Da Urania 451, a cura di Carlo Mazza Galanti, ecco il saggio di Gino Roncaglia: Dalla fantascienza delle origini alla rassegna del Planetario: note sulla percezione della fantascienza in Italia negli anni ’60 e ‘70.
Isaac Asimov non è certo un autore dallo stile raffinato, ma le sue opere hanno due indubbi punti di forza: la capacità di catturare il lettore – Asimov era un maestro in quello che oggi chiameremmo ‘storytelling’ – e le idee: basti pensare alla psicostoria (Paul Krugman racconta di dovere a questa idea la nascita del suo interesse per l’economia) o alle tre leggi della robotica, ancor oggi tema di vivace discussione nel campo dell’intelligenza artificiale.
Per capire i meccanismi di storytelling utilizzati da Asimov, un aiuto viene dalle antologie. Nelle antologie curate da Asimov (sia le proprie, sia quelle di altri autori) non manca praticamente mai una componente di ‘collante narrativo’: i singoli racconti sono preceduti e seguiti da considerazioni personali, da aneddoti, da osservazioni a loro volta quasi sempre relative all’idea di fondo del racconto più che alle sue caratteristiche stilistiche o letterarie. Questa componente affabulatoria – dominata dall’ego abbastanza strabordante dell’autore – porta da un racconto all’altro inanellandole le narrazioni in un metalivello attraverso cui Asimov si trasforma in una guida complice e compiaciuta, che accompagna il progresso del lettore nel testo.
In forme ovviamente diverse, questo ‘metalivello di accompagnamento’ compare anche nelle sue opere narrative più estese: sotto forma di citazioni dall’Enciclopedia galattica o personificato nelle apparizioni periodiche dell’ologramma di Hari Seldon nella ‘Time Vault’ all’interno del ciclo della Fondazione, o attraverso la rete di rimandi interni da un’opera all’altra. Ma in questa sede vorrei partire proprio da una delle antologie curate da Asimov: Before the Golden Age: A Science Fiction Anthology of the 1930s. Il collante narrativo che accompagna i 25 racconti inclusi nell’antologia è strettamente autobiografico, e racconta la scoperta della fantascienza da parte del giovane Asimov. È l’epoca delle riviste ‘pulp’, prezzi popolari e copertine coloratissime.
L’insieme composto dai racconti e dalla narrazione di accompagnamento di Before the Golden Age delinea un quadro assai vivido della fantascienza degli anni ’30: fantascienza che è ancora – per prendere in prestito il titolo di un’altra rivista pulp poco più tarda – “Super Science”, ‘superscienza’. Nella fantascienza di questo periodo non c’è un tema dominante se non quello – abbastanza generico – del progresso scientifico. Quello dei viaggi spaziali è un tema fra i tanti: troviamo scienziati pazzi e cervelli giganti, viaggi nell’infinitamente piccolo (con una evidente fascinazione per gli sviluppi della teoria atomica in fisica) e nell’infinitamente grande, viaggi nel tempo, celebrazioni del nuovo ‘mondo elettrico’ che devono ancora molto ai romanzi scientifici di Verne e alle spettacolari dimostrazioni di Nikola Tesla. Non si tratta, si badi bene, di una letteratura necessariamente ‘ottimista’ o celebrativa: la carneficina della prima guerra mondiale ha già sgretolato l’idea della scienza come molla di un progresso inevitabilmente indirizzato verso una nuova era illuminata e pacifica. Eppure l’idea della scienza come ‘potenza’ e volontà di potenza, fattore determinante – nel bene e nel male – dello sviluppo sociale futuro, è nella maggior parte di questi racconti (così come nel metatesto di Asimov) assolutamente chiara ed evidente.
