Ablativo

da | Mar 4, 2014

Quinta stazione dell’esperienza poetica di Enrico Testa, Ablativo (Einaudi, 2013) inaugura una nuova stagione nell’opera in versi dell’autore. Sebbene lo spettro tematico, l’intelaiatura strutturale e il bagaglio lessicale di Ablativo manifestino evidenti elementi di continuità rispetto alle precedenti raccolte, lo statuto del soggetto all’interno delle undici sezioni di questo libro presenta un significativo elemento di rottura con la filosofia della storia ricercata da Testa nelle sue opere precedenti, In controtempo (Einaudi, 1994), La sostituzione (Einaudi, 2001) e Pasqua di neve (Einaudi, 2008): infatti, dopo aver esperito il fallimento dell’epifania rivelatrice in Pasqua di neve, dove il soggetto si era ritrovato da solo, tra «sconosciuti», in un «misero branco di sperduti» (p. 126) di chiara memoria montaliana, l’io ha definitivamente perduto la propria specificità ontologica, metamorfizzandosi in un’entità testuale, un enunciato semiotico scevro degli orizzonti epistemologici del caso nominativo.

Seguendo questa linea, Testa ha deciso di declinare il proprio (s)oggetto all’ablativo, la cui molteplicità semantica ha permesso all’autore di superare i limiti conoscitivi dell’io conoscente, aprendosi così alla proteiforme e sintetico-sincretica dimensione del caso latino:

la litania dei casi recitata al ginnasio
s’è fatta prognosi postuma dei giorni:
se tutto sommato poco frequentati
– anche consapevolmente, lo ammetto –
i primi due,
tra dativo e accusativo invece
s’è consumato il maggior tempo.
Seguiti dal vocativo
per veglie albe notti,
preghiere a volti muti, ascolti
sempre in duplice tensione:
rivolto altrove e ad altri
o nell’attesa di una chiamata.
Ora vivo all’ablativo

Testo e peritesto si fondono in un unico movimento armonico in questa poesia, che compare sia nel peritesto editoriale (la copertina), sia nella nona sezione del libro, Grammatica (p. 87). L’ablativo, del resto, rispetto alla rigidità sintattica del nominativo, del genitivo, del dativo, dell’accusativo e del vocativo, che il poeta dichiara, con sottile ironia caproniana, di aver frequentato saltuariamente, dispone di una libertà, di una pluralità semantica tale da poter uscire dai nodi macrotestuali del libro di poesia, esprimendo così quei valori di allontanamento e distacco, di moto e luogo, di assenza e presenza, che l’io ha finalmente (ri)scoperto ripercorrendo le tappe della propria vita e affrontando i nuovi confini spazio-temporali di cui l’ablativo è e può essere partecipe. In altre parole, attraverso la funzione strumentale e comitativa del caso latino, Testa attua una vera e propria palingenesi ablativa dell’io, piegata alla riflessione (di matrice lévinasiana) dell’essere intorno all’esserci e del sé nell’altro.

Un altro manifesto di questa nuova postura dell’io è data dalla traduzione della poesia The Mower di Philip Larkin:

La falciatrice si bloccò, due volte; in ginocchio trovai
un porcospino imprigionato tra le lame,
ucciso. Era vissuto nell’erba alta del prato.

L’avevo già visto e nutrito pure, una volta.
Adesso avevo distrutto il suo mondo discreto.
Senza rimedio. Seppellirlo non mi fu di nessun aiuto:

al mattino io mi risvegliai e lui no.
Il primo giorno dopo una morte, la nuova assenza
resta sempre lì – uguale;

dovremmo essere l’uno dell’altro attento
e gentili anche, finché c’è un po’ di tempo.

Non si può certo non notare come l’esperienza e il presentimento della morte, e con essa il dialogo (spezzato) con i defunti, costituiscano uno dei motivi maggiormente indagati dalla poesia di Testa; così come la presenza di Larkin, che i lettori di Pasqua di neve avevano già incontrato nella sezione eponima Canzone dell’alba (p. 53). Tuttavia, per quanto questa traduzione, o meglio, questa riscrittura poetica rafforzi il legame intertestuale e tematico, e quindi la continuità, tra Ablativo e Pasqua di neve, questo testo si fa portavoce della poetica ablativa. Nell’introduzione alla traduzione di High Windows, Testa, commentando La falciatrice, affermava che il soggetto dovesse porsi «in una sorta di figura intermedia tra l’io lirico e la sua cancellazione» (p. X), senza perdere né il proprio rapporto con il reale né il principio di responsabilità dei suoi confronti. Dieci anni dopo, questo meccanismo poetico, questo atteggiamento esistenziale di un io franto, scisso tra la necessità etico-morale dell’esserci e la progressiva de-costruzione della propria οὐσία, ha preso le forme semiotico-conoscitive del caso ablativo. Una conferma di questa lettura è data dalla posizione che la traduzione di Larkin occupa all’interno del libro, giacché essa precede la sezione Grammatica, e con essa la «litania dei casi recitata al ginnasio».

