sonno?
La tua morte è una voce di sirena.
Voglia di un sonno che pare una tua dolcezza
ma è stata già l’impostura dove ti ho perso!
La tua morte è una voce di sirena
che vorebbe sviarmi da te nelle sue fosse.
Forse, io devo accettare tutte le norme del campo:
ogni degradazione, ogni pazienza.
Non posso scavalcare questa rete spinata
mentre al tuo grido innocente non c’è risposta.
La tua morte è una luce accecante nella notte
è una risata oscena nel cielo del mattino.
Io sono condannata al tempo e ai luoghi
finché lo scandalo si consumi su di me.
Io devo, qui, trescare e patteggiare con la belva
per rubarle il segreto del mio tesoro.
O pudore d’una infanzia uccisa,
perdonami questa indecenza di sopravvivere.
Tu sei partito credendo di giocare alla fuga.
Era per fare il bravo, la tua smorfia d’addio.
Al solito! Che poi ti bandisci nella tua stanzuccia
minaccioso diero le porte sbarrate
come un gran capitano nel suo forte supremo.
Guai per l’audace che si arrischi all’assedio!
Ma ti conosco. Che invece se nessuno si arrischia
ti strazi, e piangi nella tua rabbia infantile
perché non c’è amore al mondo e ti lasciano solo.
Ma stavolta, la tua porta fu sbattuta dagli uragani.
Le piogge entrarono nel vano abbandonato
e una fanghiglia come sangue ha imbrattato i muri.
Quando eri vivo, la tua stanza era la stella del quartiere,
ricercata da tutti. E adesso
tutti ne rifuggono, come fosse appestata.
Il mio piede inciampa nella tua camiciola
che nessuno ha piú raccolto da terra. Sul terrazzo
devastato dagli inverni, le piante sono morte.
Perfino i ladri hanno schifato questo tuo feudo estremo
dove infatti c’era poco di valore, da rubare!
Ritaglíati dalle riviste, i ritratti dei tuoi eroi
adornano ancora le pareti: Gautarna il Sublime,
il barbuto Fidel, Billíe Holiday la suicida.
In un angolo, c’è ancora la scodella della tua gatta.
Una cravattina rossa pende nell’armadio.
Alla partenza, ti caricasti dei tuoi beni principali:
il canestro con la gatta e il fonografo a valigia.
«Il resto dei bagagli, speditelo per via mare».
Trecento volte quella nave ha ripercorso quel mare
e i tuoi tesori sono dispersi, e io sono qui, vivente.
Anche se vivo tremila anni, e se corro tutti i mari,
non posso piu raggiungerti per riportarti indietro.
Lo so che tu credevi di giocare all’addio.
Era una braveria, la tua smorfia…
Ma contro una scommessa impaziente di ragazzo
è un’altra lunga agonia la posta che qui si chiede.
La ladra delle notti è una cammella cieca e folle
che gira per Sahara incantati, fuori d’ogni pista.
L’itinerario è lunatico, non c’è destinazione.
Le sabbie disfanno le tracce dei suoi furti.
Le sue pupille bianche fanno crescere miraggi
dai corpi lacerati che lei semina per le sabbie.
E i miraggi si spostano a distanze moltiplicate
irraggiungibili nei loro campi solitari.
Amputati dai corpi, si disperdono separati
senza rimedio, eterne mutilazioni.
Nessun miraggio può incontrare un altro miraggio.
Non ci sono che solitudini, dopo il furto dei corpi.
Là non esistono indirizzi, né nomi, né ore.
Nessun segno per conoscersi. Tutto l’infinito eterno
non è che un cielo vuoto bianco, ruota sonnambula
dove si fugge assenti uno dall’altro alla cieca.
L’unica occasione d’incontrarsi era stata
questo povero punto terrestre.
Quaggiù i difficili ragazzetti, dopo un pomeriggio [d’angosce strazianti,
possono ancora ridere a una barzelletta.
O nel noioso quartiere, una domenica di noia,
d’un tratto trasfigurarsi alla vista d’una piuma
e correre a ritrarla in un dipinto, ingigantita tragedia di [colori
che fa straripare il sangue del dolore adulto
fino ai firmamenti fanciulleschi.
