Il racconto di Mauro Maraschi, “Più grande il rovescio”, preceduto da un dialogo con l’autore.
Francesco Longo: Da questo racconto si vede che hai una certa consapevolezza sulla scrittura. Hai già scritto altri testi? Ti confronti con altre persone che scrivono? Hai fatto corsi di scrittura?
Mauro Maraschi: Per lavoro ho a che fare con scrittori maturi, esordienti o aspiranti tali, e da ognuno imparo qualcosa. Il confronto è basilare finché non si è affinata una cifra personale: a quel punto si è pronti per ricominciare da capo, se non si vuole scivolare nel manierismo. Detto questo, trovo più edificante leggere che scrivere.
FL: Le cose che mi hanno colpito del tuo racconto sono: il montaggio della storia che dà ritmo, il fatto che in poche pagine i personaggi cambino molto e che tu sia molto vigile nel controllare le parole. Ti dirò, per me un grande pregio è che usi termini precisi come in questo caso: “dopo mezzora, però, il percorso si fa ripetitivo, una sequenza di lecci, agrifogli, e libellule”. Ci sono degli scrittori noti, pubblicati da grandi editori, in cui a volte trovo scritto “alberi”, parola che non fa vedere nulla al lettore. Ho molto apprezzato i tuoi “lecci”. Quali sono gli scrittori che leggi di più? Dall’equilibrio tra le parti di questa storia mi sono chiesto, leggendo, se avessi una particolare passione per i racconti, è così?
MM: Tempo fa mi sono imbattuto in test secondo il quale uno scrittore, per considerarsi tale, deve sapere qual è il nome del primo albero che vede fuori dalla finestra. Si trattava di un gioco, ovviamente, perché non è il lessico a fare uno scrittore. Anch’io ammiro gli autori che dominano il linguaggio, ma se è vero che con “albero” non mostro nulla di specifico, è anche possibile che la parola “leccio”, laddove sia poco familiare, distragga il lettore dalla narrazione. È una questione di registri: finché il narratore è esterno tutto è concesso, ma l’uso della prima persona può costringere ad usare “albero” piuttosto che “leccio”, se non si vuole di snaturare il personaggio. Io, ad esempio, storco il naso il 90% delle volte che incontro la parola “rebbi”. Nel mio caso non posso giurare che “leccio” appartenga alla voce narrante, ma considero castrante l’uso rigoroso dei registri. Per quanto riguarda gli scrittori apprezzati ne nomino tre a caso: Bernhard, Čechov e Perec, il che non significa che siano i miei preferiti o che mi ispiri a loro. Mi piace molto la forma racconto, anche perché sottostà a leggi e dinamiche diverse da quelle del romanzo, forse più insidiose. In Italia è meno popolare del romanzo e dubito che il Nobel alla Murno cambierà le cose. Da noi, per assurdo, il racconto è una forma da lettore forte. Forse perché non sappiamo più scriverli, a parte Mari, sempre sia lodato. (Non è vero, consiglio anche Susani, Parrella, Clementi, Zardi, Meacci, Cognetti e l’irripetibile Galiazzo, e altri li sto dimenticando, mea culpa).
Più grande il rovescio
L’ho conosciuta che era una persona sana. Non beveva, non fumava, e ogni mattina andava a correre alla Caffarella. Col cibo, poi, Gaia era più che controllata: non mangiava mai fuori dai pasti, misurava grassi e calorie e pesava persino l’insalata. Io ammiravo la sua disciplina, e non mi importava che la mia ex moglie la riducesse a un banale disturbo del comportamento alimentare.
L’ho conosciuta all’Alphaville, in occasione di una retrospettiva su Godard. Ho spiato la sua postura castigata durante la rassegna su Haneke e abbiamo scambiato le prime parole sui titoli di coda di Una moglie di Cassavetes. Mi sono sorbito decine di capolavori prima che accettasse di uscire. Alla fine, una sera, ci siamo dati appuntamento per il mercoledì successivo, alle Officine Farneto, per una mostra intitolata Body Worlds, un centinaio di sculture ricavate da cadaveri umani: sembrava interessante.
