Don Chisciotte guarisce solo per morire. Ma com’è triste che chiuda gli occhi savio. Ha ragione Harold Bloom: “Smagato alla fine, egli muore religiosamente e con la mente sana, ricordandomi sempre quegli amici dei miei anni giovanili che si sono sottoposti per interminabili decenni alla psicoanalisi, per terminare rattrappiti e prosciugati, ogni passione spenta, pronti a morire analiticamente e a mente sana”.
Furono i romanzi di cavalleria a fargli perdere la testa, perché leggendo notte e giorno si convinse che quelle fantasie fossero verità. Fu tra tutti i suoi eroi Rinaldo il preferito. Gano fu tra i traditori il più spregiato. Il poeta napoletano Ferdinando Russo seguì per una vita queste stesse tracce, da quando s’innamorò dei Paladini nei teatrini popolari di una città che non esiste più. Non si limitò a cantarli. Nella vita li replicò con generosità, coraggio e il disincanto che strappa alla pazzia di don Chisciotte però pretende in pegno una visionaria ingenuità.
– Ecco Linardo in campo! Il palatino!
’O palatino ‘e Francia cchiù putente!
Teneva nu cavallo, Vigliantino,
ca se magnava pe’ grammegna ‘a gente!
Comme veveva, neh! Na votta ‘e vino,
na votta sana, ‘un le faceva niente!
Nu surzo sulo, nu varrilo chino!…
e se magnava ‘e zeppole vullente!
Po’ teneva na spata, Durlindana!
Uh ffiglio ‘e Dio, e che poc’’ammuina!
Se sape! ‘A maniava chella mana!
Na notte, pe’ passà d’’a Francia ‘a Spagna,
chisto Linardo, neh, che te cumbina?
Caccia sta spata e taglia na muntagna!
Così comincia ‘O Cantastorie, uno dei poemetti più celebri di Russo, che non traduce solo la sua cifra personale ma il sentimento di una città dove pullulavano i patuti, i patiti dei Paladini, i quali come don Chisciotte avevano eletto Linardo in cima alle preferenze. Don Ferdinando per vivere cambiava spesso giacchetta e a quella del poeta sostituì l’abito fosco del cronista di nera raccontando delle rivalità fra il pubblico finite a coltellate. “Essere patuto – spiegò – è una malattia come un’altra; è come esser febbricitante, o tisico o pazzo”. La diffusione del morbo di don Chisciotte come affezione di massa chiarisce aspetti di Napoli più che non facciano letterati di scarsa passione. Solo chi ha un ramo storto in sé, chi è un po’ patuto per costituzione può capire. Vent’anni dopo la morte di Russo, nella Napoli grama del 1947, Giuseppe Marotta trova a via Foria un superstite teatrino frequentato da povera gente: “Non li eccitava, come taluno avrebbe potuto supporre, la violenza degli scontri simulati dei ‘pupi’; in quei pugnali di latta e in quel sangue di anilina non sentivano, ne fui certo, i richiami di un mondo criminoso e fosco, bensì e soltanto, e semplicemente, il fascino dell’antico duello tra bene e male, tra diritto e ingiustizia; intuii che senza saperlo connettevano a un eventuale lieto fine di quelle truci vicende non so che liberazione, non so che riscatto dai loro effettivi dolori”.
Quale liberazione neanch’io saprei. Gómez de la Serna, che conobbe Russo collaborando allo stesso quotidiano, Il Mezzogiorno, nota ”l’anima tragica” e la “cupezza” dei napoletani. Com’è successo a te quando scendemmo nell’ipogeo a Santa Maria del Purgatorio, o quando ti ho recitato i Paladini, il protagonista di quel romanzo ascoltando l’amante ritrova nel dialetto “molte parole spagnole che non hanno voluto morire, in cui vivranno sempre gli spagnoli che stettero qui”. Perché “sono parole di una lunghissima agonia”. Un’agonia che dura, se le stesse parole ancora pronunciamo e quando le hai sentite me l’hai detto.