La fantascienza, dunque, come “narrativa di anticipazione”, come vuole un diffuso paradigma interpretativo? In verità, almeno in questo periodo, tutt’altro. Certo, gli autori sembrano impegnati nel tentativo di prefigurare futuri possibili. Certo, i lettori sembrano cercare in queste opere indizi e anticipazioni sul futuro che li aspetta. Certo, la fantascienza delle origini è espressione di una società – quella statunitense – protesa verso il futuro, in qualche misura ossessionata dal futuro. Ma a ben guardare, di anticipazione nella fantascienza delle origini c’è poco o nulla, e tanto gli autori quanto i lettori lo sanno benissimo. Nessuno si aspetta davvero un futuro fatto di scienziati pazzi che creano cervelli giganti, o di macchine del tempo, o di viaggi nella dimensione subatomica. Non ci sono – nella maggior parte dei casi – vere predizioni, e dove sembrano esservene, si tratta quasi sempre di predizioni sbagliate. A guidare la scrittura (e la lettura) è la fascinazione per la scienza più che la ricerca di predizioni scientifiche. La fantascienza delle origini proietta sul futuro (e, come in ogni proiezione, ingigantisce e deforma) l’immagine della scienza, nella forma in cui quell’immagine è percepita e assorbita dalla società dell’epoca: un’immagine a sua volta largamente mitica e immaginifica.
Quando, pochi anni dopo, John W. Campbell guida la fantascienza statunitense verso la “Golden Age”, il suo sforzo è proprio quello di limitare questa deformazione, che coinvolge tanto la dimensione scientifica della narrazione quanto la descrizione e la caratterizzazione dei suoi protagonisti. Ma anche la fantascienza dell’età dell’oro nella maggior parte dei casi continua ad essere guidata dalla fascinazione per la scienza più che dalla ricerca di predizioni scientifiche attendibili. Il sense of wonder prevale sull’anticipazione.
A cambiare le carte in tavola, negli anni ’50, non è un autore o un’opera: il cambiamento non viene dall’interno del campo fantascientifico, ma dall’esterno. E c’è un fattore chiaro, specifico, che assume un ruolo determinante: la nascita e lo sviluppo dell’astronautica. La fantascienza, così strettamente legata alla percezione ‘popolare’ dello sviluppo scientifico, si trova a fare i conti con una scienza che davvero costruisce razzi e vuole mandare l’uomo nello spazio. La scienza va a guardare le carte: vediamo se davvero la fantascienza aveva ragione. Ma la fantascienza non poteva avere ragione. Il suo obiettivo non era stato quello di prevedere davvero il futuro: faceva solo finta di farlo.
Non è un caso, forse, che proprio mentre la corsa allo spazio e la competizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica sono al culmine, una parte della fantascienza – almeno di quella più interessante e letterariamente più accorta – sembra ritrarsi dallo ‘spazio esterno’: la fantascienza sociologica, e poi la new wave, la scoperta dello spazio interno, la nuova fortuna del fantasy, sembrano altrettanti modi per sottrarsi alla responsabilità (e ai limiti angusti) dell’anticipazione scientifica, per dire che la conquista dello spazio non è “fantascienza realizzata” perché la fantascienza è immaginazione, ammonizione, letteratura speculativa e sociale, non ricerca della predizione azzeccata.
E tuttavia la percezione del grande pubblico non è certo questa: per i più (e dunque anche per moltissimi lettori di fantascienza), la conquista dello spazio è davvero fantascienza realizzata. Negli anni ’50 e ‘60, la fantascienza vive un periodo di curiosa schizofrenia: proprio mentre alcuni fra i suoi autori migliori cercano nuove strade, la fantascienza diventa popolare, popolarissima, perché nella percezione generale – e in particolare in quella della generazione dei baby boomers – è la letteratura della nuova frontiera spaziale.
Il cinema rafforza questa percezione. Le immagini di Destination Moon, il film del 1950 di George Pal che sarà un po’ il capostipite della “fantascienza spaziale” degli anni successivi, sono utilizzate dalla NASA per illustrare i concetti di base del viaggio spaziale, e le prime parole di Amstrong che sbarca sulla luna, “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”, ricordano abbastanza da vicino le parole con cui nel film la luna viene conquistata dagli Stati Uniti “in nome di tutta l’umanità”, dopo un allunaggio reso drammatico dalla necessità di consumare quasi tutto il carburante disponibile per trovare un luogo adatto, esattamente come succederà quasi vent’anni dopo al modulo lunare dell’Apollo 11. Il monolito nero di 2001: A Space Odyssey è geniale immaginazione metafisica, ma la sua collocazione lunare è assolutamente realistica, e la cura maniacale di Kubrick nel rendere scientificamente verosimile ogni particolare della spedizione della Discovery One verso Giove fa di 2001 un esempio indubbio, per quanto sui generis, di fantascienza cinematografica legata a doppio filo all’età della conquista della luna.
