Il treno era rumoroso. I finestrini abbassati per il caldo e la puzza che stagnava nel vagone strattonavano l’aria che sbatteva cubica contro le orecchie. Ci si capiva a singhiozzo, una metà parola arrivava, l’altra se ne volava fuori.
La mamma sorrise alla bambina che si guardava intorno con circospezione. Quel piccolo viaggio faceva parte del regalo per i suoi sei anni: avevano deciso di andare al mare e senza la macchina, che lei non sopportava per via della nausea. “Andremo in treno, così leggiamo, giochiamo, guardiamo fuori.”, le aveva detto mentre la bambina scartava il secchiello nuovo con i granchi disegnati su.
Il papà cercò di sistemare meglio la borsa da pique-nique, che a causa di una frenata si era inclinata contro il suo ginocchio.
La bambina si mise a guardare fuori, stringendo gli occhi per proteggersi dal riflesso abbagliante del sole. Ogni tanto chiedeva se mancasse ancora molto, i suoi genitori le rispondevano che no, non ci sarebbe voluto tanto. “Il primo che vede il mare, vince un gelato!”, sorrise il padre accarezzandole la testa un po’ sudata. Lei chiese se poteva disegnare, allora appoggiò sulle gambe dritte il blocco coi fogli e abbozzò un pesce. Poi voltò il foglio e ricominciò, cambiando solo il colore.
Da qualche tempo era fissata con i pesci, diceva che le piacevano e che avrebbe potuto stare delle ore a guardare i pesci saltare fuori dall’acqua e rituffarsi giù, sotto l’acqua. Diceva che le piacevano anche tutti quei cerchi in superficie che si quietavano a poco a poco una volta inghiottito il pesce. “Saltano perché cercano un segreto.”, diceva alzando le sopracciglia di fronte a tanta incredulità e voltando il viso dall’altra parte, per chiudere l’argomento.
Lei era certa di quello che pensava, tra tutto quel branco di pesci che saltava ce n’era uno speciale, uno per lei, a cui confidare le cose più segrete, che poi lui se le sarebbe portate in fondo al mare, nella pancia del mondo. Se il segreto era bello, pensava la bambina, il mare sarebbe stato calmo. Se il segreto era brutto, il mare avrebbe fatto alzare le onde. Sì, doveva essere proprio così, pensava la bambina. I genitori la lasciavano raccontare, abituati a quel mondo immaginario che fioriva tra le loro mura. Talvolta ci si perdevano dentro e allora sembrava una giungla fitta da cui liberarsi. Altre volte erano visioni lievi come il battito delle ali di una farfalla.
Il treno viaggiava con regolarità. Sembrava quasi volerli addormentare, i suoi passeggeri. Alla bambina quel movimento piaceva, le faceva pensare alle carezze sulla schiena che sua mamma le faceva per addormentarla. La sera prima le erano mancate, aveva dormito dai nonni e si erano rivisti solo al mattino, in stazione, pronti per partire.
Non l’aveva previsto, ma si sentì dire che le carezze della mamma le erano mancate, che le preferiva a quel del nonno. Lo disse come se avesse chiesto da bere o da mangiare.
Alla mamma arrivarono solo mezze parole, così si fece ripetere. La bambina, ubbidiente, riprese la sua frase e la distese daccapo, con lo stesso tono: Mi sono mancate le tue carezze, la preferisco a quelle del nonno.
I genitori si guardarono un momento, infreddoliti all’improvviso, si scambiarono con uno sguardo le mezze parole mancanti, le misero insieme con la mimica che ognuno scorse sul viso dell’altro e le impastarono con i loro brividi. Il papà, cercando la sua calma, le chiese di quali carezze parlasse, mentre sua madre la fissava con la schiena dritta come se fosse appesa a un filo di ferro. La bimba abbassò gli occhi e disse che il nonno le faceva delle carezze, ma a lei non piacevano.
Stavolta le parole furono frammenti di vetri che si ruppero nelle loro teste e ferirono dall’interno. La madre portò le mani alla bocca come se dovesse sputare qualcosa, il padre si alzò in piedi di colpo e sbatté la testa contro la cappelliera. Il treno ora passava su un ponte lungo e sottile, era leggero, veloce. Il vento risucchiò la tendina logora del posto accanto e la signora cercava di rimetterla a posto.
La bambina si rimise a guardare fuori e allargò gli occhi esclamando: “Il mare!” Pensò che si era distratta proprio sul ponte che portava in mezzo al mare, e chissà quanti pesci saranno guizzati fuori al suo passaggio per farsi vedere. Doveva stare più attenta. Il padre cercò di chiudere il finestrino, ma non ci riuscì, era bloccato. Imprecò e batté sul vetro col palmo della mano. Il passeggero accanto lo guardò, ma l’uomo non si accorse nemmeno del rumore che aveva fatto, le orecchie gli erano esplose e il mondo era stato inghiottito. Non si sarebbe stupito di vedere il ponte crollare un pilone dopo l’altro lasciando scivolare il treno dentro al mare, con loro dentro.
Forse era meglio dirlo solo al pesciolino magico, forse i segreti non andavano detti ai genitori, aveva ragione il nonno, quando le raccomandava di non dire nulla, che i grandi non capiscono, che doveva restare muta come un pesce, solo loro sanno tenere i segreti.
Così quando la mamma con una carezza sulla guancia le chiese di ripetere, di farle capire, lei iniziò a rispondere che niente, non c’era niente, il nonno aveva solo le mani ruvide e le graffiavano la pelle. I genitori si avvicinarono entrambi alla bocca della bambina per non perdere nemmeno una sillaba di quello che diceva. Le loro orecchie le si erano spalancate davanti alle labbra, erano così grandi. Come chiocciole in cui guardare dentro. Un pozzo dove lanciare un sassolino. La bambina per un attimo ebbe paura di caderci dentro. Poi si girò verso il mare e fu allora che le parve di vedere un pesce abboccare qualcosa e cacciarsi sotto.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).