Cambiano forse i nomi, forse il tempo, ma adesso se non prima ci siamo conosciuti qui.
“Il monte di coralli morti su cui è costruita Napoli, e che s’aggrappano alle sue intestina, è fatto – scrive de la Serna – di cuori spagnoli e napoletani legati con i lacci delle vene. Non ne dubitare”.
Se non fosse un allaccio di cuori, ma soltanto sesso, si spiegherebbe più semplicemente. Nel tuo romanzo c’è l’episodio di una ricca moglie che si divaga col picador conosciuto nella palestra dove lui si tiene in forma d’inverno. C’è la curiosità della rozzezza macha, la voglia di finire tra le braccia di chi affonda la vara nel toro selvaggio.
Quando non è cuore, ma soltanto sesso, si vive con umore vantaggioso. E’ allegra, fra tanta sombridez, l’allusione taurina che Gómez de la Serna dedica alle puttane che passeggiano per via Partenope: “S’alzavano le gonne per tirare su le calze attraversando la strada, davanti alla minaccia delle automobili, come fosse una suerte de toreo”.
Non ci fu tempo per il sesso, ci fu soltanto cuore nell’ultima avventura amorosa di Sánchez Mejías.
Si chiamava Marcelle Auclair.
La conosce a Madrid una sera di febbraio del ‘33, nella riunione che Federico García Lorca ha convocato per leggere Nozze di sangue. Lei è un’ispanista che vive a Parigi col marito, il poeta Jean Prévost, e sta partendo per l’Andalusia. L’incontro con Ignacio è un coup de foudre per tutti e due, ma se ne saprà la vera storia solo quando sono morti entrambi, perché la figlia di Marcelle pubblica le memorie della donna la cui fama è garantita, più che dai libri, dalla fondazione della rivista Marie Claire.
Lo capiscono appena si vedono, restando emozionati e muti a scrutarsi mentre Federico legge. Dopo girano con gli amici per locali senza smettere di parlarsi. L’unico contatto fisico sarà di vaga promessa lanciata in un ballo, con le mani di Ignacio che si poggiano sulle spalle di Marcelle e lei ne percepisce, quando le ha tolte, ancora il peso. Troppo presto arriva l’alba salutata da una sosta in latteria, ma quella notte Ignacio beve solo acqua, e quella notte lo sguardo di García Lorca si fa via via più angosciato perché è preveggente. Confida a un amico: Marcelle ha marito e figli, Ignacio sta con l’Argentinita, la gitana di fuoco che “los mata a los dos”.
Però non c’è tempo. Marcelle deve partire.
Nella sua biografia di García Lorca, lei parlerà di Sánchez Mejías per spiegare l’origine del Llanto mantenendo il riserbo sulla loro vicenda, ma l’attrazione trasuda da ogni rigo. Ignacio, dice, indossa a Madrid un completo verde mandorla con la camicia rosa, però a Parigi va nel bleu marine dettato dall’arbiter elegantiarum Anthony Eden. Lo personalizza con il “signe indélébile” del cappello un po’ inclinato sopra l’occhio destro.
“Il ne cherchait pas à seduire, mais il était la séduction”.
Ignacio, per Marcelle, è il modello di ciò che gli spagnoli chiamano hombría, ossia “une forme de virilité chevaleresque”. Tutto il contrario del macho perseguito dall’annoiata madrilena che porta a letto il picador, come i bagnini ischitani della mia infanzia che vecchie tedesche venivano a saggiare, comprando, in una specie di safari stagionale. L’eros sempre si stacca dal sesso, come la regola della corrida fissata da Amos Salvador y Rodrigañez nella Teoria del Toreo, che distingue l’arte fina y elegante dalla tosca y desgarbada lotta. Per vivere bisogna vincere sul toro però da artisti, non da macellai. Ripugna all’hombría la violenza, anche quando accarezza una sua certa crudeltà.