Qua un giorno di primo autunno, su un ponte fremente di [folla
perché c’è il passaggio del Papa,
ci si può esibire, buttandosi vestiti nel Tevere
per il salvataggio di un gattino bastardo
predestinato.
E risalire sul ponte in un trionfo, grondanti e raggianti.
Ma piu tardi a casa, poi, maledire la vita
perché quel gattino rifiuta ogni cibo, e oramai
non vuole piu guarire.
Qua, una notte di troppe bevute, i ragazzi ubriaconi
possono, rincasando, scatenare in un estro furibondo
l’orchestra jazz sul giradischi, spostare
a calci i mobili per la pista dei balli, spalancare
la finestra, urlando degli osanna e dei gloria irripetibili,
e al Colonnello condòmino che protesta gridare: Merda!
per poi, la mattina, alle sue successive proteste, con [degnazione rispondere:
«Quale indecorosa gazzarra?! nel mio appartamento?!
Da me, per tutta la notte, non si è mossa nemmeno la gatta.
Secondo me, la sola dannata spiegazione, COLONNELLO,
è che lei, stanotte, dormendo, abbia avuto un incubo. Forse
aveva un poco bevuto?»
Qua ci si può raccontare le storie della propria vita:
il padre filisteo brutale. La madre maltrattata e bella
(a tre anni tu la difendevi gridando: Questa donna è mia!).
La Nonna Simpatica, grassa, malata d’ossa e gioconda
(che ha avuto quattro mariti, e all’età di settantatré anni
faceva ancora l’amore col quarto il piu focoso).
La Nonna Antipatica, secca e arzilla, che giudica e sparla,
e a tutte le Arti del mondo preferisce un sicuro impiego…
La festa del primo novembre, con le lanterne di zucche:
Tritto-o-tricco! Tricco-o-tritto!
E di quando, in gara col merlo,
ci si buttò dal tetto della rimessa
per fare la prova del volo…
Qua, se un amico è lontano, lo si può chiamare al telefono,
fosse pure agli antipodi (tanto, non si paga subito,
il conto è un remoto futuro): «Chi è là? Samarkanda? [Londra? Persepoli?
Sei tu!? Sono io, da New York City!! Senti la mia voce?
Come stai? Qua si crepa di noia! Pure là? Quando torni?
Ehi! C’è la gatta, seduta qua sulla mia pancia
che ti saluta! La senti, la sua voce?”»
Qua si può piangere per un tradimento d’amore.
Si può bisbigliare a un orecchio una frase tremenda
e intanto dolcemente baciare
quell’orecchio, ridendo
puerilmente.
Si può passare una notte in guardína e rilasciati alla [mattina
andarsene alla spiaggia del mare a rinfrescarsi
bestemmiando fra le bracciate e gli spruzzi
contro le pulci delle galere
e i Codici tutti fetenti e proclamando la gloria d’essere
dei fuorilegge.
Si può protestare indignati contro certe rivistacce [commerciali
che per lucro insultano con pettegolezzi biografici
la memoria dei Poeti.
E, preoccupati, intendendo premunirsi
contro ogni dannata evenienza di fama futura,
provvedere senz’altro, quel giorno stesso, a distruggere
tutto il proprio epistolario privato.
Senza salvare nemmeno la fotografra
originale (custodita fino dalla fanciullezza)
della Divina Vecchiona Culona Mammona,
con la sua dedica personale autografa:
Grazie per i simpatici auguri d’Anno Nuovo.
Sincerarnente.
Mae West.
Si può, alla mattina d’estate, andare sulla Via Appia,
tolta la camicia, riparati da un cappellaccio di paglia,
a ritrarre un antico sepolcro, che nel tuo dipinto diventa
una scogliera vulcanica, selvaggio addio pietrificato
nel cieio diluviale dei Golgotà e Paradisi terrestri.
E dipingendo, intanto, disputare arrabbiati
perché si viene contraddetti nell’affermazione
che Cecilia Metella era una santa cattolica
patronessa di tutti i musicisti italiani
e apparve in visione, con un’arpa, al famoso musicista [italiano
Giuseppe Verdi
autore della Tosca.