Certo, anche in campo letterario vi erano autori che ‘accompagnavano’ con le loro opere l’età dell’astronautica e delle scoperte spaziali. Fra i maestri, proprio l’autore del soggetto di 2001, Arthur C. Clarke, aveva per primo ipotizzato l’idea dei satelliti di telecomunicazione in orbita geostazionaria. Per Clarke la fantascienza è davvero letteratura di anticipazione scientifica, anche se non è certo solo questo. Ma Clarke – che era inglese, non americano – non è un esempio tipico: è uno dei pochissimi casi in cui la fantascienza ha effettivamente formulato predizioni, e ne ha anche azzeccata qualcuna (peraltro, l’idea dei satelliti geostazionari non è stata avanzata da Clarke in un testo di fantascienza ma in un articolo scientifico). E forse la particolare popolarità e fortuna di autori come Clarke, Heinlein, lo stesso Asimov (tutti e tre di formazione scientifica) era legata anche al fatto che rappresentavano una fantascienza nata nell’età dell’oro e capace di lavorare sul sense of wonder e sull’immaginario scientifico, ma, almeno in parte e almeno in alcune opere, anche di dialogare con la scienza ‘vera’, quella che stava portando gli uomini nello spazio.
A differenza da quanto avvenuto negli Stati Uniti, in Italia la fantascienza si è realmente diffusa solo fra gli anni ’50 e ’60, legandosi dunque immediatamente alla corsa allo spazio. Basti pensare alla ‘notte della luna’ e in generale alle cronache televisive delle prime missioni spaziali, che vedevano l’alternarsi dei collegamenti con la NASA e di film di fantascienza. La mia generazione ha scoperto la fantascienza in questo contesto. Tanto la fantascienza delle origini quanto la fantascienza sociologica, la new wave, le opere visionarie di Dick o di Vonnegut, le abbiamo scoperte dopo.
È proprio su questo processo, che porta dalla fantascienza spaziale alla fantascienza come genere ‘aperto’ e multiforme, che vorrei ora brevemente soffermarmi. Ad accompagnare le missioni spaziali era anche da noi negli anni ’60 una fantascienza ‘diffusa’, fatta non solo e non tanto di romanzi e racconti, ma di film, fumetti, serie televisive come Ai confini della realtà, il primo Star Trek, e – trasmessi nel pomeriggio all’interno della “TV dei ragazzi” – Spazio 1999 e UFO. Che si intrecciavano, appunto, con le telecronache delle missioni spaziali della NASA (e quelle telecronache, con i primi collegamenti video via satellite, in un bianco e nero che richiedeva spesso uno sforzo non indifferente di interpretazione delle immagini, erano anch’esse a loro modo strabilianti e fantascientifiche), con i gettoni dorati decorati dalle immagini degli astronauti e dagli stemmi delle missioni spaziali distribuiti nelle stazioni di servizio della Shell e da collezionare in un raccoglitore di cartone, con i dischi 33 giri di plastica sottile e flessibile allegati a Epoca come ‘testimonianze sonore’ delle spedizioni dell’Apollo 11 e dell’Apollo 13, con i quaderni e i diari scolastici dedicati alle missioni Apollo, con le prime pagine dei giornali, che in molti religiosamente ritagliavamo per conservarle.
Ma a contribuire alla fortuna della fantascienza ‘spaziale’ era anche l’affascinante paccottaglia pseudo-scientifica rappresentata soprattutto dai libri di ‘archeologia spaziale’ di Peter Kolosimo, che applicava con maestria la forma-saggio alle sue ardite e improbabili teorie, molte delle quali prese in prestito da Erich von Däniken e W. Raymond Drake, con note e rimandi che spaziavano da testi serissimi a fascicoli di Urania e Planète (la rivista del ‘realismo fantastico’ francese, che riprendeva le idee di Jacques Bergier e Louis Pauwels, autori del Mattino dei maghi, testo a sua volta al confine fra saggio e elucubrazione fantastica, oggi quasi dimenticato ma all’epoca di grande successo). Kolosimo era pubblicato in una collana SugarCo che comprendeva meno virtuosistici ma non meno curiosi volumi sulla terra cava, sui misteri della faccia nascosta della luna, sugli UFO, sul mostro del lago di Loch Ness. Tutti testi di scarsa o nulla attendibilità, ma che si mescolavano con la fantascienza e con le cronache quotidiane e popolari dell’avventura spaziale americana nel costruire un immaginario collettivo assai poco rigoroso e nel contempo non completamente e non unicamente fantastico. Un miscuglio nel quale non era facile districarsi e nel quale non ci si districava, ma nel quale ci si perdeva con dedizione e voluttà.
