Blanchot
«Un’opera letteraria, per chi sappia penetrarvi, è un ricco luogo di silenzio, una salda difesa e un’alta muraglia contro l’immensità parlante che rivolgendosi a noi ci fa estranei a noi stessi», scrive Blanchot in questa raccolta che uscì nel 1959 per Gallimard. Il titolo, Il libro a venire, è una delle domande chiave che si pone nella sua carriera il critico francese, di fronte all’eternità, alla meraviglia e ai cambiamenti della letteratura: Che cos’è lo spazio letterario? Chi è lo scrittore? Come sarà il libro del futuro?
Le domande degli uomini saggi sono più importanti delle risposte. Le risposte arrivano dall’analisi dei testi del canone, tanto quanto delle vite dei loro autori, dall’esplorare i demoni dietro a scrittori e scrittrici che spesso hanno subito «la pressione impetuosa di una letteratura ormai insofferente della distinzione dei generi, tesa a romperne i limiti». Per rispondere bisogna farsi altre domande: cos’è la vocazione? Lotta con il proprio demone, come nel caso di Virginia Woolf? Cos’è l’argomento? Per Henry James l’argomento sembra essere tutto, il motivo per uscire di casa e raccogliere aneddoti che metteranno in azione le sue storie – «James ha paura della sua arte […] Gli occorre, prima di abbandonarsi alla forza del racconto, la garanzia di un canovaccio».
Blanchot, impegnato come un Sisifo della critica a svuotare ogni opera dal senso, è anche preso dalla costante ricerca del perché si scrive, dal cercare, se non di identificare, almeno di circoscrivere l’esigenza della scrittura. Non è un caso che si senta spesso il respiro pre-post-strutturalista di Georges Bataille (e viceversa, ne La letteratura e il male Bataille cita Blanchot in merito a Kafka) che ha dedicato parte della sua ricerca al mistero della scrittura.
Tornando al titolo, è in Mallarmé – che ha lasciato un segno sui futuri critici tanto quanto sui futuri artisti – si trovi un template ideale del libro a venire: Un coup de dés, perché «annuncia tutt’altro libro da quello che è ancora il libro per noi: lascia indovinare che quel che noi chiamiamo libro secondo l’uso della tradizione occidentale, in cui l’occhio identifica il moto della comprensione con il ripetersi di un va’ e vieni lineare, si giustifica unicamente nella facilità della comprensione analitica». Un coup de dés, pubblicata nel 1897 – gioco tipografico, preciso uso degli spazi bianchi, verso libero – è «nato da un senso nuovo dello spazio letterario».
«Ci fu un tempo in cui lo scrittore, come l’artista, era in relazione con la gloria. […] Alla gloria subentra la rinomanza. […] Alla rinomanza succede la reputazione, come alla verità l’opinione». Così si scava poi nei Proust – maestro della “metamorfosi del tempo” – nei Malraux – che ha «restituito arte e vita a un atteggiamento antichissimo, diventato, grazie a lui, una forma artistica: l’atteggiamento della discussione» – negli Herman Hesse – «il bisogno di scrivere è legato in lui al timore di naufragare» – tirando fuori alcune risposta ma ancora più domande; (le risposte di Blanchot hanno la solennità e la profondità delle massime antiche). Dove va la letteratura? «La letteratura va verso se stessa, verso la sua essenza, che è la sparizione».
Maurice Blanchot, “Il libro a venire”, trad. di G. Ceronetti e g. Neri, Il Saggiatore
Calasso
«E tutto finiva in un libro».
È arrivato il numero 700 della Biblioteca Adelphi, che coincide con il decimo volume di un’opera, quella di Calasso, iniziata con La Rovina di Kasch. Proprio in quel testo del 1983 scriveva C.: «La ripetizione che infuria nella storia presuppone tutta la storia della ripetizione. Quanto più risaliamo indietro, tanto più la ripetizione si avvolge di maestà».