Qua, uscerdo dalla bottega di un fioraio borghese
in compagnia della isterica vecchia madre,
si può offrirrle ingrugnati, dentro un cartoccio di giornale,
la sorpresa nascosta e omaggio
di DUE DOZZINE DI ORCHIDEE! furto operato con [destrezza
mentre il complimentoso bottegaio s’era disfatto
con la detta signora.
Si può il primo novembre, giornata generaie
di Tutti i Santi,
grandiosamente con allegria milionaria
acquistare un tacchino intero, da regalare alla gatta
affinché goda lei pure la sua dovuta festa onomastica
(invero essa ha nome
Konkuahat).
E poi, squartando il tacchino, presi da un amaro disgusto
di tutte le morti animali e di tutta questa vita,
aver voglia di morire.
E con lo stesso coltello tagliuzzarsi le vene del polso
in un solitario misero pianto luttuoso
mentre nella stanza vicina la gatta gozzoviglia.
Qua si può ascoltare intenti, per ore, le favole,
e leggere entusiasmati Tropico del Cancro.
Si può insultare al passaggio una guardia di questura
e andarsene fischiettando impuniti, come fosse stato
qualcun altro.
Si può idolatrare per anni un grande divo, e quando infine
lui si degna d’esser lieto di fare la nostra conoscenza,
ai suoi convenevoli formali rispondergli solo: Bastardo!
e piantarlo in asso nei saloni del suo Grande Albergo
scuotendoci via la sua polvere dai nostri stivali.
Si può prendere il piroscafo per le isole che, da piccoli, [stando al Kentucky,
non si credeva esistessero davvero, invece esistono.
E là tuffarsi radiosi nel mare a picco dalle rupi
correndo in gara alla traversata celeste come arcangeli nel [battito delle ali;
oppure lasciarsi portare riposati per il mare calmo
sul materassetto di gomma turchina
abbronzandosi al sole, rinfrescati dal soffio dell’acqua,
come il sultano Unis (signore di saggezza di cui la madre [ignora il nome)
disteso fra i ventagli di palma
delle sue trentamila schiave
lungo il Nilo.
Qua ci si può impadronire dei barbari girasoli
scavalcando in un salto i muri della proprietà privata.
Si può scrivere ogni due giorni alla nonna simpatica
che da piccolo ti accoglieva a dormire
assieme a lei, nella sua larga cuccia
(quando le notti avevi paura delle streghe invernali
che cavalcavano dentro i nubifragi
a cavallo dei campanili strappati dalle chiese).
E alle sere si può dividere il letto con un ragazzetto amico,
o invece con una ragazzetta, secondo gli umori.
Oppure, quando non si ha voglia di coricarsi con nessuno
perché stasera si è disperati e si vorrebbe esser morti,
prendere le pillole drogate, che fino a domani
fanno dormire come morti.
Qua si può ballare con una ragazza bella della quale non [t’importa niente
per ingelosire una brutta della quale invece t’importa…
Si può salvare dalla camera a gas un cagnòlo paria e [rognoso
e mettergli nome Principe Facciadivina…
Si possono mangiare i cannelloni, i gamberi e il gelato di [vainiglia…
Si può, quando si è ragazzi troppo belli,
sputare adirati contro i passanti maschi e femmine in [generale,
che in istrada si permettono di voltarsi seguendoti con [occhi innamorati.
E per farla finita con loro (Non voglio piacere alla gente!)
un giorno, con torva decisione,
uscire cammuffati da brutti (occhiali da vecchio ebreo, [sciarpa fino al naso
scivolando per le vie tenebrosi
con l’aria di un ricercato speciale dinamitardo sovversivo.)
Qua si può discutere di Cristo e di Budda
e della ignominia occidentale detta classe media
e della rivoluzione di Cuba
: dei bianchi, pieni di soldi, benpensanti e benlavati, che [puzzano di cesso
e dei negri poveri che odorano di fiore
e delle immonde guerre dei padri e delle loro squallide [paci
e delle loro istituzioni speculazioni missioni invenzioni [provvidenze sanzioni
tutte stronzate di vacca
E della realtà, e della vista pura, e del CAPIRE,
e delle dimensioni multiple
e dei colori
e della morte.