Prima del divorzio amavo Ridley Scott; le commedie americane sagaci, tipo Tutti pazzi per Mary, ma anche i classici con Dan Aykroyd e Steve Martin. Mi consideravo un cinefilo. Anche Monica si considerava una cinefila, solo che lei preferiva il cinema europeo, i campi lunghi e i tempi rarefatti. Sarebbe riduttivo sostenere che ad allontanarci sia stato il duello settimanale davanti al lettore dvd, però ha contribuito. Quando ci siamo congedati – lei sulla soglia del nostro appartamento, io in tasca le chiavi di un monolocale – mi sono sentito inferiore. Qualche giorno dopo ho cominciato a scaricare Tarkovskij e Sokurov, Pasolini e Rossellini, il cinema coreano e quello danese, e ovviamente Bergman. In uno slancio masochistico mi sono persino fatto la tessera dell’Alphaville: cercavo in quelle pellicole ciò che non avevo capito di Monica, ma ho trovato solo la conferma che ci si sposa per imitazione.
Della mostra intitolata Body Worlds, alla fine, ne vedo solo una piccola parte, prima che Gaia scappi fuori in preda a una crisi. La ritrovo accartocciata sotto un cipresso. Singhiozza e se tento di avvicinarmi urla. Ci vuole mezzora perché si calmi e si decida a tornare in centro. Arrivati in Via Nazionale ci sediamo su una panchina a sorseggiare un caffè americano, perché per lei è inaccettabile pagare il servizio al tavolo.
Mi spiega che la prima parte della mostra, quella con i cadaveri esposti normalmente, con le didascalie di rito, le era piaciuta. La seconda, nella quale i corpi sono sezionati secondo traiettorie grottesche, denigratorie, quella parte lì l’ha trovata angosciante. Ma è stata la sequenza dei feti imbalsamati, da poche settimane fino al terzo mese, a scatenarle il vomito. Dice che questo artista è un pervertito, che non ha rispetto per la morte, che è contenta che gli sia venuto il Parkinson, e che lei alla mostra ci voleva andare per sfidare certe paure infantili, non per generarne di nuove. Dice queste e tante altre cose. Poi, quando tocca a me parlare, la vedo saltare su un autobus senza nemmeno salutarmi. Nel tragitto verso casa, in un kebabbaro, compro e divoro il solito surrogato emotivo.
L’avvocato ha fatto lievitare gli alimenti da cinquecento a mille, così, con leggerezza, come se parlassimo ancora di lire. Inizialmente Monica si accontentava del minimo, ma scommetto che è stata quella troia di Katya a suggerirle di spolparmi. Adesso, con la scusa che Viola va per i tre anni, che deve cambiarle il guardaroba e che ha un’indole artistica, Monica intasca due stipendi. Se la conosco almeno un po’, uno lo gira a un amante. Prosit.
Ho provato con la pizza, il sushi e l’indiano, con le trattorie e con Mc Donald’s, ma niente. Alla fine è stata Gaia a invitarmi a cena, in un ristorante simbiotico. Non ci sarei mai finito se non fosse stato per lei. Non sapevo nemmeno capito di cosa si trattasse, e pensavo che fossero cari, di quel caro fasullo, roba da interior designer o da articoliste di Glamour. E invece un pasto completo costa otto euro e per gli studenti c’è pure il ridotto. Alla base di questa dieta c’è il riso integrale, accompagnato da verdure di stagione, il tutto cotto in acqua oligominerale. Al posto del sale si usa il tamari ed è bandito qualsiasi latticino. Insomma, per quanto sia ovvio che il riso integrale è più digeribile di una carbonara, in generale i dettami della simbiotica mi risultano ragionevoli, non scientifici, ma ragionevoli.
«Quella che tu chiami scienza è la medicina occidentale» puntualizza Gaia.
«È l’unica che conosco, Gaia».