All’inizio degli anni ’70, dopo i picchi rappresentati dallo sbarco sulla luna e dall’odissea dell’Apollo 13, la corsa allo spazio perde progressivamente rilievo, e la fantascienza immaginata torna man mano a liberarsi dall’ingombrante tutela della fantascienza realizzata. A partire dalla fine degli anni ’60 anche Urania, che dal 1964 era diretta a quattro mani da Fruttero e Lucentini, allarga lo spazio dedicato alla dimensione speculativa della fantascienza, riducendo quello dedicato alle pure avventure spaziali; Galassia, diretta fra il 1965 e il 1970 dal giovanissimo Ugo Malaguti, e poi da Vittorio Curtoni e Gianni Montanari, aveva già aperto da qualche anno alla new wave britannica e ad autori più lontani dal modello – comunque orientato alla scienza – della fantascienza alla Campbell. Piccole case editrici specializzate – la casa editrice La Tribuna, la Nord, la Libra – cominciano a pubblicare collane rilegate, emancipando la fantascienza dalla dimensione esclusiva dell’edicola e mescolando autori ‘classici’, più facilmente riconosciuti dal pubblico, con nomi in Italia assai meno conosciuti. Si moltiplicano le fanzine, spesso poco più che ciclostilati amatoriali, nelle quali l’attenzione verso la dimensione letteraria e sociale del genere, pur se a volte ingenua, è assai maggiore. Se Oltre il cielo, curata da Armando Silvestri e a cavallo fra fanzine e rivista vera e propria, era ancora segnata dal collegamento fra fantascienza e astronautica, le fanzine degli anni ’70 si aprono alla politica, al femminismo, al marxismo. Un collegamento che si farà esplicito con l’incontro fa la fantascienza e il Movimento del 1977, la cui manifestazione più nota è nel lavoro del collettivo milanese di Un’ambigua utopia, fanzine pubblicata fra il 1977 e il 1982 e diretta da Antonio Caronia, instancabile contaminatore di generi e di idee. Non a caso Oltre il cielo – che pubblicava insieme fantascienza, articoli di astronautica e una rubrica fissa in cui Peter Kolosimo esponeva le sue teorie di archeologia spaziale – cessa le pubblicazioni proprio nel 1970, subito dopo lo sbarco sulla luna. L’età della fantascienza spaziale si avvia a tramontare, e si aprono gli spazi per una fantascienza ibrida, multiforme, capace di sperimentazioni letterariamente più mature ma anche di contaminazioni ardite e in qualche caso del tutto improbabili. La fantascienza, insomma, comincia a muoversi verso il postmoderno.
È in questo clima che nel 1975 Ugo Malaguti, che aveva abbandonato Galassia per dar vita alla Libra, e Luigi Cozzi, giovane regista specializzato in fantascienza e horror e con alle spalle l’esperienza della fanzine Futuria fantasia, azzardano una scommessa apparentemente non facile: portare al cinema Planetario di Roma una rassegna dedicata esclusivamente al cinema di fantascienza.
L’aula ottagona, parte del complesso delle Terme di Diocleziano, era dal 1928 sede del Planetario Romano, e ospitava un meraviglioso proiettore Zeiss arrivato dalla Germania come parte dei danni di guerra dopo la prima guerra mondiale. Nel 1975 il Planetario funzionava però prevalentemente come cinema, a metà strada fra la programmazione di ‘seconda visione’ e quella d’essai. Cozzi racconta:
“Nel ’75 convinsi l’Italnoleggio, che programmava le sale, a fare una rassegna di fantascienza a Roma. Un film al giorno al Planetario, che all’epoca era un cinema gestito da loro. Dato che detestavano il cinema di fantascienza, mi diedero i primi tredici giorni di gennaio che sono i più bassi per gli incassi. E fu un successo strepitoso. I film inizialmente venivano proiettati in ordine cronologico, dal King Kong del 1933, passando per i vari decenni fino ad arrivare a 2001: Odissea nello Spazio. Poi dato che facevamo una media di duemila / tremila biglietti a sera le case di distribuzione che prima dicevano “non rompeteci i coglioni”, adesso ci chiedevano se volevamo altri film. Per esempio riuscii ad avere tutta una serie di film come Radiazioni BX: distruzione uomo o Il mostro della Laguna Nera che erano depositati alla Cineteca Nazionale ma che l’Universal ha fatto tirar fuori e rimettere in circolazione con un responso incredibile”.
