Esce oggi il numero di gennaio-aprile 2022 di “Nuovi Argomenti”, dedicato a diversi centenari e cinquantenari letterari che ricorrono quest’anno. La sezione ‘Poesia’ ospita un contributo di Maurizio Cucchi per Maria Luisa Spaziani (1922-2022) che pubblichiamo di seguito.
Ho conosciuto personalmente Maria Luisa Spaziani negli anni Ottanta, quando già ne avevo letto l’opera fino a Geometria del disordine e ovviamente ne avevo apprezzato l’eleganza esatta, impeccabile della scrittura. E, incontrandola, quel tratto di naturale eleganza mi era apparso ben presente nei suoi modi, nella signorile grazia del suo gentile rivolgersi a me, che pure ero poco più che un ragazzo, e che mi ero mosso sulla scia di esempi e maestri della sua generazione, ma diversi da lei e dalla idea di scrittura presente nei suoi versi. Ma a questo si veniva ad aggiungere, nell’affabile nobiltà dei suoi modi, la presenza di un’ironia insieme lieve e acuta, una vena di humour che mi aveva felicemente sorpreso. Ci siamo poi incontrati più spesso in seguito, e credo di aver trovato con lei un’intesa che andava oltre la differenza di età e, in fondo, le stesse predilezioni letterarie nel panorama del Novecento. Ricordo un incontro imprevisto nientemeno che a Marrakech, in un festival internazionale di poesia, credo nell’85, quando molto ci siamo divertiti tra città, suk e deserto, anche con Roberto Sanesi, nostro compagno di delegazione.
Ma quel che conta è che io ero comunque ammirato anche dalla sua profonda conoscenza della letteratura francese, da me sempre amata, e, tra l’altro si era verificata una coincidenza che mi aveva ancora di più avvicinato al suo profilo intellettuale e letterario. Nel 1990, infatti, usciva la sua Giovanna D’Arco, opera definita “romanzo popolare”, e che in effetti era un poema su quella formidabile figura, in sei canti di ottave con un epilogo. Sempre in quell’anno – pura combinazione, però felice – Jolanda Cappi, anima e attrice del teatro del Buratto di Milano, mi chiedeva un testo per la scena su Giovanna D’Arco. Non volevo però correre il rischio di confrontarmi con il testo Spaziani, autrice già a quel tempo considerata come un classico della nostra contemporaneità e così cercai di muovermi su un territorio di forma, tono e stile che mi fosse il più possibile congeniale e autonomo.
Ma è di Maria Luisa che qui è mio grato compito parlare, non certo di me e voglio subito ricordare anche il suo impegno per la promozione della nuova poesia, con l’istituzione meritoria del Centro Montale e poi con la creazione del premio, sempre nel nome del grande che l’aveva chiamata la “volpe”, di un premio per i poeti sotto i cinquant’anni, un premio di cui oggi si avverte la mancanza come un vero e proprio vuoto.
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Veniamo più direttamente, com’è opportuno, alla sua opera in versi, che dall’esordio del 1954 (Le acque del sabato) e il 1977, contava già cinque raccolte di rilievo, sempre accolte da importanti consensi della critica. Raccolte in cui si poteva leggere un cammino molto lineare, molto coerente, nel quale spiccava – e spicca ancor più oggi – la fisionomia particolare di un’autrice volutamente estranea alle linee anche più accreditate che con maggiore evidenza avevano tracciato la mappa dei gusti e delle poetiche del tempo. Maria Luisa Spaziani già si era venuta definendo per la sua identità originale ma vocazionalmente più legata all’esempio illustre dei maggiori poeti delle generazioni precedenti. E dunque senza quelle increspature o interruzioni anche nette e provocatorie di percorso della sua generazione, la “quarta” (secondo la formula introdotta dalla nota antologia di Piero Chiara e Luciano Erba del 1954 e nella quale era comunque compresa) o degli autori di poco più giovani che avrebbero poi condotto i termini più rilevanti della sperimentazione in corso, non solo ovviamente appartenenti alla neo-avanguardia. La sperimentazione agiva in quel periodo a tutto campo e in varie forme, mentre Spaziani si esprimeva, sempre fedele a se stessa (e lo sarebbe stata anche in seguito) e a un’idea della poesia tesa alla conservazione di un linguaggio e di un tono elevato, scandita attorno al verso base dell’endecasillabo, legata alla frequenza e all’efficacia di immagini nitide, luminose, dai precisi contorni. Ma, insieme a questo, cariche di misteriose suggestioni, realizzando, nelle varie fasi del suo lavoro poetico, testi che alla distanza acquisiscono sempre maggiore densità, spessore, conservando intatta la propria caratteristica di oggetti in sé compiuti, formalmente ineccepibili.
