Sarà un cielo chiaro.
S’apriranno le strade
sul colle di pini e di pietra.
Il tumulto delle strade
non muterà quell’aria ferma.
I fiori spruzzati
di colori alle fontane
occhieggeranno come donne
divertite. Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
S’aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l’acqua nelle fontane –
sarà questa la voce
che salirà le tue scale.
Le finestre sapranno
l’odore della pietra e dell’aria
mattutina. S’aprirà una porta.
Il tumulto delle strade
sarà il tumulto del cuore
nella luce smarrita.
Sarai tu – ferma e chiara.
Cesare Pavese è nato a Santo Stefano Belbo nel 1908 ed è morto a Torino nel 1950. Ha svolto un ruolo essenziale nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura democratica del dopoguerra. La sua partecipazione al presente si è sempre legata a un profondo senso della contraddizione tra letteratura e impegno politico. I suoi inizi di poeta si hanno con Lavorare stanca (1936) che, nata in clima ermetico-decadente, tende a superarne l'ossessivo soggettivismo mediante la proiezione oggettiva di quelli che sono e più saranno i temi di fondo di Pavese: la ricerca di contatti umani, di incontri con la realtà quotidiana, di reimmersione nel mondo rurale da cui proviene, a difesa dalla meccanicità della vita cittadina, dalla solitudine interiore e dal congiunto pensiero della morte. Oggettivazione che, dal giro largo del verso (sull'esempio, appunto, di Whitman) alla discorsività del tono, già porta alla narrativa: e la sua opera successiva è infatti di narrazioni brevi o lunghe (non di romanzi propriamente detti) improntate a un realismo che, se risente della lezione verghiana, e più di quella letteratura nord-americana di cui frattanto Pavese si era fatto traduttore e introduttore (con Vittorini) in Italia, ha però profonde radici in quel suo amore di piemontese per la propria terra, per il linguaggio della sua gente, specie a livello contadino o operaio, da cui egli mutua vocaboli e cadenze per il frequente, agile «parlato» dei suoi racconti. Un realismo che peraltro non va disgiunto da una schietta vena di lirismo, scaturente da una memoria che, facendo centro sull'infanzia, s'innalza all'assoluto, al mito o sfocia nel simbolo; onde la sua narrativa, dopo un primo, violento balzo (quasi in polemica con la letteratura tradizionale) nel verismo più crudo, all'americana (Paesi tuoi, 1941), si svolgerà nell'alternativa di questi modi, da La spiaggia (1942) a Feria d'agosto (1946), da Il compagno (1947) e Dialoghi con Leucò (1947) a La luna e i falò (1950), da Notte di festa (post., 1953) a Festa grande (in coll. con Bianca Garufi, post. e incompiuto, 1959) a Ciau Masino (post., 1968). Non senza, certamente, squilibri e smagliature, ma molto spesso con intensità d'ispirazione e d'espressione, toccando i vertici artisticamente più alti là dove, con la mediazione di un paesaggio che è trepido contrappunto di senso (o natura) e sentimento, quei modi finiscono col convergere e compenetrarsi: come in Prima che il gallo canti (1949) e La bella estate (1949). Per dare tuttavia luogo, alla fine, quando vicende intime rafforzeranno, senza scampo, il pessimismo e la vocazione suicida di Pavese, di nuovo alla poesia: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (post., 1951); ma questa volta lontana dalla prosasticità di Lavorare stanca, per quanto è vicina alla lirica «pura», anzi alla pura liricità. Testimonianza importante non pure del suo travaglio intellettuale e morale, ma di quello di tutta una generazione e un'età, sono anche gli scritti critici di Pavese (La letteratura americana e altri saggi, post., 1951), il diario (Il mestiere di vivere, post., 1952), e soprattutto l'epistolario (Lettere, 2 voll., 1966: I, 1924-1944, a cura di L. Mondo; II, 1945-1950, a cura di Italo Calvino). La sua opera, pubblicata dall'editore Einaudi, è ora raccolta in 14 volumi.