Il successo della rassegna è in effetti straordinario: in un articolo di Riccardo Esposito che lo ricostruisce con grande attenzione – e dal quale è tratto il passo di Luigi Cozzi appena citato – si ricorda che
“L’affluenza di pubblico è tale che gli iniziali tredici giorni concessi a Cozzi per la sua manifestazione diventano sessanta! Vengono staccati qualcosa come 150.000 biglietti: un vero record per l’epoca e per una programmazione d’essai dedicata a “vecchi” film, quasi tutti in bianco e nero. La rassegna viene poi replicata in altre zone d’Italia, da Milano a Torino, da Firenze a Genova (oltre 70 città in totale”.
Nell’atrio dei cinema, fascicoletti speciali e via via più corposi della “Guida alla fantascienza” – il bollettino editoriale normalmente destinato a presentare le novità della Libra editrice – offrivano schede introduttive a tutti i film in programmazione, mentre i volumi della Libra (in particolare, i numeri della rivista Nova SF) permettevano agli spettatori occasionali un incontro con la fantascienza letteraria.
La stagione delle rassegne, inaugurata al Planetario di Roma, rappresenta probabilmente il momento di massima popolarità in Italia della fantascienza come genere. Certo, negli anni immediatamente successivi arriveranno i successi planetari di Star Wars e di E.T.: ma sono successi di singoli film, che non portano necessariamente (e anzi non portano quasi mai) lo spettatore ad avvicinarsi alla fantascienza in quanto tale. Paradossalmente, anzi, segnano l’avvio di un declino nell’attenzione verso la fantascienza come genere e verso la fantascienza letteraria.
Cosa determina questo straordinario successo? Esposito lo considera come una sorta di ‘sdoganamento’ della fantasia e del fantastico, osteggiati dalla pedagogia troppo realista e razionalista del ’68. Ma è una spiegazione che convince solo in parte. Piuttosto, va considerato il carattere assolutamente eclettico delle pellicole proiettate: accanto alla fantascienza spaziale – che poteva richiamare gli ‘orfani’ della corsa allo spazio del decennio precedente – c’era davvero di tutto: i primi classici, come il King Kong del 1933; B-movie degli anni ’50 e ’60, i cui alieni cattivi e collettivisti testimoniavano molto più la paura del comunismo che quella dello spazio ignoto; film quasi sperimentali degli anni ’60 e ’70… insomma, la rassegna presentava la fantascienza come un territorio in cui fantasia, avventura e speculazione si intrecciavano con grande libertà, in cui cinema, letteratura e critica potevano incontrarsi e dialogare in forme più creative e meno paludate di quanto non avvenisse nel mondo mainstream, e preparava la strada alla svolta ‘postmoderna’ del genere.
Le rassegne del ’75-‘77 sono dunque importanti perché propongono una immagine ‘diversa’ della fantascienza, e la proiettano oltre la stagione della corsa allo spazio; un’immagine apparentemente giocosa e disincantata (nelle rassegne di Roma e Milano la voce fuori campo di Luigi Cozzi, trasformato in annunciatore pazzo, presentava i film attraverso divertenti parodie dei trailer dei B-movie anni ’50), ma in realtà più ricca e complessa. Mettere insieme i B-movie degli anni ’50 e Alphaville di Godard, 2001 e Zardoz, ha comportato di fatto una ridefinizione del concetto di fantascienza, che recupera da un lato il ‘sense of wonder’ e la dimensione immaginifica della fantascienza delle origini, e si mescola dall’altro con l’impegno politico che stava portando al ’77.
È un momento breve, che sarà portato via dal riflusso. Un decennio dopo si affaccerà il nuovo paradigma, quello dell’informatica, e alla frontiera rappresentata dallo spazio si sostituirà quella rappresentata dal computer. Ma questa è naturalmente un’altra storia.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).