L’uomo solo – che è stato in prigione – ritorna in prigione.
ogni volta che morde in un pezzo di pane.
In prigione sognava le lepri che fuggono
sul terriccio invernale. Nella nebbia d’inverno
l’uomo vive tra muri di strade, bevendo
acqua fredda e morendo in un pezzo di pane.
Uno crede che dopo rinasca la vita,
che il respiro si calmi, che ritorni l’inverno
con l’odore del vino nella calda osteria,
e il buon fuoco, la stalla, e le cene. Uno crede,
fin che è dentro uno crede. Si esce fuori una sera,
e le lepri le han prese e le mangiano al caldo
gli altri, allegri. Bisogna guardarli dai vetri.
L’uomo solo osa entrare per bere un bicchiere
quando proprio si gela, e contempla il suo vino:
il colore fumoso, il sapore pesante.
Morde il pezzo di pane, che sapeva di lepre
in prigione, ma adesso non sa più di pane
né di nulla. E anche il vino non sa che di nebbia.
L’uomo solo ripensa a quei campi, contento
di saperli già arati. Nella sala deserta
sottovoce, si prova a cantare. Rivede
lungo l’argine il ciuffo di rovi spogliati
che in agosto fu verde. Dà un fischio alla cagna.
E compare la lepre e non hanno più freddo.
Cesare Pavese è nato a Santo Stefano Belbo nel 1908 ed è morto a Torino nel 1950. Ha svolto un ruolo essenziale nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura democratica del dopoguerra. La sua partecipazione al presente si è sempre legata a un profondo senso della contraddizione tra letteratura e impegno politico. I suoi inizi di poeta si hanno con Lavorare stanca (1936) che, nata in clima ermetico-decadente, tende a superarne l'ossessivo soggettivismo mediante la proiezione oggettiva di quelli che sono e più saranno i temi di fondo di Pavese: la ricerca di contatti umani, di incontri con la realtà quotidiana, di reimmersione nel mondo rurale da cui proviene, a difesa dalla meccanicità della vita cittadina, dalla solitudine interiore e dal congiunto pensiero della morte. Oggettivazione che, dal giro largo del verso (sull'esempio, appunto, di Whitman) alla discorsività del tono, già porta alla narrativa: e la sua opera successiva è infatti di narrazioni brevi o lunghe (non di romanzi propriamente detti) improntate a un realismo che, se risente della lezione verghiana, e più di quella letteratura nord-americana di cui frattanto Pavese si era fatto traduttore e introduttore (con Vittorini) in Italia, ha però profonde radici in quel suo amore di piemontese per la propria terra, per il linguaggio della sua gente, specie a livello contadino o operaio, da cui egli mutua vocaboli e cadenze per il frequente, agile «parlato» dei suoi racconti. Un realismo che peraltro non va disgiunto da una schietta vena di lirismo, scaturente da una memoria che, facendo centro sull'infanzia, s'innalza all'assoluto, al mito o sfocia nel simbolo; onde la sua narrativa, dopo un primo, violento balzo (quasi in polemica con la letteratura tradizionale) nel verismo più crudo, all'americana (Paesi tuoi, 1941), si svolgerà nell'alternativa di questi modi, da La spiaggia (1942) a Feria d'agosto (1946), da Il compagno (1947) e Dialoghi con Leucò (1947) a La luna e i falò (1950), da Notte di festa (post., 1953) a Festa grande (in coll. con Bianca Garufi, post. e incompiuto, 1959) a Ciau Masino (post., 1968). Non senza, certamente, squilibri e smagliature, ma molto spesso con intensità d'ispirazione e d'espressione, toccando i vertici artisticamente più alti là dove, con la mediazione di un paesaggio che è trepido contrappunto di senso (o natura) e sentimento, quei modi finiscono col convergere e compenetrarsi: come in Prima che il gallo canti (1949) e La bella estate (1949). Per dare tuttavia luogo, alla fine, quando vicende intime rafforzeranno, senza scampo, il pessimismo e la vocazione suicida di Pavese, di nuovo alla poesia: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (post., 1951); ma questa volta lontana dalla prosasticità di Lavorare stanca, per quanto è vicina alla lirica «pura», anzi alla pura liricità. Testimonianza importante non pure del suo travaglio intellettuale e morale, ma di quello di tutta una generazione e un'età, sono anche gli scritti critici di Pavese (La letteratura americana e altri saggi, post., 1951), il diario (Il mestiere di vivere, post., 1952), e soprattutto l'epistolario (Lettere, 2 voll., 1966: I, 1924-1944, a cura di L. Mondo; II, 1945-1950, a cura di Italo Calvino). La sua opera, pubblicata dall'editore Einaudi, è ora raccolta in 14 volumi.