Tra le poesie giovanili di Andrea Zanzotto ce n’è una intitolata Villanova che inizia così: Torna il sole dopo la neve / Nel piano è fulgore e luce. Questi due versi mi riportano alla mente i giorni dell’amore, quelli del primo amore che è, sempre, l’amore più appassionato, più falso, più labile, più convulso, più doloroso: dunque, l’amore vero.
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Incontro Roberto circa quattro volte l’anno all’ora di colazione. Ci vediamo presto, intorno alle 7.30, in un bar nel centro di Isernia, ci salutiamo e procediamo con le ordinazioni. Roberto ordina solo un cappuccino, nonostante io tenti di convincerlo a concedersi il lusso di un cornetto. Dico: «È il caso di prendere anche una brioche», con fare fintamente perentorio, utilizzando, oramai per consuetudine la parola «brioche» come si fa a Milano, dove vivo, e cioè come sinonimo di cornetto.
Un tempo per me era disdicevole, ed ero disposto a polemizzare ogni giorno con i barmen meneghini: poi, mi sono rassegnato, come ci si rassegna a tutto.
Ci sediamo al tavolo con due cappuccini e il mio cornetto e iniziamo a parlare.
Parliamo di letteratura, soprattutto, e solo di sghembo di come vanno le cose. Tutto si riduce, su questo punto, a una genericità timida, ma anche a un’attrazione distante, come quella di due amici incapaci di essere amici fino in fondo.
Finisce in un lampo. Ci promettiamo di rivederci presto, magari per un aperitivo o per una cena, ma non succede mai. Alle 9 di solito ci salutiamo. Lui va al lavoro, e io mi godo il mio riposo molisano, che consiste in particolare in tour inconsistenti e ripetitivi della città, alla guida dell’automobile di mia madre, tra tentazioni di nostalgia e prese d’atto di assenza di nostalgia, assenza di profondità.
Non so come Roberto interpreti e viva questi nostri incontri – invece so, per esempio, che non si sarebbe aspettato di diventare il protagonista di questo pezzo, e riservato com’è non so neanche quanto gli faccia piacere – ma so quello che è in me dopo quei 90 minuti trimestrali.
Quei 90 minuti – per una sorta di taciuta condivisione umana, comprensione reciproca, commisti a una lieve distanza, data anche dallo scarso numero di frequentazioni, e dunque a una specie di dolce freddezza, o di fredda calidità – mi lasciano sempre una sensazione misteriosa, in parte simile a quella – rarissima – che si diffonde in me assai intensamente quando mi ritrovo a trascorrere un’ora con il mio amico d’infanzia Guido, una sensazione duplice, ambigua, che è però fonte di un cortocircuito lievemente estatico ma, come tutto nella vita delle cose belle, beffardo. Ci si sente fratelli, si percepisce che qualsiasi cosa al mondo accada la persona che ti è di fronte ci sarà, perché è così. Ma il tempo è troppo breve, i nostri volti sono cresciuti, invecchiati, non conosciamo le nostre reciproche rughe, le nostre ossessioni, le nostre idiosincrasie. Come avranno fatto le mie sopracciglia a infoltirsi così tanto, a permettere che un pelo rigido si scagli indisciplinato nell’aere, così asimmetricamente? Come hai fatto tu a invecchiare così in fretta, le nostre strade sono distanti e nulla finirà tra noi, ma è già tutto finito, siamo uomini oramai, sono un uomo, nulla finirà, come va il lavoro, ti sposerai un giorno, ti sposerai?
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I versi di Andrea Zanzotto in apertura sono, come detto, giovanili, e anch’essi mi ricordano la gioventù. E, appunto, i giorni dell’amore.
Eravamo spesso da lei, così inesperti, così goffi, e così vitali, e la dolcezza e il vigore, e le pause, pasticcini, crostata, cordon blue, nutella.
Ricordo le estati e gli inverni.
Ricordo che un giorno c’era la neve.
Ricordo che i suoi genitori erano gran lavoratori, che quando salivo le scale di casa sua – non aveva l’ascensore, lei! – iniziavo a vibrare.
Ricordo che quel giorno di neve, mentre salivo le scale, pensai proprio questo: che la porta si sarebbe aperta, e ci sarebbe stata lei. Che dopo la neve ci sarebbe stato il sole. Che nelle colline, abbracciati, nudi, avremmo visto fulgore e luce.
Non so davvero se sia mai successo.
Era l’amore.
Navigavamo lievi in sfere abbacinanti.
Eravamo luminescenti.
D’ombra non v’era, né ombra di ombra.
