Marina pedina il topo con lo sguardo, poi con il dito. I topi la hanno sempre disgustata, ma questo non le fa lo stesso effetto e, anzi, osservandolo più attentamente – le vibrisse che tremano sul muso, il padiglione glabro delle orecchie, le zampine leste – sente persino di volergli bene. Così bene che gli ha costruito una piccola prigione, ostruendogli il cammino in ogni lato, e ora ne segue i movimenti, i disperati tentativi di fuggire, che si fanno man mano più timidi, fino a che il topino si adegua al nuovo spazio, annusa tutto intorno e squittisce, una sola volta, per poi ergersi sulle zampe posteriori mentre, con la lunga coda, si bilancia.
Il topo, d’un tratto, non desidera più scappare – comprende Marina -, osserva i confini del nuovo spazio e li avverte non più come un limite, ma come una soglia; d’improvviso, ne è certo, non v’è più alcun baluardo che blocca il suo passaggio e lo segrega in un luogo sconosciuto, ma è lui stesso che, di sua piena e spontanea volontà, con risolutezza e nerbo, ha deciso di non oltrepassare i valichi di frontiera che, così opportunamente, lo proteggono dall’esterno. D’altra parte – riflette Marina – anche lei si è abituata ai muri della propria casa, al punto da non considerare più porta e finestre come la felice congiunzione tra il dentro e il fuori, bensì come un’intrusione sfacciata nel suo più intimo accadere. Questa sottile coincidenza rinvigorisce l’affetto che, già, Marina avverte per il piccolo topo.
Marina, d’un tratto, si accorge che anche l’ospite la sta guardando: quieti, lucidi e curiosi, ben fissi nei suoi, gli occhi piccoli e neri del roditore sono – virtù del tutto insospettabile – anch’essi provvisti di palpebre, al punto che si stupisce della somiglianza con i propri.
Ricorda di aver letto in qualche libro – ha una memoria formidabile, anche se le è sempre servita a poco nella vita – che il topo è considerato tra i cento animali più dannosi al mondo: le pare incredibile si faccia tanto rumore per un esserino di appena dieci grammi, con una grande propensione ai rapporti interpersonali, è evidente, e spiccate capacità di adattamento. Certo – si dice – se non fosse un unico, misero, solitario, intrappolato, conformato, domato topino, ma invece un branco di muridi affamati, organizzati, malati, pronti all’invasione, allora sarebbe diverso. Da solo è più controllabile, e anche più carino.
Quasi volesse in qualche modo intercedere con le acute intuizioni di Marina, l’animaletto, ancora in piedi su due zampe, agita una manina: rosa, com’è rosa la mano di Marina; l’unica differenza, pare, è che le cinque dita sono munite non di unghie, ma di artigli.
«Che hai da guardare, topino?» domanda Marina, carezzandogli con la punta del dito, il manto bruno e rado della fronte. Per qualche secondo attende un riscontro che non arriva, ma poi comprende: l’animale – lei lo sa, lo sospetta – avrebbe ben il diritto di restituirle lo stesso insolubile interrogativo e i topi si sa, da che mondo è mondo, non sono mai stati grandi sostenitori della retorica. D’altra parte nemmeno lei lo è, la retorica la infastidisce, e questo – ammette a se stessa – è un altro elemento che la accomuna al topo. Cos’altro? – si chiede in preda a un entusiasmo sconosciuto – cos’altro ci rende così simili?
Lo scruta, è ormai da molto tempo che è in contemplazione del topino, ma il tempo abbonda: da qualche mese, infatti, le ore non trascorrono più, i minuti non vengono scanditi e il globo intero si è fermato, colpevole un virus altamente contagioso che spaventa, ancor più che i cittadini, i responsabili governi e gli ineccepibili governanti. È fatto, a ognuno, divieto assoluto di uscire, anche solo per una boccata d’aria; la casa, quella sì, è sicura, purché nessun altro vi entri per contaminarla: del tutto laclosianamente le relazioni sono considerate, ormai, pericolose. È fatta salva, però, la possibilità di recarsi, a passo svelto e con il volto coperto da una maschera, nel più vicino tra gli esercizi commerciali del quartiere, per procurarsi gli alimenti essenziali a svolgere – senza che la fame si trasformi in malnutrizione – la quarantena; in tal caso, tuttavia, il permesso di uscire deve essere obbligatoriamente concesso da un medico che certifichi, al domandante, il sussistere di una effettiva necessità di procurarsi beni di prima necessità. Sui marciapiedi, semideserti, passeggiano soltanto i soldati dell’Esercito, mitra sottobraccio, aria vigile e severa, pronti a fermare qualsiasi pedone non autorizzato e ad arrestarlo senza la minima indulgenza. Marina aguzza la vista, investiga e fruga, alla ricerca dell’elemento che le chiarisca il perché di questo suo sentirsi così prossima e affine al piccolo animale intrappolato. La sua testa – pensa – seppure ha una forma allungata, presenta