«E fai male. Perché sottovaluti che l’Occidente è accecato dal profitto, e che ovviamente lo antepone alla morale. Ma questo in Occidente può succedere solo perché abbiamo una morale debole, di stampo cattolico, inventata a tavolino come strumento di soggiogamento dei popoli. Ma in Oriente è diverso, la loro morale è vitalistica e olistica, loro preferiscono accettare la morte che accanirsi farmacologicamente, perché è l’unico modo di rispettare le leggi della natura, e di essere in armonia con il cosmo – e con se stessi. Capisci cosa intendo?»
«Quindi secondo te questa è la cultura orientale».
«Non relativizzare quello che dico, è un modo meschino di abbassarmi al tuo livello».
«Non ho capito. Che cos’è che ho relativizzato?»
«Niente. Andiamo via».
Dopo quella cena ho aspettato che mi ricontattasse lei. Purtroppo è successo proprio oggi, e ho dovuto declinare. Così, per la prima volta, mentre prendo in braccio Viola, preferirei essere altrove. Ma la bimba sta di nuovo male e devo portarla dal pediatra. È da un anno che va avanti così: ha la febbre ogni due settimane, non dorme, vomita, e a periodi fa delle puzze pestilenziali. Oggi, poi, è proprio pallida. Monica mi guarda in modo diverso, ha i capelli sciolti, forse per coprire un succhiotto.
Dopo la visita, come premio, porto la bimba a vedere Ribelle. Nella scena finale c’è un combattimento tra orsi piuttosto violento, mi sento in colpa e ho paura che pianga. E invece Viola si diverte un mondo. L’ultimo cartone che avevo visto era stato Monsters & Co: da allora il mondo digitale ha fatto passi da gigante e io ancora non so usare uno smart-phone. All’improvviso penso a papà, al modo in cui scriveva al computer, usando solo l’indice, e mi scappa una lacrima. Viola mi guarda e mi dice Tranquillo, papà, ha vinto l’orso buono.
Ci sono voluti mesi perché Gaia accettasse di fermarsi da me, a patto che io dormissi sul divano. E ce ne sono voluti altrettanti per verificare che dietro la sua riservatezza ribolliva la passione. È stato da quel momento che ha cominciato a friggere tutto.
Il primo passo è stata la tempura. Gaia dice che la fanno anche al simbiotico, per cui, secondo lei, per proprietà transitiva, dev’essere leggera anche se è fritta. Poi un giorno è finita la farina, e Gaia si è trovata costretta a passarle nell’uovo, le verdure. Poi ha cominciato a friggere le patate, anche se in simbiotica sono proibite. Quindi è passata alle cotolette, ai supplì e alla porchetta, pur essendo vegetariana. In un mese ha messo su cinque chili, finché a me, disgraziatamente, non è scappata una battuta.
«Tu credi di essere perfetto?» ha contrattaccato. «Da quant’è che non fai sport? Credi di essere in forma? Tu non hai le maniglie dell’amore, hai i corrimano della paura, lo sai? E quelle tette? Con quale coraggio li chiami pettorali? Guarda, se insegui gli ideali estetici della pubblicità, caro mio, allora cercatene un’altra».
Da quel momento ho evitato qualsiasi osservazione maschilista. L’ingozzamento di Gaia ha subìto un rallentamento, ma mantiene modalità suine. A volte immagino di tornare a casa e di trovarla tre volte più larga, di quell’obesità da disfunzione ormonale, con la pappagorgia, i polsi strozzati e la fica ostruita dal lardo. Poi la guardo meglio, e sì, è vagamente più robusta, ma ci sono donne che pagherebbero per avere il suo corpo.
Non passa un giorno senza che Gaia torni a casa incazzata. Qualcuno riesce puntualmente a darle noia: o l’edicolante è stato scortese, o l’autista guidava male, o un vecchio se l’è lumata al bar; e poi i colleghi universitari che sono dei borghesucci perditempo, i professori che la vessano e la gente della metro che parla solo di reality, cibo e pettegolezzi, nessuno che abbia un minimo di coscienza civile, sociale o ecologica, nessuno che parli di ciò che interessa a lei: il benessere del mondo.