Ogni incontro amoroso richiama una corrida, qualche volta si torea, altre si embiste. Sánchez Mejías ha ragione. Però solo se due fondono nella danza le reciproche paure, l’eros sostituisce una forma d’amore alla fatalità del sesso. Da soli è più difficile chiudere la porta della morte. Certo non si può diventare immortali, ma si può per un istante o negli istanti che a quello magico assomigliano. Scrive il poeta Salvatore Toma:
Vorrei essere immortale
per un certo numero di anni.
Sarà forse la stessa cosa per la scrittura, in cui se è tutto chiaramente dichiarato, dopo resta un testo morto che non si riaprirà: “Appartengono alla letteratura – dice Gómez Dávila – tutti i libri che si possono leggere due volte”.
L’eros consiste nel bacio. L’eros è una lenta veronica della cappa rosa e oro con cui il diestro porta il toro, più che a imprimere l’immagine nel panno, quasi a leggerci un’invisibile scrittura.
Quel che scopre ciascuno in un libro o in un bacio, se è un libro o un bacio, chiede d’essere ripetuto. C’è un mistero che incita a rileggere e a baciare ancora, ed è simile all’arte recondita di rallentare un toro. Hemingway riferisce che al matador Antonio Ordoñez “piaceva paragonare la faena al lavoro di uno scrittore”. Dominguin, sapendo che Hemingway lo reputava inferiore a Ordoñez, ironizzava sul suo mestiere: “Che uomo sarebbe Ernesto se soltanto sapesse scrivere”.
C’è un persistente profumo nell’eros, in un certo libro, in una suerte riuscita, come restò sulle spalle di Marcelle il sentido delle mani di Ignacio anche tanto tempo dopo.
Certe volte le ragazze di Cordova, mentre cucivano con le persiane semichiuse durante afosi pomeriggi estivi, sentivano un profumo di nardo dalla strada: “Sta passando Manolete”. Il diestro più verticale della storia, l’uomo che annullò la distanza con il toro, emanava malinconica eleganza anche fuori dell’arena con lo sguardo, con il sottile fluido di quella pregiata colonia.
Trascorsi venticinque anni dalla sua morte nell’arena, ad agosto del ’72, il giornalista Tico Medina va a intervistare la madre di Manolete. Interroga, nel barrio di Santa Marina, le donne che conobbero il torero. “Oggi sono delle ‘cinquantone’, ma ancora belle, ancora ragazzine in tante cose e mi raccontano tra il fragore dei ventagli:
– Passava per questa strada, il camino de la Merced, e sebbene non lo vedessimo, sapevamo ch’era passato per il profumo…”.
Profumo di nardo.
Il nardo rappresenta nel Vangelo l’amore senza prezzo, la passione di Gesù che vince il puzzo della morte. Nel Llanto, García Lorca lo associa al ricordo di Ignacio:
Aire de Roma andaluza
le doraba la cabeza
donde su risa era un nardo
de sal y de inteligencia.
Nel racconto di Tico Medina, quel che più resta non sono le parole, ma il rumore dei ventagli che s’aprono e si chiudono, come se smuovendo l’aria le signore di Cordova s’illudessero di catturare ancora quel nardo che vince la morte, di riassaporare la giovinezza e le illusioni sospese sui tedii pomeridiani, tutte rapprese nel ricordo di un torero che cammina.
“Portava la morte sulla faccia” il giorno che lidiò l’ultima volta nella plaza di Linares. Ci sono presentimenti che si stampano sui volti perché qualcuno li legga. C’è l’inquietante sposalizio di eros e thanatos nella cara che profuma di nardo e la veronica deriva il nome – chiarì il massimo esperto taurino José Maria de Cossío – dalla “somiglianza tra le rappresentazioni della donna che nel Vangelo tiene fra le mani il lenzuolo, su cui resterà impresso il volto del Signore, e la maniera in cui il torero presenta la cappa al toro”.