La poesia ablativa, però, non è mai negativa, bensì dialettica. Accanto al polo della discontinuità, che si manifesta nella sua interezza lungo il piano epistemologico dell’io, Testa preserva alcuni temi fondanti la propria poetica, tra cui il dialogo con i morti e tra i morti, e la loro persistenza nel mondo dei vivi. La ripresa di questo motivo, tuttavia, va letto secondo la luce crepuscolare dell’ablativo, dell’io che si fa non-io, quale figura assente che ricerca nell’altro, nelle ombre, nella loro conoscenza delle cose perdute, il significato della realtà:

quando, a sera, dopo cena raccolgo
dal tavolo i nostri tovaglioli
e li scuoto e piano li piego
e poi li dispongo, in simmetria scalare
e in un ordine segreto sempre uguale,
dentro il cassetto,
obbedisco ai principî di una geometria ancestrale.
Discretamente sorvegliato dai miei lari
eseguo una visibile partizione degli affetti:
compio un rito muto di gesti persi
che vale più di quel che sembra
sospeso com’è tra età e tempi diversi

La sezione che ospita questa poesia s’intitola Viaggio dell’ombra, dove la parola “viaggio” è volta a sottolineare la funzione ermeneutica che i non-vivi e la loro (pascoliana) eredità rivestono nel mondo ablativo dell’io. Le epifanie testuali di Ablativo riprendono questo paradigma interpretativo in uno spazio che fonde la sfera onirica con quella reale. Il confine tra vita e morte è investito così dalla nebulosità semantico-sintattica del caso ablativo, che rompe la catena della necessità del tempo e dello spazio (oramai sciolti dai vincoli di apriorità kantiana), rendendo l’uomo «la parte viva dei morti» (p. 48). In questi termini, l’altro è inteso da Testa quale fondamento dell’etica ablativa di cui il non-io si fa portatore.

Parallelamente alla dimensione interiore del viaggio, che trova la propria forma nell’incessante dialogo tra i custodi della traccia del passato e i superstiti del presente, Testa esplora altresì quella esteriore, i cui riferimenti spaziali, in Ablativo, sono i Balcani e il Sudamerica. La natura del viaggio, però, prosegue la filosofia del non-essere del non-io: come il sogno e la memoria agiscono lungo l’orizzonte dell’altro e per l’altro, così il viaggio, che permette al (s)oggetto di esperire la propria misura ablativa di alterità, in quanto crogiolo di molteplicità linguistiche, semantiche e sintattiche. La terra di Orfeo e le lande sudamericane svolgono allora una funzione di passaggio, quel passaggio epifanico agognato dal poeta in Pasqua di neve e che ora può finalmente manifestarsi, a livello esistenziale e cognitivo, nella perdita e nella riscoperta dell’io in questi territori remoti e dimenticati:

nei primi giorni dopo il ritorno
si vive spaesati e confusi
nell’eco di una lingua strana:
voci lontane e familiari
svanenti richiami di strada
agguati di silenzio.
Ancora per un attimo nel riflesso
dei volti dignitosi e malinconici
avuti in ostaggio e in dono
durante il viaggio
si vaga ripetendo sull’asfalto
il ritmo lento dei passi faticosi
sulla polvere dell’altopiano
finché esitante sulle strisce
l’autista del 35 non mi maledice

Il ritorno del poeta a Genova, dove lo spazio e il tempo seguono il ritmo del mondo occidentale, è segnato, da una parte, dallo sconforto, dalla perdita della dimensione attimale dell’esistenza: il dono ricevuto dai «volti dignitosi e malinconici» (p. 103) del Sudamerica e della Tracia è precario, destinato a sfilarsi nell’incessante e nell’imperterrita trama dell’io egologico. Tuttavia, l’attraversamento dell’altro e l’alterità epifanica sperimentata da Testa fanno sì che la natura ipertrofica del soggetto conoscente possa essere depotenziata e riportata al (positivo) grado zero dell’essere, in modo tale che l’uno si possa (ri)scoprire molteplice, quale mosaico di tessere ablative che potenziano e allargano le facoltà conoscitive ed esistenziali dell’uomo.

La rivoluzione ablativa tocca un altro grande tema del libro, cioè, il ruolo (o la sopravvivenza) della poesia nel ventunesimo secolo:

A Edoardo Sanguineti

ci separano gli anni, la fine delle ideologie
e la vischiosa ideologia di questa fine
e ora le robinie in fiore nel parco
dell’ex manicomio di Quarto.
Dei nostri incontri e delle poche parole
(sempre cortesi e attente)
che in quelle occasioni ci scambiammo
(qui in corso Europa e poi in via Balbi a Genova,
a Bologna, a Pontignano, a Pisa)
non molto mi resta
se non il desiderio di dirle,
sommesso replicando,
che nel mondo oggi
(che lei vedeva ormai condiviso e uguale)
in realtà ci sono poi di globale
solo la rete, le armi e i poveri
e che (il legame è oscuro ma c’è)
i versi, se vuoti di ogni albagia
e ridotti quasi a patiti patemi del pathos,
servono ancora.
A poco ma servono
anche se a chi e a che cosa non so

Anche per affrontare questioni di natura metapoetica, Testa si affida a un altro personaggio-ombra, Edoardo Sanguineti. Se, infatti, l’alterità costituisce il tema attorno al quale ha preso forma l’ablazione poetica, è la poesia che, in quanto sovrastruttura della storia, permette al non-io di dialogare con le ombre e recuperarne i sottili fili della memoria, allargando così l’esperienza conoscitiva della comunità degli uomini. Alla cifra nichilistica della poesia novecentesca, metonimicamente rappresentata da Sanguineti in Ablativo, Testa oppone una concezione positiva del linguaggio e della parola, le cui finalità etico-comunicative potrebbero promuovere una rinascita dei rapporti tra l’io e l’altro, secondo le modalità enunciative del caso ablativo. E sebbene il libro si chiuda all’insegna di un interrogativo categorico che sembra minare questa nuova scoperta dell’io («Nella pienezza della sua inutilità?», p. 116), la poesia, grazie alla sua propensione etica, può farsi ancora garante della comunicazione tra uomo e uomo anche «nel mondo d’oggi», dove dietro «la rete, le armi e i poveri» si intravvede, latamente, quel «legame oscuro» (p. 37), esistenziale e sociale, che potrebbe unire di nuovo le ombre e i vivi in un’unica (a)temporalità spaziale.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).