Anche qui, una volta, mi è scappato di obiettare che per fare bene al mondo bisognerebbe amarlo, il mondo, e che il mondo è fatto da tutte quelle persone che Gaia odia, e che quindi è un po’ un controsenso, il suo.
Lei ha risposto che non gliene frega un cazzo della gente, a lei, e che vuole fare bene al mondo unicamente per stare meglio con se stessa, ponendosi però un obiettivo alto, nobile, idealistico, proporzionato al suo ego. Poi ha sbattuto la porta della cucina e s’è chiusa dentro a friggere, come ogni volta che torna a casa nervosa, ovvero sempre.
Sono da Mc Donald’s con mia figlia. All’improvviso ho una visione: il ricordo di Super Size Me intrecciato a un film di Fassbinder, scene cruente di macellazione, sangue, morte. Guardo Viola e mi rendo conto che sta per addentare veleno, che per farla contenta con l’ennesimo Happy Meal la sto lentamente uccidendo.
Do uno schiaffo al suo cheeseburger e quello fa un volo, si scompagina e atterra su un altro tavolo. Diversi clienti si alzano in piedi inorriditi, gettano via i panini, si guardano le mani. Viola non piange, non dice nulla: si fida di me e sa che dietro il mio gesto deve esserci un motivo. La porto a casa e le preparo del riso integrale con verza e carote. Lei dice che è “delizioso”.
Il giorno dopo vorrei raccontare a Gaia quest’episodio, dirle che mi sto destando dal torpore occidentale, che sto maturando una coscienza, ma quando torno a casa la trovo aggrappata a un Big Mac, e sono solo le sette. Mi implora di fermarla.
Le tolgo quella porcheria dalle mani e la butto nell’immondizia. A quel punto Gaia mi supplica di fare qualcosa insieme, qualcosa che non siano cinema, ristoranti o locali, niente di consumistico insomma, qualcosa di verde, dice, all’aria aperta. Ci penso un po’, poi le prometto che faremo una gita al Lago di Albano.
Oggi pomeriggio mi ha telefonato Monica. Era una iena. Dice che la bimba rifiuta pasta e carne. Dice che chiede riso integrale. È mai possibile – urla – che una bambina di tre anni si metta a fare la fighetta sul cibo? Che cazzo le hai messo in testa?
Le rispondo che forse Viola è in grado di riconoscere i cibi che sono all’origine dei suoi disturbi intestinali. In fondo pranza con me una volta a settimana, non la sto certo sottoponendo a un regime. E poi anch’io da quando mangio simbiotico mi sento meglio, vado di corpo che è un piacere, e sono anche dimagrito.
A questa osservazione segue una bestemmia. Quindi il consiglio di cercare su Internet, dove troverò parecchie testimonianze di gente che si è ammalata a furia di mangiare quella roba, gente che addirittura c’è morta. Senza carne e latte, dice Monica, una bimba non può crescere sana. Se vuoi diventare anemico sono cazzi tuoi, dice, ma lascia stare mia figlia o non la vedi più.
Detto questo riaggancia. Un minuto dopo sono sul web, ma delle testimonianze di cui parla Monica non c’è traccia.
Nel fine settimana porto Gaia a Castel Gandolfo. Scendiamo all’imbarcadero e prendiamo il sentiero che costeggia il lago. Il sito è grandioso, un’immensa ciambella verde di silenzio luccicante, abbracciata da una volta turchina e tersa.
Ci incamminiamo a polmoni aperti, sprizzando serenità. Dopo mezz’ora, però, il percorso si fa ripetitivo, una sequenza di lecci, agrifogli e libellule. Il sentiero si strozza e impolvera. Più ci addentriamo e più Gaia diventa ansiosa: dice che un posto come questo è l’ideale per un agguato. Un agguato di chi? vorrei chiederle, ma evito.
Attratti dal borbottio di un didgeridoo ci affacciamo oltre la sterpaglia e scorgiamo un rasta, nudo, seduto su una rupe, e una ninfetta, nuda anche lei, che sguazza nel verde lacustre. Ci allontaniamo di fretta. Gaia che accelera il passo.