Qua i ragazzi insultati dalle crisi di un morbo pauroso
possono, risvegliandosi da una devastazione,
calmati sorridere nel loro stupore celeste
verso una faccia china che li adora
anche se poi si nascondono con la fronte sotto il cuscino
dicendo in una voce straziata: «Cosí adesso
tu lo sai! M’hai veduto! E pretendi farmi credere
che ancora puoi sopportarmi…?»
Qua, dopo aver gridato in una insonnia: «Voglio che la vita
si stacchi da me!», riaccese tutte le lampade
in camera, i ragazzi possono consolarsi
nel dire alla ragazza, guardandosi insieme allo specchio:
«Guarda che bella coppia facciamo, noi due vicino…»
Qua, dopo una zuffa sanguinosa, i ragazzi perdenti
possono rifarsi a casa gridando contro le madri
perché si fanno trovare ancora sveglie sedute in attesa
come questurini appostati o come spie.
E le madri rispondono malamente. Ma vedendogli,
intanto, l’occhio abbottato, gli promettono
per l’indomani, un paio di occhiali neri da sole,
i piú begli occhiali del negozio fuoriserie,
fossero pure di tartaruga autentica:
e in piú un orologio con incisa all’intorno
la ruota dei fusi orari universali,
tutto d’oro garantito! o, fosse pure,
di Platino!…
E adesso io qua sola in questa veglia di secoli
seduta nell’angolo della stanza presso all’uscio
diero la finestra illuminata nella notte
aspetto l’ora del tuo ritorno a casa..
Non posso lasciarmi al sonno, finché tu tardi.
Voglio riaverti qua vicino, sentire il tuo fiato
e medicarti dalla lebbra impossibile
che ha sfigurato l’allegria dei tuoi occhi.
Spio dai vetri, sto in ascolto. Nella distanza scorre
il tetro rumore delle vie, come una sriscia dentata.
Tutte le città della terra sono un’unica, maledetta congrega
contro i ragazzetti celesti.
I laidi praticanti dei bar, le maligne regine,
le cameracce delle sigarette intossicate
gli scantinati fragorosi
i dementi pugni omicidi
le cacce della questura
i mafici
i segnali distorti
i giardini dei vampiri
le corsie degli ospedali deliranti
le stelle del cinema le bambole le fate gli ambasciatori i [mezzani i sicari
i palazzetti barocchi i grattacieli
i vespasiani
le viscide scale dei ponti le baracche fluviali
e le rotaie…
Le Ultíme Notizie della Notte.
«Con un urlo agghiacciante».
Senza requie mi aggiro dall’uscio alla finestra.
Tendo l’orecchio a ogni passo della strada.
E la lunga notte avanza. Si dirada lungo gli asfalti
il fruscio delle ruote. Le insegne si spengono.
Le ultime finestre illuminate si sono chiuse.
Piú nessun passo sui marciapiedi.
Nessun cancello piú stride. Cessato ogni tardo sussulto
dell’ascensore coi suoi rauchi ingranaggi per tutti i piani.
Finché nel declino ormai dell’ora silenziosa
un sopore mi piega le palpebre. La mia fronte si abbatte
sul piano del tavolino quasi in un urto
fra i capelli canuti in disordine.
E cosí, come nei finali d’amore…
E cosí non ho udito il tuo passo, né il tintinnio
del mazzetto delle chiavi, né l’aprirsi dell’uscio
nentre tu rincasi. Due mani fanciullesche
mi solleticano la nuca.
Riconosco, vicino alla mia faccia, il sapore di nido
delle tue ciocche. Intravedo, con le mie pupille confuse,
1e ombre luminose dei tuoi occhi, del colore di un mare [stellato.
«Ah, teppista! Ci sei, finalmente! A quest’ora, si torna?
Potevi almeno dirmelo, ieri sera, che facevi nottata!