La Torah è ricca di ripetizioni; come nel Mito («il mito è l’incanto che in quel momento riusciamo a far agire in noi») la ripetizione e la variazione nella ripetizione non sono noiose (o tantomeno incongruenti), ma rafforzano. In questo il mito è simile alla danza. O alla musica. «Ogni variazione è preziosa».
«Le storie non vivono mai solitarie: sono rami di una famiglia, che occorre risalire all’indietro e in avanti», scriveva C. ne Le Nozze di Cadmo e Armonia.
La Torah, che è un testo di eventi e di leggi, un testo dove ciò che viene omesso è importante tanto quanto ciò che viene raccontato, l’omissione è trattata
come elemento chiave, per liberare la storia – le storie – del libro sacro dalle possibili interpretazioni filosofiche, confessionali o psicologiche. Il libro di tutti i libri è la storia senza tempo di tutte le storie, di personaggi, figli, animali, scismi, patti, voci, visioni, grazia, promesse, delitti, assedi, battaglie che accadono in modo turbinoso disegnando l’eterna storia della definizione di un popolo. «All’inizio, gli Ebrei, furono quelli che andarono via, seguendo Abramo», invitati da Yhwh a vagare e cacciati dai faraoni, e «quel perpetuo oscillare fra evasione ed espulsione si ripeté per tutta la loro storia, sino a formare il tessuto delle loro storie».
L’occhio di C. è sempre attento al sacro, quel sacro che l’uomo sembra aver perso ma che attraversa le tribù di Israele, Tiepolo e Baudelaire, Teseo, Talleyrand e il primo cacciatore. Nel libro che precedeva questo, L’innominabile attuale, – dove tra l’altro si torna sulla ripetizione: «La ripetizione garantisce la costanza del significato» – si analizzava il modo in cui l’Homo saecularis aveva cancellato «con cura, con insistenza», il divino. La società secolare a cui appartiene questo Homo, crede solo a se stessa. È la società dell’esperimento. Per farne parte non è necessario osservare precetti o prender parte a rituali, basta non infrangere certi codici dell’ordine.
Nel libro dei libri vediamo in azione non solo il divino, ma il divino e l’uomo che dialogano, uomini ubbidienti, disubbidienti, persone come Saul, «simile ad Harpo Marx», Giacobbe «che passò la vita tra gli inganni, che ideava o subiva». Seguiamo la strada di Mosè, che accompagnò il popolo attraverso il deserto e ricevette i precetti, una legge a cui il popolo non avrebbe potuto aggiungere niente, e che entrò in funzione non appena Mosè morì poco prima che i suoi figli entrassero nella Terra Promessa.
C’è un secondo capitolo è dedicato a Mosè, in quanto ultima ricerca di Freud; ne L’uomo Mosè e la religione monoteistica, pubblicato nel 1939, l’intento è «quello di sottrarre ali Ebrei il più grande dei loro figli», cercando nella storia un personaggio egizio che “creò” l’ebreo e l’ebraismo, rubando ai faraoni il monoteismo – una ricerca che Freud sembra dare «innanzitutto per stabilire una connessione necessaria fra l’uccisione e la Legge», perché Mosè sarebbe stato ucciso dai «figli di Israele».
Questo lavoro di narrativa ed omissione dimostra che le storie esistono prima di tutto il resto, che «alla Torah era indifferente che il mondo esistesse o meno».
La Torah è anche un testo di sacrifici. Nella Rovina di Kasch leggiamo: «Il sacrificio opera la più tenace saldatura fra la società e ciò che le è esterno», e qui vediamo un intero popolo destinato al sacrificio violento che verrà vietato per legge a Costantino nel 341, «ciò che ora diventava un reato grave era stato per secoli il basamento comune dei culti di tutto il Mediterraneo e l’Asia mediorentale».
Per parafrasare Italo Calvino si potrebbe dire che la decalogia calassiana tratta di due argomenti: il primo è il sacrilegio, il secondo è tutto il resto.