Ci imbattiamo in un’altra alcova, stavolta disabitata, un cumulo di massi ai piedi di una scarpata, che Gaia insiste per raggiungere. Ci stendiamo al sole. Le propongo un tuffo e scopro che non sa nuotare. La osservo bagnarsi i piedi, senza dire niente, per timore che qualsiasi intervento possa inficiare questa parentesi di calma. Poi lei dice che è meglio non strafare, col sole, perché i nei sono potenziali tumori.
Ci inerpichiamo verso l’alto, aggrappandoci alle radici, per riguadagnare il sentiero. Le propongo di tornare indietro, ma lei vuole completare il perimetro del lago. Ci mettiamo altre due ore, nelle quali non scambiamo una parola. Lei mi cammina davanti e quando provo a raggiungerla accelera. Quando sentiamo gli schiamazzi di alcuni albanesi, intenti a fare prodezze su un gommone con fuoribordo, si mette quasi a correre.
Il sentiero è ora costeggiato di bottiglie bruciate, sacchetti dell’immondizia, fazzoletti e preservativi secchi: c’è un fetore acre, di panni sporchi. Gaia corre, faccio fatica a starle dietro. Poi, finalmente fuori dalla boscaglia, catapultati in un’area urbana con chioschi e turisti, si siede alla prima panchina e tira fuori un tupperware dallo zaino: sono panini imbottiti con cotoletta, patatine fritte e melanzane, agglutinati da maionese rappresa. Al che mi incazzo.
«E porca puttana, Gaia! Non esistono solo yin e yang, ci sono infinite gradazioni di grigio tra i due estremi. E che cazzo!»
«Stai parlando dei panini?»
«Sto parlando di tutto. Tu miri troppo in alto. Vuoi salvare il mondo, vuoi la dieta perfetta, vuoi essere eticamente irreprensibile. Ma chi cazzo ti credi di essere? Guarda che nessuno è perfetto, Gaia…»
«Che saggezza. Complimenti!»
«…non siamo fatti per essere coerenti, o per rispettare la legge, o le leggi naturali. Tendiamo a sbagliare, sempre e comunque, a trasgredire. A smentirci! Tu vuoi essere perfetta e non ci riesci, ma non è colpa tua – non puoi riuscirci, non sarebbe umano. Ma ogni volta che commetti un errore allora eccedi nella direzione opposta, per punirti, o per essere coerente nella tua incoerenza, vedi tu».
«Ma che cazzo stai dicendo? Lo vuoi o no, ‘sto panino?»
«Devi essere più indulgente, Gaia, devi essere più indulgente con te stessa e con gli altri. E soprattutto devi essere più indulgente con me, cazzo».
Gaia mi guarda stizzita e scaglia il mio panino oltre la siepe. Avrebbe potuto conservarlo nel tupperware ma no, ha preferito la sceneggiata. Addenta il suo, in silenzio, e quando arriva a metà mi offre di finirlo, tanto è enorme. E buonissimo.
Sono trascorsi sette mesi da quando la frequento e non ho più dubbi: è il momento di darci un taglio. Monica dice che sono un irresponsabile, che alla mia età me la faccio con le ragazzine taoiste. Ma Gaia non è taoista, non è nemmeno simbiotica, non è niente, Gaia è solo immatura, ingestibile, snervante. Una bambina irrisolta con un inestinguibile bisogno di attenzioni. Ma io una figlia ce l’ho già, e il peggio deve ancora venire.
Ho fissato la rottura a sabato, perché prima di allora sarebbe un incubo conciliare il lavoro con le recriminazioni di una ventiseienne lasciata. Devo solo fingere un altro paio di giorni, non darle a intendere che la sto per scaricare.