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Quando entravano, di colpo, i suoi genitori, indossavamo presto le nostre t-shirt. Spesso al contrario. Eravamo così goffi, così luminescenti. Non ve ne era di ombra.
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Lo sfondo musicale – tranne quando le pulsioni amorose non ci assalivano per strada, in vicoli non bui, e celati dietro angoli incelabili, visibili ai cittadini tutti – era sempre una compilation, il classico «misto», della band italiana Marlene Kuntz.
Lo avevo elaborato io, selezionando i brani che più mi soddisfacevano dei loro quattro album; prediligevo le ballate, noise, romantiche e che mi parevano raggiungere dei buoni tassi poetici in molti punti – solo anni dopo iniziai a dire, con convinzione, che gli unici a essere poeti sono i poeti e le nonne – come quando il cantante Cristiano Godano cantava strofe quali «Nuotando nell’aria», «Ora la fine è già un’abitudine», o «Noi carne esanime e sfinita».
Quando si è adolescenti, alcuni dischi non fanno mai da sfondo, se non in situazioni amorose. Sono dischi le cui vibrazioni pulsano nelle tue vene, e dunque vivono in te.
All’epoca ero innamorato dell’amore per la mia ragazza, ma ero innamorato anche di questa compilation, delle sue sonorità maliziose, di queste canzoni nere ma rosee, che mi schiaffeggiavano coccolandomi.
Amavo i Marlene Kuntz e mi dispiaceva leggere, su un internet agli albori, le critiche dei fans, delusi dal mio disco preferito, all’epoca l’ultimo uscito, Che cosa vedi?, che appariva loro come un chiaro segnale di prostrazione al commerciale, come una testimonianza ultima dello smarrimento del sound rock, testimonianza ultima del fatto che «i Marlene non sono più quelli di una volta».
Io li amavo, e quando facevamo l’amore, era d’obbligo ascoltarli. Loro cantavano parole come queste che, come culla amorale – ma questo, forse, lo scoprii solo dopo – mi parevano perfette:
Come i fiori al campo danno voluttà
(e non puoi contarne intero il numero)
così saziami con generosità:
tu sei la gioia, e smaglio attratto e cereo
Ho contratto intesa con lo spirito
ora è nudo e, vedi? Non ragiona più.
Come una falena ai lumi palpita
io vado dritto al suono dove imperi tu.
Bastano i prodigi che tu sei
Contano i sapori che mi dai
Io ti giro intorno e ingoio fremiti
Io ti giro intorno senza limiti
A un certo punto, la chitarra di colpo si avviluppava in una distorsione che, mi spiegarono, era facilmente replicabile, ma che appariva come rara, inconsueta, dolcissima e violenta, e dunque mi piace oggi immaginare che fosse in quell’istante che i nostri atti amorosi si concludessero, nella levità stanca, materializzata dai sorrisi, dagli occhi sugli occhi, quegli occhi verdi, da una fusione d’abbracci che sfidava le correnti gravitazionali.
Poi, però.
Poi, però, di colpo sono cresciuto. Si cresce e si muore, in ogni momento.
Mi sono innamorato, disamorato, reinnamorato.
Ho assistito alla decadenza lenta del mio corpo.
Ho smesso di ascoltare i Marlene Kuntz. Ho ascoltato tanta musica, dilettantescamente, incoltamente, Guccini, De Andrè, Scarlatti, Arvo Paart, Tiziano Ferro, Chopin, Piero Ciampi, Beatles, Bob Dylan, Wagner, Claudio Lolli, Elio e le Storie Tese, Caparezza eccetera eccetera.
Sono diventato incapace di amare. Forse.
Una mattina di qualche mese fa, ho chiesto a Roberto di regalarmi il nuovo disco di una band, disco che mi sembrava assai promettente. E’ una vecchia consuetudine: io gli chiedo dei regali, e lui mi asseconda. Lo stare insieme è anche questo: il mio occhio è nel tuo, vivi noi, schegge incorporee, dovunque siamo sappiamo che ci siamo.
Ascoltai subito il disco, testi alla mano e immediatamente pensai: questa è un’opera.
Oggi che, mio malgrado, sono adulto, mi sono messo in testa che le opere sono tali se lambiscono orizzonti universali, se navigano su emisferi cerebrali, stellari, gravitazionali, se affrontano l’esperienza del divenire, lo sgretolamento del Tempo, lo svuotamento, così respirano gli incendi del tempo, il ritmo robotico e dunque non ipnotico, e quindi ipnotico, la putrefazione della carne. Il fantasmatico. Il fantasma.
Il disco in questione si intitola Fantasma ed è per l’appunto fantasmatico.
