C’è una felicità nelle prime pagine di Non entrare nel campo degli orfani che basterebbe a spiegare perché rileggo spesso quel romanzo. Me ne rimane, ogni volta, un’euforia. È una felicità nella restituzione della vecchiaia; l’idea della vecchiaia che riluce in quelle pagine dice molto di Enzo Siciliano. C’è anche dell’altro, certo, c’è molto altro nel romanzo. C’è un paese, il nostro, c’è il suo Meridione, c’è la questione della lingua (e va letto La stanza chiara, che Arnaldo Colasanti dedica all’opera di Siciliano; come essenziale è l’introduzione di Raffaele Manica al Meridiano a Siciliano dedicato), c’è un’idea particolare della colpa, tutta nostra, nazionale, che Siciliano rivela; eppure in quelle prime pagine c’è qualcosa di speciale entro cui s’iscrive tutto il resto, qualcosa che lo mette in prospettiva, a gambe all’aria. È la felicità nella restituzione di un’allegria della vecchiaia, un’allegria forse mai raccontata. C’è di mezzo l’intuito, la precisione di Siciliano nel raccontare i corpi. Due persone, nella tarda mattina, ciascuno nel suo letto, due uomini in là con gli anni si fanno una telefonata. Siciliano riesce a raccontare questo scambio di voci, diffidenti, complici, sornione, ridenti, arrese. Qui le voci hanno un corpo, già si sente solo ad ascoltarle, sono voci alle quali gli anni hanno sottratto gravità, voci che si sono fatte leggere. (Come se nella voce della Sibilla che ha avuto l’immortalità ma ha perso il corpo perché il suo corpo è restato corpo umano non ci fosse dolore ma allegria). Similmente è successo ai corpi. Ognuno nel suo letto, a centinaia di chilometri di distanza, i corpi dei due uomini sono corpi concreti che con gli anni hanno smesso il peso come ci si spoglia da una corazza, hanno smesso il vigore, ma quello che è rimasto è l’essenziale, pelle, carne, un tepore che si sente permanere tra le coperte, semplice stare al mondo, piccolo conforto: un passo, soltanto un passo, ma è un passo decisivo, in senso opposto rispetto alla desolazione (la desolazione sta sotto come una inerzia che chiama e che rivela quanto è forte l’allegria, il piccolo tepore che la vince). Una mitezza finalmente legittima. Il sole che si sente premere sulle stanze, tenuto a bada dai battenti, è un contrappunto. La sua potenza e ancora lì, evocata eppure contenuta. Sta lì a ricordare che tra il tepore sotto le coperte e il calore del sole c’è un’intima parentela: è la vita è la vita è la vita. Il dialogo preciso, umanissimo, somiglia a un cinguettio. C’è un arbitrio, forse, ma non posso fare a meno ogni volta di pensare agli uccelletti morantiani, quelli che nel Mondo salvato dai ragazzini e nella Storia, contemplando la vita alla luce del suo esito sembrava commentassero lieti: “è uno scherzo, è uno scherzo, è uno scherzo”. Eppure nel lieve conversare dei personaggi di Siciliano non è la morte il termine di paragone, non è la morte che mette in prospettiva le grandi passioni, i dolori, la rigida sclerotica difesa della propria identità, non è la morte che rende poca cosa persino i crimini, è sufficiente a farlo la nudità della vecchiaia, che rivela cosa va e cosa permane, di cosa siamo fatti, cos’è per davvero essere vivi, cos’è – va detto sorridendo – la condizione umana. Pochi come lui hanno saputo raccontare gli occhi liquidi e trasparenti dei vecchi, l’anziano letterato calabrese con cui il protagonista si trova più di una volta a conversare è un personaggio che non si dimentica. Anziano e letterato, è quasi uno stregone, perché in fondo frequentare la letteratura, sembra dire Siciliano, permette questo: mettersi nella condizione della nudità della vecchiaia in ogni momento della vita, possedere il setaccio che separa, separa cosa? Quello che sembra polvere da quel che sembra oro. E salva la polvere? Chissà se Siciliano contesterebbe quel che scrivo. Lo so che è anche uno scrittore civile. Ed è vero, questo libro racconta la mutazione antropologica come un pretenzioso incompiuto processo che aggredisce un tessuto comunitario, un sistema agricolo, modalità di relazioni, una lingua, senza dare in cambio un altro tessuto, o un altro sistema produttivo ma solamente la sua parvenza, cattedrali nel deserto, isolamento, una lingua senza comunità e senza corpo, né carne né pesce come chi la parla (lontana dalla lingua di una comunità, lontana dalla lingua letteraria). Come se la metamorfosi s’interrompesse a metà lasciando il leone metà serpente. Racconta di un peccato originale del tempo della Repubblica, non l’irresponsabilità, ma la sottrazione della possibilità della responsabilità. Chi non ha potuto essere neanche colpevole paga e non smette di pagare la mancata assunzione di una responsabilità. Siciliano legge la condizione italiana, in particolare la condizione meridionale del Dopoguerra, come una condizione tragica e la mette in pagina attraverso un personaggio, Fausto, che è un eroe debole, debole e perciò tragico. Che l’esito, per i figli rifiutati di coloro che non sono né carne né pesce, per i nipoti della mutazione inattuata, possa essere il terrorismo, letto come arido gioco, non stupisce, e fa sì che Siciliano sia tra quelli che tentano un lettura dei fatti nel nostro lungo Dopoguerra in chiave antropologica oltre che storica (come poi farà anche Giorgio Vasta con Il tempo materiale). Racconto della condizione umana, della sua ineludibile bellezza e della condizione storica e antropologica che è doveroso leggere nel nostro passato recente, è la polarità che nel romanzo si propone, una polarità che in Siciliano c’è sempre. Paolo di Paolo, nel suo saggio Il Passaggio delle idee, sull’ultimo numero di questa rivista, ricordava come Siciliano nel Diario mettesse di continuo in contrappunto la descrizione del paesaggio alla riflessione sui fatti politici e letterari. Credo che il senso fosse questo: la continua restituzione della polarità, una polarità che è tensione senza scioglimento, tra la condizione umana e le dinamiche sociali, l’una e le altre che chiedono restituzione e ascolto. Eppure, quello che resta al setaccio di Fausto, il personaggio che non è né carne né pesce, il padre non padre, la cui stessa lingua porta il segno della ferita mai cicatrizzata, è una bellezza. È bello Fausto giovane steso nudo al bordo di una vasca, sotto il sole, in paziente attesa dello sguardo di qualche donna che passa di lì per i suoi casi, è bello vecchio, in un corpo che ormai non si offre al sole se non nelle faccende quotidiane. Forse senza questa corporeità che resta bellezza anche quando il vigore è svanito, anzi proprio allora si rivela più forte, non metterebbe neanche conto trattare i destini di una nazione; certo questa corporeità non è una pace.
Scrittore, critico e a lungo direttore di «Nuovi Argomenti», Enzo Siciliano (1934-2006) avrebbe quest’anno compiuto ottant’anni. Per ogni numero del 2014, un collaboratore inviterà alla lettura o rilettura dei suoi romanzi. Nel numero 66, da cui è tratto questo testo, Carola Susani rilegge per noi Non entrare nel campo degli orfani (2002).
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).