Venerdì, seguendo il consiglio di Monica, ho fatto qualche ricerca sulla simbiotica, per spingermi oltre i rudimenti appresi finora. Sono andato avanti fino alle quattro di notte. Ho capito che molta gente ammalata si affida a questa dieta perché delusa dalla medicina occidentale, non tanto dai risultati, quanto dall’assenza di umanità nel processo curativo. Il sistema ospedaliero è impietoso, tanto che molti occidentali, spesso i meno abbienti, preferiscono credere nell’autoguarigione, che poi è basata sull’effetto placebo, utilizzato anche da noi: se credi alla guarigione hai più possibilità di guarire, così come dal momento in cui ti diagnosticano un male incurabile rischi di identificarti con esso, di diventarne un’appendice, di scandire la tua intera esistenza con i ritmi della terapia, delle regressioni e delle recrudescenze, tralasciando così l’armonia del tutto. Gli orientali sono diversi, per loro il corpo non va curato localmente, non importa se hai una cisti, la leucemia linfoblastica acuta o la sclerosi multipla: per loro quando il corpo è malato è malato nell’insieme, e curarne una parte è inutile, se non si è prima ripristinato l’equilibrio generale. E, sempre secondo gli orientali, il primo passo per ristabilire questo equilibrio è avere un rapporto sano con il cibo. Non è un caso se da cinquant’anni Junichiro Kimura, grande teorico della simbiotica, studia come guarire dal cancro attraverso l’alimentazione. In molti, seguendo i suoi insegnamenti, sostengono di esserci riusciti. Curiosamente, lo stesso Kimura combatte da anni un tumore al colon. Sua moglie Natsuko, invece, anche lei promotrice di queste diete curative, è morta dieci anni fa per un cancro all’utero.
«Cazzate!» mi urla in faccia Gaia. «Natsuko è viva. Dove le hai trovate queste stronzate? Sono diffamazioni! Sai quante ne ho lette? C’è dietro l’industria farmacologica: vogliono il monopolio, lo capisci? Hanno paura che i clienti si curino da soli. Lo capisci, coglione? Sai quanta gente è guarita con la simbiotica?»
«Su Internet non esiste un solo dato statistico, Gaia, niente» obietto.
«Ma che senso ha? Perché preferisci credere a Internet invece che a me? Che cos’è Internet? È più importante di una persona che ami? Internet sono solo dei frustrati che si fanno le seghe dalla mattina alla sera, e che quando non ne possono più passano il tempo a screditare le poche cose buone che ci sono, perché, perché non appena qualcuno fa qualcosa di buono c’è sempre uno sfigato che lo deve confutare, uno di questi nichilisti del cazzo nati solo per rompere il cazzo a chi crede in qualcosa! Cazzo!».
Gaia va avanti così per un pezzo, in un crescendo d’ira nei confronti del metodo empirico, dicendo che è tutta colpa degli americani e ancora prima degli inglesi, il popolo più ateo e quindi bastardo che esiste. Poi, all’improvviso, si spegne. Va in salone, dove tiene il suo portatile, sul quale trascorre i pomeriggi a scrollare i post di Facebook.
Io rimango paralizzato, sento che sto sbagliando qualcosa, mi chiedo chi sono io per far vacillare le certezze di chicchessia, anche solo per insinuare che Dio non esiste o che i cani sono un surrogato emotivo, come i kebab.
Poi l’esofago mi si colma d’acqua, e sento qualcosa che sale a galla, e rimane lì, e non riesco a deglutire, è qualcosa che non avevo considerato, una sommatoria ponderata di dati e riflessioni, sotto forma di piccole sfere acuminate, portatrici di un’ovvietà, e cioè che “più grande è il diritto, più grande è il rovescio”, e che una battaglia ideologica ne nasconde sempre una personale.
Non so dopo quanto mi riprendo e raggiungo Gaia in salone.
La trovo che piange, racchiusa, come non l’ho mai vista piangere prima. Raschia la gola, risucchia, un filo di muco le unisce naso e labbra. Si cinge l’addome con entrambe le braccia, con forza, come se volesse strapparselo via. Sul suo browser una dozzina di schede aperte, tutte con le parole chiave “Natsuko”, “dead” e “cancer”. Nessun risultato in italiano.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).