Presenze incorporee, dunque, lo abitano; corpi senza corpi, corpi oltre i corpi, e fuori dai corpi.
Presenze incorporee ma liriche, lievi, e pianoforti, violini, dammi figli e oscenità, e niente muore, nessuno muore, cantano i Baustelle, comunque, come vedi, nessun diorama racconta il tormento del Minotauro, primo principio di estinzione, fra le tombe del Monumentale non c’è Dio, solo vaga oscurità, e viole, violoncelli, contrabbassi, il finale della temporalità, un fantasma da spedire in allegato, il futuro desertifica la vita ipotetica, e un altro principio di estinzione, il secondo!, e organi e celeste e glockenspiel, e hare krishna, e dice, la band toscana, che sebbene la massa del sole incurvi lo spazio-tempo e ogni religione punti sul concetto di eternità, ci rivolgiamo alle agenzie di viaggi e seguitiamo ad aver paura, soprani, e l’ora dell’ibisco, e contralti, e quella notte la sgozzai, e tenori, e l’estinzione della razza umana, esplorare ogni spazio siderale, abolire l’aldilà, e cori, cori dalle voci bianche, cangianti, bianche, fantasmi, bianche, fantasmi, fantasma.
Non è, ovviamente il primo disco dei Baustelle che ascolto, e li ho sempre seguiti con curiosità.
L’ascolto di questo Fantasma però mi ha ricordato quei tempi, i tempi dell’amore.
Lo ascolto quando posso, e non è sfondo.
Rarissimo con la musica «leggera».
Accade in altri casi, è vero.
Sono orizzonti alati.
È come a quei tempi, le vibrazioni musicali pulsano nelle tue vene, e dunque vivono in te.
Oscillare nelle falde acquifere del pianeta terra.
Obliare gli universi dietro le porte.
Depositare la memoria su resti seppelliti di antichi dolmen.
Scaglie di congegni celesti, ignorarli.
Essere tra quelli che negano il sole.
Dischi come questo non ti fanno dimenticare che il tempo è troppo breve, che i nostri volti sono cresciuti, invecchiati, che non conosciamo le nostre reciproche rughe, le nostre ossessioni, le nostre idiosincrasie. Che nulla finirà tra noi, ma è già tutto finito.
Ma è questo il bello. Siamo dentro il tempo. Respiriamo gli incendi del tempo.
E allora, sarebbe bello, sarebbe bello se io regalassi questo disco a Guido, e se un giorno d’estate io e Guido lo trascorressimo insieme, tra le strade dissestate della nostra regione, a guidare senza meta, entrare nei paesi microscopici, dove giacciono le barbe dissestate tra i banconi di marmo dei bar, offrire limoncelli agli uomini dai bastoni umili, vagare nei vicoli, scovare una chiesa, insieme, e notare che la chiesa in paese è un dolmen, ben conservato, non come le nostre anime, dissestate, e allora le nostre anime dissestate abbracceranno due anziane in una piazza, due anziane che potrebbero essere le nostre nonne, noi che le nonne non le abbiamo più, le nonne, che sono le uniche, insieme ai poeti, a esser poeti, e andremo via, di nuovo, con le nostre anime dissestate, ridendo, e cantando, magari questo disco, e diritti, sulle strade dissestate, torna il sole dopo la neve, nel piano è fulgore e luce, verso un nuovo, identico, miracoloso, paese, senza fine.
La morte non esiste più.
Quanto a Guido: qui deposito questa visione. Se non la vivremo mai, almeno, non potrò mai negare che ti devo un disco. Non masterizzato. Tu però, ti prego, riportami la cassetta di Hanno ucciso l’Uomo ragno che ti prestai nel ’92.
E quanto a Roberto: be’, ora che ho parlato di lui, lui così riservato, così simile a me, non so se accetterà il mio prossimo invito a colazione, tra tre mesi. Se però lo accettassi, caro papà, sappi che questa volta il cornetto lo mangi. Anche due.
Giancarlo Liviano D’Arcangelo è nato a Bologna nel 1977, è cresciuto a Martina Franca e vive a Roma. Ha esordito nel 2007 con il romanzo Andai, dentro la notte illuminata (PeQuod), finalista al premio Viareggio. Nel 2008, con il racconto Ustica, il silenzio e il Segreto ha partecipato all'antologia La Storia siamo noi (Neri Pozza), che ha aperto il Festival delle Letterature di Roma. Nel 2011 ha pubblicato il reportage narrativo Le Ceneri di Mike (Fandango Libri, Premio Croce 2012, Premio Sandro Onofri 2012). È studioso di mass media e scrive di cultura per il quotidiano “l’Unità”.