Continua la serie delle interviste agli editor italiani.
Abbiamo sottoposto il questionario a Matteo Alfonsi, editor di Indiana.
Hanno già risposto alle nostre otto domande: Ginevra Bompiani, Carlo Carabba, Stefano Izzo, Chiara Valerio, Gabriele Dadati, Giulia Ichino, Andrea Gentile.
1) Quali sono le caratteristiche principali che un libro deve avere per colpire la sua attenzione?
Mi piace percepire un buon grado di consapevolezza da parte dello scrittore; avvertire che le scelte linguistiche e strutturali derivano da un’attenta riflessione, poi posso non condividerle, ma se uno scrittore non ha pensato alle scelte fatte questo diventa evidente e il mondo che cerca di costruire crolla.
2) Se e in che modo è cambiato il suo modo di leggere negli ultimi anni?
Il mio modo di leggere è cambiato da quando ho cominciato a fare questo lavoro, cioè negli ultimi anni. Credo che la mia lettura sia diventata molto più disincantata. Non riesco sempre a scindere il lavoro dal piacere: da editor mi chiedo come mi sarei rapportato a quel testo, da redattore non posso fare a meno di trovare refusi – ed empatizzare con quei redattori. Sempre più raramente riesco a perdermi tra le parole; ho smesso di finire i libri, difficilmente supero la metà di un romanzo e sempre più spesso mi rifugio in pagine che conosco quasi a memoria.
3) Quale pensa che sia il ruolo di un editor oggi? Crede che debba influenzare le scelte dell’autore fin dal concepimento dell’opera?
Le funzioni principali di un editor sono due e penso che entrambe restino invariate anche oggi. Da un lato deve trovare libri in linea con il progetto della sua casa editrice e magari con un potenziale commerciale; dall’altro lato credo che il suo ruolo sia quello di avvicinare l’autore al testo: instillare dubbi, far aumentare il grado di consapevolezza rispetto al messaggio; costruire un filtro tra ciò che lo scrittore intende comunicare e ciò che realmente emerge dalle sue parole.
Per quanto riguarda la seconda domanda, invece, penso che l’editor possa influenzare le idee di uno scrittore, soprattutto quando hanno già lavorato insieme e si è creato un rapporto di fiducia. In particolare per la saggistica, poi, penso sia legittimo avere un’idea e proporla a un autore che pensiamo possa svilupparla. Non credo che i libri su commissione siano un male, anche se questo comporta un aumento imponente di autori il cui unico merito è di essere personaggi famosi.
4) Ci parli della sua formazione culturale, il suo percorso fra gli autori e le letture.
I libri che più hanno influenzato la mia formazione, o meglio mi hanno indicato un percorso, sono stati i saggi di Calvino e Altre inquisizioni di Borges. Ho sempre avuto un approccio maniacale, catalogatorio, verso ciò che mi appassiona, e così partendo da quei libri ho cominciato a leggere gli autori che venivano citati e a studiare i cataloghi delle case editrici. Per anni ho accumulato nozioni con la disperazione dell’autodidatta, poi mi sono iscritto a Lettere, e dopo la laurea ho seguito il corso per redattori organizzato dallo studio Oblique che oltre a sistematizzare e accrescere le mie conoscenze mi ha permesso di entrare in una casa editrice.
5) A chi si ispira nel suo lavoro sui testi, ha un modello di riferimento? È cambiato nel corso del tempo?
Non ho modelli di riferimento particolari, penso di aver imparato molto da tutte le persone con cui ho lavorato. Più che altro, nel corso del tempo, ho costruito un modello in negativo; ho capito che non voglio essere quell’editor che riscrive interamente i libri, impone la sua visione, permette al suo ego di riversarsi sulla pagina, si considera più importante dell’autore con cui lavora.
6) Qual è la parte più difficile del suo lavoro? E la più frustrante?
La parte più difficile del mio lavoro è far collimare il mio gusto con le esigenze commerciali. La parte più frustrante è la stessa: essere consapevoli di aver trovato un libro importante e poi confrontarsi con il prenotato e le vendite.
7) Quali autori del passato ha amato? Quali pensa che oggi incontrerebbero difficoltà a essere pubblicati, e perché?
Ogni libro, credo, sia inseparabile dalle contingenze che lo hanno prodotto. Questo non vuol dire che oggi non possiamo godere della bellezza di un testo vecchio di secoli, ma abbiamo bisogno di quel filtro che ci viene fornito dalla consapevolezza di rapportarci a un testo del passato. Il romanzo in particolare nel tempo si è dovuto confrontare con le altre arti, la storia, le scoperte scientifiche e le tecniche narrative si sono evolute. Quindi credo che se oggi qualcuno tentasse di scrivere come un autore del passato non sarebbe pubblicato semplicemente perché quel testo sarebbe anacronistico.
8) In che modo è cambiato il modo di leggere? Secondo lei cosa cercano oggi i lettori in un libro?
Il nostro modo di leggere è diventato molto più rapido e superficiale, quasi schizofrenico. Come hanno notato in molti, il computer e i supporti mobili in questo hanno una grande responsabilità. La quantità ha sostituito la qualità. L’impostazione dei testi per la rete ha rivoluzionato il nostro approccio; saltiamo compulsivamente da un paragrafo all’altro, selezioniamo cosa ci interessa e scartiamo il resto. Questo comporta una certa sterilità cognitiva, credo, un’incapacità di rielaborare le informazioni in base al nostro gusto e alla nostra indole. Il rischio, e provo così a rispondere alla seconda parte della domanda, è non riuscire più ad attivare la sospensione dell’incredulità e lasciarsi quindi trascinare nell’universo romanzesco. Alcuni critici hanno cominciato a parlare di fame di realtà e sempre più scrittori hanno iniziato ad applicare stilemi narrativi alla saggistica, una commistione molto interessante che negli ultimi anni ha dato vita a ottimi libri e inaspettati successi commerciali. Tuttavia, mentre la narrativa sembra aver perso la sua capacità d’intrattenimento, generazioni di giovani lettori corrono in libreria a comprare pesantissimi volumi di interminabili saghe. E questo lascia ben sperare.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).