Che hai fatto? Forse è successo qualcosa? una lite? chi t’ha [offeso?
Oppure un malore… t’hanno fatto bere, di nuovo! sei [caduto?…
ti sei ferito? dove hai male?»…
«Non sono ferito. Non ho nessun male.
Guardami, sono sano. Guarda, il mio corpo è intatto.
Ma tu, quanto vecchia ti sei fatta! sei perfino rimpicciolita!
Hai tutti i capelli bianchi! Pure le ciglia bianche!
Nel sorridere, la tua faccia si fa ancora piú rugosa!
Povera buffa vecchiarella carina.
Sono venuto a darti la buona notte.
Questa è l’ora della guarigione.
L’orrendo male feroce, che ci minava entrambi,
qui ha fine. Per tutte le mie crudeltà
io ti chiedo perdono. E anch’io ti perdono la tua
crudeltà.
Tu lo sapevi che le fanciullezze sulla terra
sono un passaggio di barbari divini
col marchio carcerario della fine già segnata.
Lo sapevi. Eppure volevi farmi vivere
quando io non volevo piú vivere.
Quella tua prepotenza era una noia per me.
Chi è vecchio, se è felice nella presenza di un ragazzo,
non vede in lui che allegria. Nient’altro vede.
Tu adoravi come una festa de1 tuo destino
una fanciullezza già segnata che ti diceva il suo male.
Tu, allegra dell’infanzia ch’io ti portavo,
ti scordavi della legge monotona che ricama
i suoi disegni spettrali con 1a sua mano d’automa.
La tua spensieratezza era un insulto per me.
Negando la natura che mi condannò dall’inizio,
tu non volevi intendermi! Per salvare
l’unica tua felicità e gratitudine
sbandieravi le tue fandonie come amuleti.
Quando gli spiriti della strage mi atterravano con un urlo
tu mi carezzavi caduto dicendomi che non era niente.
Quando i miei occhi consapevoli pieni di paura
ti chiedevano aiuto, tu me li baciavi ridendo.
Tu mi distraevi dall’insonnia con le tue favole
e ascoltavi come fiabe le profezie disperate
dei miei sogni. Mi promettevi che sarei stato
un re sulla terra, mentre la terra mi scacciava.
Io però lo sapevo d’essere un bandito accerchiato.
Per andarmene vincente dal gioco, alla faccia del boia,
non avevo che un’altra violenza: mia, precoce,
libera con l’ultimo evviva! e tu me la contendevi.
Cosí, per l’avarizia della tua felicità,
mi consegnavi all’ottusa polizia della strage
per la normale procedura degradante:
il carcere, la bruttezza, il decadimento.
E poi, forse, brutto, rovinato, mi avresti scacciato anche tu
Sei troppo infantile! e matta! Ti conosco!
Ti ho sempre conosciuto. Per questo ti sorrido
e sono venuto a salutarti. Tu sei tutto il mio cuore.
Anche se sono un miraggio
non aver paura del giorno che mi ti rubi.
Stanotte, fra poco, tu pure sarai fatta miraggio.
Non ha piú tempo di sorprenderti, il giorno.
Anche se mi chiamo delirio,
riposati in questo sorriso della mia buona notte.
So1o in quest’ultimo punto hai potuto ancora [incontrarmi.
Questo è il nostro addio».
La ladra delle notti è una demente maniaca
che nasconde ogni suo furto sempre in un’altra buca.
Non si dà uscita mai da quelle segregazioni.
Non c’è corridoio né corte per quei reclusori sterminati.
Nessuna parete comune fra una cella e l’altra.
Alla distanza fantastica che le divide
non c’è misura. Nessun messaggio è possibile.
Senza usci le stanze: né finestre, né bocche di lupo.
Niente posta né alfabeti né telefoni né cifrari.
Nessun valico per i passi attaverso quelle dune
rovinose e fameliche. Nessun luogo d’acqua per le navi.
Nessun luogo d’aria per le voci.
Ma quando la memoria è masticata dalle sabbie
anche la pulsazione del dolore è roncata.
Cosí sia.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).