Roberto Calasso, Il libro dei libri, Adelphi
Bolzoni
Non so saziarmi di libri, probabilmente ne posseggo più del necessario ma con i libri succede come le altre cose: il riuscire ad avere ciò che si cerca stimola ulteriormente il desiderio.
Questo è Petrarca, il primo tra i protagonisti – bibliofili e lettori – raccontati da Lina Bolzoni in questa indagine sulla lettura, sullo stare fermi e soli di fronte a un malloppo di carte cucite insieme.
Per Petrarca «i libri-amici abitano la biblioteca, ci vivono, accolgono con gioia i nuovi arrivati», ed è quello il luogo in cui «si rifugia anche per sfuggire al tormentoso assedio del fantasma erotico di Laura».
L’investigazione di Bolzoni parte anche da una paura, un tarlo che in questi ultimi due decenni ha scosso, almeno per un istante, tutti gli amanti del libro: che un giorno il digitale si mangi tutto. Qualche anno fa il compianto Umberto Eco scriveva: «il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici. Una volta che gli avete inventati non potete fare di meglio. Non potete fare un cucchiaio che sia migliore del cucchiaio […] Forse [il libro] evolverà nelle sue componenti, forse le sue pagine non saranno più di carta. Ma resterà quello che è».
Però una trasformazione che allontana dalla fisicità del libro non renderebbe possibile la biblioteca fisica come un microcosmo di meraviglia e pausa dalla quotidianità pubblica, uno “spazio di solitudine”, come lo studio di Mapliglio a Ferrara, di cui ci parla Torquato Tasso. «Quello che si dispiega di fronte ai suoi (e ai nostri) occhi non è soltanto una ricca ed elegante collezione di libri […], ma anche una raccolta enciclopedica, in cui quadri, mappamondi, carte geografiche si accompagnano a strumenti matematici e astronomici, creando un incontro fra bellezza e conoscenza».
Se lo “studio” è luogo di fuga dal lavoro e dai fantasmi, si ricerca però la presenza muta degli autori amati. Non è un caso che le biblioteche nobiliari del rinascimento siano costellate dalle effigi degli scrittori, dei poeti, dei lettori; già Plinio racconta di volti di bronzo di un Omero – autore di cui non conosciamo il vero volto, quindi, immaginato – nei luoghi di lettura: «la fisiognomica può cosí offrire uno strumento utile a trasformare la lettura in un fino dialogo». Esempio maggiore ne è lo studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino:
una Bibliothecha tanta e tale
che ad ogni ingegnio è altissimo dilecto
e in tucte facoltà universale.
Ivi adunò de libri un numer tanto,
che ogni chiar spirto li può spiegar l’ale
impreziosita dai ritratti degli uomini illustri, un misto di religiosi e umanisti: Sant’Ambrogio, Gregorio Magno, Dante, Cicerone, Bartolo da Sassoferrato, Solone, Salomone, Virgilio… Tranne Tolomeo, che stringe l’astrolabio, hanno tutti un libro, in mano o sulle gambe, Mosè mostra le tavole della legge, in una galleria di autori-lettori che guarda dall’alto: il libro è una costante, e nello stesso tempo i diversi modi, le piccole varianti della rappresentazione esprimono dal vivo i vari momenti della lettura.
Scrive nel 1438 Bessarione, amico di Federico: «Non c’è oggetto più prezioso, non c’è tesoro più utile e bello di un libro. I libri sono pieni delle voci dei sapienti, vivono, dialogano, conversano con noi, ci informano, ci educano, ci consolano, ci dimostrano che le cose del passato più remoto sono in realtà presenti, ce le mettono sotto gli occhi. Senza i libri, saremmo tutti dei bruti».
Lina Bolzoni, “Una meravigliosa solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna”, Einaudi.
Nato in Liguria nel 1989, ha vissuto a Parigi e negli Stati Uniti. Vive a Roma, scrive e traduce.