Padiglione XVIII

da | Apr 12, 2017 | Senza categoria

Abbiamo dedicato l’ultimo numero di Nuovi Argomenti ai fantasmi. Un tema letterario e senza tempo che ci ha fatto particolarmente piacere affrontare con una sezione curata da Giulio Silvano e Matteo Trevisani ricca di saggi, riflessioni, racconti e vignette.
A quanto pare, quello dei fantasmi è un tema particolarmente sentito non solo dalla redazione, ma anche dai nostri lettori: in queste settimane abbiamo ricevuto moltissimi racconti ispirati dai nostri spettri. Abbiamo deciso di pubblicare quello di Raffaele Notaro.

 

Padiglione XVIII

Raccolto l’ultimo fazzoletto sporco dal tappeto d’aghi tornava in posizione eretta, lentamente, tenendosi la schiena con una mano. Non era la prima volta che la incontravo durante le mie escursioni. Solitamente lasciava le scarpe lontano, sotto una panchina, come fuori da una moschea; e i piedi, enormi escrescenze violacee, risultavano gonfi e tumefatti, come se avesse passato la notte a pregare col peso tutto sulle ginocchia. La gonna le arrivava poco sopra le caviglie, e l’orlo logoro copriva a stento le punture d’insetto e i graffi degli arbusti. Mi ero convinto chissà come che lavorasse per l’ex manicomio provinciale: la giacca scura con i bordi opachi, rammendata con toppe nere e cuciture di fortuna, era la stessa che avevo visto indosso al custode in una foto d’epoca, e, insieme al suo insolito comportamento, avevo finito per dedurne un impiego socialmente utile, come la pulizia dei giardini o la custodia delle aiuole; non si trattava di niente del genere.

La sua esistenza liminare mi inquietava: non l’avevo mai vista entrare o uscire dalla struttura; si aggirava tra il VII e il XC come se stesse cercando qualcuno. A me capitava di incontrarla al tramonto. “Non dovreste essere qui” mi diceva quando si accorgeva di me e la mia bici. D’istinto piegavo la ruota anteriore di lato e me ne stavo immobile, un po’ ricurvo, come avrei fatto se mi avesse sorpreso nudo.

Quell’anno avevo cominciato a fare sport perché mi sentivo bloccato, come una finestra con gli scuri abbassati. Avevo accumulato peso ed ero ad un punto della vita in cui le cose sembrano accadere solo agli altri. Dano mi aveva appena regalato una bici – una mountain bike rossa che avevo chiamato Rogue, come la guerriera degli X-Men capace di assorbire l’energia dagli esseri viventi. Il modello e le decorazioni ricordavano McFly, la Bianchi che mi rubarono dal garage sotto casa quando avevo undici anni e i miei si erano appena convinti a comprarmi una bici per farmi perdere peso.

Negli anni ’70 i pazzi più mansueti e collaborativi venivano chiamati malatini, in gergo. Svolgevano lavori di supporto, coltivando la terra per l’ergoterapia o supervisionando i pazzi pazzi. Di notte aiutavano gli infermieri a legare i malati pericolosi ai loro letti (i criminali, gli agitati, gli epilettici… ), infliggevano punizioni per mantenere l’ordine e aiutavano le Suore a sapere tutto quello che accadeva tra le mura di Santa Maria della Pietà. A dar credito a chi è cresciuto in zona, più di cinquant’anni fa, di notte si sentiva urlare dalla strada. Sorvolandolo oggi, con un drone e uno smartphone, il complesso appare più triste che sinistro. Sebbene nel tempo molti dei quaranta padiglioni abbiano cambiato destinazione d’uso, la maggior parte resta abbandonata. Dalle infiltrazioni nel soffitto o grazie ad un cedimento strutturale, la vegetazione ha proliferato occupando interstizi e affacciandosi dalle finestre più alte. Pedalando per un paio d’ore ogni giorno, prima del tramonto, avevo scoperto passaggi poco frequentati, stretti corridoi tra le conifere e viali scoscesi da cui le radici spuntavano come germogli. Passavo accanto al padiglione dei criminali. Ammiravo la sua recinzione privata – una prigione nella prigione – che lo aveva fotografato in un’era della storia lasciandolo isolato a decomporsi lentamente.

McFly non aveva la catena. L’idea che qualcuno potesse introdursi nella nostra proprietà con l’intento di sottrarci qualcosa era fuori dalla nostra prospettiva. Non ricordo molti furti alla fine degli anni ottanta; mia nonna neanche chiudeva la porta di casa, ed era una di quelle che, quando tornavamo dalle vacanze, ci aspettava seduta sul muretto di casa dall’alba, per paura che ci succedesse qualcosa. Una personalità remissiva dal carattere inquieto. La sogno spesso, quando sono in difficoltà; la rivedo per strada, nei gesti di una sconosciuta. I fantasmi sono così, qualcuno che non c’è più ma che non se n’è mai andato. La figura che descrivono nel tempo è una bisettrice ricurva sui due momenti equidistanti tra loro. Quando seppe del furto era incredula, più di tutti. Fece un paio di telefonate, con quel suo modo sincopato di far ruotare il disco fino in fondo. Tutti le risposero che non avevano visto niente. Sospetto che ne fosse rimasta parecchio sollevata, che l’idea di sapermi in giro alla mercé della vita non era così piacevole come avermi a casa, con lei. Le notti successive, ricordo, immaginai che qualcuno, fuggendo, avesse raggiungo le 88 miglia orarie e che si fosse ritrovato avanti o indietro nel tempo. Esistono luoghi in cui il confine tra le cose è più sottile. Uno di questi è la mente umana. Ci si trova ad associare concetti senza apparente connessione e si finisce per credere anche alla bugia meno sofisticata se lo scopo è l’autoconservazione. Per tenere a bada la vergogna di un corpo sudato e affaticato cercavo di evitare i luoghi isolati: bisognava che mi abituassi alla presenza dell’altro anche quando era scomoda, insistente, ingiustificata e volgare; e accettare di essere lo stesso fastidio per qualcun’altro. Dai quei primi giorni in poi, pedalare divenne meno faticoso. Il padiglione XVIII smise di sembrarmi il tabernacolo modesto alla cui mensa andavano a sfamarsi i nostalgici.

La verità è che se non ci fosse la malinconia, non sapremmo come evocarli gli spettri. L’ultima immagine che ho di mia nonna la vede nell’atto di piegarsi per estirpare le erbacce. Faceva molto caldo. Guardando in basso dalla collina su cui ero, si distinguevano a stento i contorni delle cose. I ricordi, così come gli errori, ci vengono a cercare. E fanno in fretta a trovarci ed entrarci dentro perché ciascuno di noi è come un palazzo con una finestra rotta. Raccolta l’ultima erbaccia ancora sporca di terra tornava in posizione eretta, lentamente, tenendosi la schiena con una mano. Mentre riprendeva fiato guardava in cielo e sfidava il sole con un gomito. Quando mi sorprendeva a pedalare da solo, sulla collina, mi faceva un cenno con la mano, come a dire ‘’Che ci fai lassù? Torna a casa.’’

Piegavo la ruota anteriore verso di lei e mi affidavo a quell’immagine tremolante per ritrovare la via.