C’invade, per quant’è lungo il nostro bacio, il deodorante industriale di cui è impregnato il taxi che dal barrio Salamanca porta alla stazione di Atocha. Discreto il conducente lascia fare perché è discreto questo bacio interminabile fra adulti, perché tu hai una valigia e lui presume un treno che ci separerà fra una manciata di minuti.
E’ durante questo bacio, proseguito come luce a intermittenza, con le bocche che si staccano e si prendono, con gli occhi che si chiudono e si guardano, è per quant’è lungo il bacio che mi dico sarà l’ultimo e non soltanto il primo. Ma il bacio è un compromiso nell’istante dell’immortalità. Ce ne ricorderemo come non ricorderemmo una notte nel mio albergo o a casa tua, qui a Madrid, davanti a un poster di Hopper o guardando il cielo grigio di caldo dove qualunque pensiero abbia lanciato tornava al vetro per cui usciva e gli sbatteva contro. E’ un paradosso che a partire dalla tua città oggi sia tu e non io, che a unirci in una rapida faena siano stati un libro, il tuo libro, e la passione per i tori. Non piccole e ripetute azioni con cui generalmente si tessono le storie, come una festa, il ritmo dei rispettivi passi verso il cinema, le uscite scegliendo ristoranti o spiagge plausibili. E’ un paradosso che la passione unisca e subito separi mentre luglio è cominciato strano. Fra violenza di pioggia e di sole te ne vai a Pamplona, dove non voglio venire, per raccontare la Feria di San Fermín che per me è stata e resterà solo Fiesta di Hemingway, dico il libro con cui schiacciavo zanzare nelle notti a Ischia e pause di sangue minimo gocciavano sulla lettura, già disimpegnata quando asseconda scopi da ragazzo. Oggi, cambiati scopi e diventato leggere un lavoro, sembra che le zanzare pungano meno o forse mi difendo senza imbrattare muri.
Subentrano crescendo, assieme alle nevrosi, certi scrupoli di pulizia.
Non c’incontreremo più qui, dove sono venuto a trovarti, né mi cercherai nella città di cui abbiamo visto assieme soltanto il Purgatorio. Forse anche dopo che ti strinsi un braccio ne sentisti la pressione, come accadde a Marcelle con le mani di Ignacio.
Parti stanca ma contenta: “La temporada taurina es asì, pero reconozco que me encanta”. Metti sull’iPad un pasodoble anni Sessanta di Marifé de Triana: No te vayas de Navarra canta dei “sette toritos“ che scatena nelle vene una passione sbocciata all’inizio della festa, il 7 luglio, quando lei incontra uno sguardo che la brucia e la prega di restare a San Fermín. Tu – stanca e contenta – vai lì per scrivere di un mondo, anche il mondo che non esiste più se non con questo sacerdozio periodista. Pigli magia al passato quasi orgogliosa dell’inattualità. E’ la ragione che ci attrae: la mia inattualità vede la tua. I sentimenti amorosi regolano gli orologi sui loro calendari immaginali. Può darsi che persino certi morti, per noi, siano più vivi e non è solo questione di nostalgia.
Riparlami di Ignacio e Joselito.
Parlerai di Ignacio e Joselito e non avremo nostalgia.
I tuoi occhi verdi, che riguardo aprendo i miei nel bacio, guardano sul passato assieme a me ma rimanendo entrambi qui, senza lo charme del nardo o di un ventaglio, con Mariafé nell’iPad e tu che farai un tweet fra poco. Come fossi completamente viva, usi ciò che ti serve per sistemarti nel futuro. Non ci resteremo assieme e il taxi è quasi alla stazione. Scendo per il piacere di portarti il trolley al binario, non c’è aroma di nardo ma è bello replicare certe regole. E’ bello, benché triste, accompagnare al treno una che se ne va.