Penso a esempi notevoli di poesie come Canzonetta a Montmartre: «A morsi tenerissimi il tormento si insinua / come la ginestra nelle crepe di antichi baluardi. / (Le pale del mulino delle nebbie, / le sette al campanile di Gesù ). / sei passata di qui, Katherine cara / sei passata anche tu?». Nel Gong (1962), troviamo poi un verso di importanza quasi programmatica: «coglievo ombre fuggenti di bellezza», ed è una bellezza che Spaziani trova anche in qualcosa di molto vicino alle minuzie del reale, come, in Luna lombarda; «I letti sapevano di mèliga / l’acqua il mattino spezzava le mani». In Utilità della memoria (1966), ecco versi di un tono elevato che pure affondano nella viva dimensione dell’esserci: «Avranno i sensi freschi, morderanno / rabbrividendo nella polpa acerba / trasaliranno di delizia all’alba / se mai li sfiori un dito d’aria d’oro“. Ma i libri sono molti e a cadenze quasi regolari. Escono allora L’occhio del ciclone (1970) e Transito con catene (1977), prima di arrivare alla sintesi delle Poesie, edite in Oscar Mondadori, nel 1979 con introduzione di uno dei suoi più importanti e convinti estimatori, Luigi Baldacci, seguito da Geometria del disordine, 1981, opera tra le sue maggiori, che le valse il premio Viareggio, e da La stella del libero arbitrio (1986), fino, dopo un più lungo silenzio, a I fasti dell’ortica (1996).
Intanto le tematiche si aprivano, tra viaggi, memorie, sogni, ma sempre restava la singolare e impeccabile quadratura dei versi, della pronuncia, e dunque l’alta qualità letteraria, ed è un valore che oggi si impone, in tempi di qualunquismo stilistico, ancora più decisamente.
Riappare poi, nella plaquette Torri di vedetta, la figura di Eugenio Montale, mentre la poesia si muove, come in un sogno, in luoghi vari, dalla Liguria al Canavese, dalla Provenza a Parigi, in percorsi che, pur nel passaggio tra le cose, cercano una sorta di allontanamento protettivo che distoglie dalle cure e dalle angustie del quotidiano, facendo della stessa poesia una sorta di maschera, di abito, o un oggetto prezioso di riscatto. Ma è sempre più chiaro come Spaziani manifesti irrinunciabile una sua vena di concretezza, che è un carattere specifico della sua opera. Una concretezza che peraltro si fa lucente nella parola, nell’essere esatta e nitidamente incisa, il che consente all’autrice di fermare e a sigillare nella forma ad alta definizione, proprio ciò che dell’esperienza parrebbe più fluido e fuggevole. A volte facendo coesistere immagini e sentenze, nella consapevolezza che «basta un sasso, una sillaba, una banale / presenza per creare associazioni».
Su un altro piano del suo lavoro letterario, che comprende molte traduzioni e saggistica, con Donne in poesia (1992), fra dialogo teatrale e intervista immaginaria, o come dice l’autrice stessa, «parapsicologica», porta in scena poetesse, dall’Ottocento a tempi più recenti. Si tratta di figure così grandi da essere sempre straordinariamente attuali: come Emi1y Dickinson, Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Simone Weil. Introduce anche poetesse dimenticate, o quasi cancellate da molte storie letterarie, come Luisa Giaconi, nata nel 1870 e morta nel 1908, autrice di un unico libro, Tebaide, e apprezzata da Dino Campana. Ma un preciso merito, in questo testo, è proprio quello di non avere riprodotto vecchie distinzioni, sempre banali e pericolose, tra figure maggiori e minori, ma di aver colto nella dignità di ognuna un personale contributo alla poesia, pur con fortune diversissime. Lavorando sull’intreccio tra esistenza e opera, nella sofferenza o nel successo, nell’estrema varietà delle proposte, da Ada Negri o 1ngeborg Bachmann, da Merceline Desbordes-Valmore ad Antonia Pozzi, da Else Lasker Schüler o a Louise de Vilmorin,
Tornando alla sua poesia, il cammino si era poi venuto arricchendo di altri titoli, confermandone i tratti caratteristici, dove l’incanto anche in apparenza minimo dell’occasione si condensa nell’incanto della forma, controllata dalla raffinata consapevolezza, dal dono naturale della mano. Una forma che rapprende gli oggetti delle visioni quasi in simboli araldici o li propone in movimenti musicali. Eccoci allora a La traversata dell’oasi (2002) , canzoniere d’amore o diario lirico, con una felice mescolanza di stili che la conduce anche a soluzioni di un registro prosastico in cui esplora le varie espressioni del sentimento.
Progressivamente si accentua il tratto ironico, con trasparenze di senso in un dire più colloquiale e affabile, in versi con memorabili aperture che dilatano la fisionomia della sua opera conservandone il consueto, perfetto aplomb stilistico. Seguiranno poi La luna è già alta Mondadori (2006) fino al postumo Pallottoliere celeste (2019) dove ci arrivano, inattesi, i documenti lirici che attraversano, dopo una lunga esperienza dell’esserci, i momenti della memoria e dell’amore, la presenza di una città come Roma, realizzando i bilanci di una vita nello scorrere delle stagioni. Un messaggio estremo che viene ad aggiungersi all’imprescindibile volume di Tutte le poesie, che era uscito nel 2012 nei Meridiani Mondadori a cura di un critico come Paolo Lagazzi e di un poeta tra i più solidi di questi decenni come Giancarlo Pontiggia.