due occhi muniti di palpebre, una bocca delimitata da labbra, un bel paio di narici e persino delle funzionali orecchie! Che abbia qualche pelo superfluo o una coda ricoperta di scaglie disposte ad anelli, in fondo, non basta a negare, senza ombra di smentita, la somiglianza tra il topo e Marina, se è vero che anche lui vede, comunica e sente. Di questi tempi, infatti, sarebbe considerato del tutto politicamente scorretto addivenire a una siffatta conclusione: vorrebbe dire – osserva Marina – accettare, in qualche modo, che piccole differenze fisiche, quali un poco di villosità o un osso sacro appena più sviluppato di un altro, comportino l’appartenenza, certa e incontrovertibile, a un’altra razza se non, addirittura, a un’altra specie. L’ospite, intanto, sembra del tutto a proprio agio: si è sistemato al centro del perimetro che gli è stato dedicato e, accovacciato sulle zampine posteriori, si sfrega il musetto con le manine. Marina osserva la piccola linguetta, rossa e spugnosa, dell’amico; è commossa dalla scena, il topino si lava, sereno e disinvolto, e dinanzi all’enorme figura della sua rapitrice non mostra alcuna insofferenza per la propria prigionia, ma si comporta come fosse un inquilino soddisfatto, un libero utente di spazi perimetrati su pavimenti altrui, insomma, un topo fortunato. Di punto in bianco, Marina, ricorda una frase della Arendt che la sua corteccia cerebrale ha ripescato, chissà perché, dal suo brillante bagaglio di studi umanistici – anche questo inutile, oggi che il suo mestiere consiste nel realizzare grafici a linee, a dispersione o a torta su Excel: Nessuno ha il diritto di obbedire. Senza particolarmente soffermarsi sul significato di tale precetto, che le pare quantomeno astruso, si compiace al pensiero che esista persino una categoria morale che la accomuna al buon topino: quella dell’obbedienza. Tale consapevolezza, la promessa di una somiglianza sempre più intima e profonda, le intiepidisce il cuore; così Marina, senza approfondire la questione sull’effettività di un diritto laddove sia esclusa a priori ogni possibile condotta alternativa, corre immediatamente al frigorifero – non vuole star lontana dal suo amico neanche per un poco, ma al contempo desidera sfamarlo – e prende un pezzettino di formaggio secco. Mentre si accinge a tornare alla postazione di vedetta e contemplazione, il suo sguardo si posa, involontariamente, sulla finestra: oltre i vetri, su quelle stesse strade che fino all’ultima volta in cui le aveva osservate (quanto tempo è passato dall’ultima volta in cui le ho osservate?, pensa) erano deserte, ora brulicano centinaia di ombre. Si avvicina, le ombre non sono più ombre, assumono forme e colori e, a guardarle bene, sembrerebbero esseri umani. Marina, sconvolta (da quanto tempo non vedevo più un essere umano, un civile?, pensa) si porta le mani alla bocca, nota che fuori è già estate, gli umani indossano abiti leggeri, impugnano coni gelato e non più mitra; nessuna divisa mimetica sfila, ora, sulla strada, ma gonne colorate e svolazzanti, sandali di cuoio e pantaloni di lino. Apre la finestra e gli schiamazzi della città riempiono d’allegria la sua casa silenziosa, gridano i bambini, mentre si rincorrono nel parco, ridono due signore davanti a una vetrina di dolciumi: una lacrima, timida ma compatta, scende dall’occhio sinistro di Marina sino a posarsi sul suo prolabio; subito dopo, viene seguita da un’altra lacrima, che stavolta, percorre silenziosa la guancia destra.
Marina è felice, felice davvero, come non ricorda di essere mai stata prima. Decisa a catapultarsi immediatamente giù in strada, d’un tratto si volta e si imbatte in un terribile topo. Che essere ripugnante! – pensa – che creatura pericolosa e malvagia! Tra il terrore e il ribrezzo Marina si avventa su una scopa e, senza nemmeno accorgersene, lascia cadere in terra il pezzo di formaggio. Vai via, via, disgustosa creatura!, grida al povero animaletto che, anche lui atterrito, comincia a correre, a una velocità indicibile, intorno al proprio asse, completando più volte l’intero perimetro che delimita, inderogabilmente, i suoi movimenti. Il topino ha il tempo, forse, di recitare una breve preghiera mentre, disperato e sconfitto, si porta le solite manine rosa sul muso, quasi a volersi coprire gli occhi prima che la scopa lo colpisca e, inclemente, lo uccida.
Anna Giurickovic Dato è una scrittrice italiana. È nata a Catania nel 1989, ha origini serbe, è cresciuta a Milano e vive tra Roma e Parigi. È avvocato, ha un dottorato in diritto pubblico, ed è sceneggiatrice e autrice di cartoni animati per la tv.
È autrice del romanzo La figlia femmina (Fazi Editore, 2017), tradotto all’estero in cinque paesi tra cui Francia, Germania e Spagna. Il grande me (Fazi Editore, 2020) è il suo secondo romanzo.