Quando Marcelle torna a Madrid, Federico a scanso di guai non informa Ignacio, che lo scoprirà per caso ma nuovamente troppo tardi. Lei deve ripartire per Parigi. Qui dopo qualche settimana, nel completo bleu marine stile Anthony Eden, lui si presenta a casa sua e in una sfida di sguardi col marito la invita a uscire per la sera.
Sarà una passeggiata e il resto niente o tutto. Il resto è un bacio.
E’ scritto nelle memorie di Marcelle: “L’unico contatto fisico: un bacio nel taxi che è durato da l’Etoile a Montrouge. Restiamo d’accordo di vederci l’indomani”. Ma il giorno dopo Ignacio deve tornare subito a Siviglia perché Rafaelito Bienvenida, il figlio quindicenne di un amico, è stato assassinato dall’amministratore della finca davanti al primogenito di Sánchez Mejías.
C’è solo il tempo di un veloce saluto nella Gare d’Orsay.
Quando è destino.
Neanche la passione raccontata a San Fermín nella canzone si realizzerà, perché lui cade sotto un toro “come un garofano” il primo giorno della fiesta navarra.
Quando è destino che una cosa non succeda.
Vorrei contare peggio i giorni della settimana. Che fosse venerdì solo perché mi sembra, che non ci fosse per una volta la domenica. Ma è un gioco che chi lavora in un giornale non può fare: sbagliare data, ingannare il tempo che t’inghiotte truccando l’agenda. Vorrei fosse il momento che qualcuno mi chiama per combattere. Ma non ho diritto a una guerra ed è passata l’epoca d’iscriversi a un torneo (foss’anche per perdere, l’esito resta l’ultima cosa).
Ignacio invece.
Ignacio torna ai tori. Poco dopo la storia con Marcelle annuncia che riprenderà. Rientra nell’arena a quarantatre anni, età in cui gli altri si ritirano. Osserva il biografo Andrés Amorós: “Soffre di sciatica, ricordo delle diciassette cornate che gli adornano le cosce; è ingrassato e ha diradato i capelli. Negli ultimi tre anni è invecchiato come se ne fossero passati venti”. Il medico gli prescrive di fumare meno o meglio smettere, perché imputa al tabacco la maggior parte dei disturbi. Autorizza l’esercizio fisico ma raccomanda soprattutto vita regolata.
Si disse che riprese per evitare al figlio di diventare matador (poi lo farà lo stesso), o per denaro benché fosse ricco. Più probabilmente, tornò per confondere il tempo mentre il tempo l’inghiottiva. “Il torero – spiega in un’intervista – non soffre pericolo maggiore che smettere di esistere, e la sua morte non è nella plaza, ma a casa. Joselito è vivo. Più vivo di Belmonte e di me”.
Quanti pugili, calciatori, quanti ex campioni che dissero mai più, quanti cantanti che salutarono la scena “per sempre” sono tornati sulla decisione, anche più volte, con esiti sospesi fra il ridicolo e il sublime.
Lui disse questo: “Cuando uno se retira, se muere”.
Vuole smentire la “leyenda negra” che lo accompagnava, di essere un torero coraggioso ma di tecnica mediocre. Il suo temperamento energico, mentre facilitò il rapporto coi poeti, complicò le relazioni con i giornalisti. Ora vuole che dicano “persino che sono simpatico”.
E’ fatto comune: chi eccelle troppo in un talento viene considerato poco per le altre virtù. La dote eccessiva di Ignacio fu il coraggio: “Non è che fosse valiente, è che cercava il pericolo come divertimento”, sintetizzò un cronista. Ottimo banderillero con Joselito, s’inventò la rischiosissima figura di collocare le asticelle a mariposa, chiamando il toro davanti alla barrera dove un’incornata può inchiodarti come farfalla nello spillo. Non era un tremendista, ma uno sfrontato temerario che riceveva la carica seduto sull’estribo, la sporgenza messa sullo steccato per il salto dei toreri.
[continua…]
la prima parte è qui.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).