Nonostante i pronostici favorevoli, neanche quest’anno Murakami Haruki è risultato il vincitore del Nobel per la letteratura. Anche se ha definito “quite annoying” tutta l’attenzione che negli ultimi anni a ogni inizio ottobre si crea attorno a lui, rimane uno dei favoriti per l’assegnazione del premio (anche se con le quotazioni leggermente in calo). Murakami sarebbe il terzo giapponese della storia e forse, il meno giapponese dei tre. La storia del Sol Levante letterario ai Nobel è una storia di una progressiva depersonalizzazione nazionale, che comincia la sera del 12 dicembre 1968, a Stoccolma.
Kawabata Yasunari, primo scrittore giapponese a ricevere il Nobel per la letteratura, sta tenendo il suo discorso di accettazione. È vestito in abiti tradizionali: nelle foto dell’epoca l’esile figura dello scrittore settantenne sembra muoversi con calma compostezza all’interno dei drappeggi del grande kimono nero, nell’inchino rivolto al comitato svedese, tutto in frak d’ordinanza.
La volontà di sottolineare la differenza tra la cultura nipponica e l’occidente è chiara: il discorso di intitola “La bellezza del Giappone ed io” ed è improntato tutto sui valori tradizionali giapponesi. La letteratura del Sol Levante è ancora tutta tesa verso la tradizione letteraria di inizio novecento: se escludiamo il primo periodo di assorbimento della filosofia occidentale avvenuto nel Periodo Meiji, le commistioni letteraria col mondo occidentale sono ancora vaghe e molto rare.
Passeranno ventisei anni prima che un altro giapponese vinca il Nobel. Si tratterà di Kenzaburō Ōe che nel 1994, in una polemica nemmeno troppo velata col suo illustre predecessore Kawabata, intitola il suo discorso “Io e il mio ambiguo Giappone”, significando così l’avvenuta apertura del paese alle impressioni “orientaliste” occidentali e puntando l’accento sui paradossi e le contraddizioni del paese. Kenzaburō è uno scrittore difficilmente collocabile in una tradizione letteraria, sicuramente non appartiene a quella dei maestri della letteratura post bellica come Tanizaki, Kawabata e Mishima che scrivevano rifacendosi alla chiara separazione tra letteratura “alta” e “letteratura” popolare che esisteva in Giappone.
Nel periodo che intercorre tra i due Nobel la letteratura nipponica avrà il tempo di discostarsi molto da quello che era stata fino ad allora. Ora le tematiche e la vita degli adolescenti diventano di dominio pubblico, insieme a un rinnovato interesse circa le questioni occidentali, soprattutto tra i giovani.
Fu il libro Almost transparent blue di Ryu Murakami ad aprire per primo gli argini del consenso, che verranno definitivamente distrutti pochi anni dopo da una nuova generazione di scrittori che affonderà le proprie radici stilistiche nella cultura occidentale. Con questo libro ormai introvabile in Italia, Ryu aveva iniziato l’opera di svecchiamento delle categorie letterarie giapponesi, sottoponendo al pubblico un’opera dove il radicamento della cultura nipponica veniva simboleggiato solo dai luoghi in cui la scena si svolgeva. Il libro racconta di un gruppo di ragazzi che, insoddisfatti delle vite che portano avanti, si dedicano senza sosta alla musica rock, al sesso spinto e all’uso di droghe. Nonostante il libro abbia poi vinto il prestigioso premio per esordienti Akutagawa, divise la critica e il pubblico giapponese.
Ma ormai qualcosa si era rotto, l’argine aveva una breccia, il Giappone era pronto ad accogliere dentro di sé nuove voci e a offrire al pubblico più giovane storie che erano senza dubbio preparati a comprendere.
Nell’ultima pagina del terzo volume di Storia della letteratura giapponese di Kato Shuici (Marsilio, 2000) si legge (a dire il vero con una certa inflessione pedante), a proposito dei nuovi autori che conobbero il successo a partire dagli anni ’80 come Tanaka Yasuo, Murakami Haruki e Yoshimoto Banana:
Questi libri acquistati da milioni di persone hanno tratti comuni. Diversi dai personaggi dei precedenti romanzi popolari, i protagonisti sono tutti giovani, non hanno legami familiari né preoccupazioni economiche, si muovono in uno spazio astratto, quasi artificiale, senza sentimentalismi, senza restare coinvolti con il destino di altri. Uomini e donne egocentrici, spesso intelligenti, spesso emotivi, e quasi sempre melanconici, che vivono una vita senza scopo. Si appassionano alle novità, alle cose che vanno di moda: vestiti, musica, vitto, località e infine al rapporto tra uomo e donna; non fanno che andare a far spese, telefonare, incontrare gli amici, e andare a letto insieme. Né passione d’amore, né odio, né una forte personalità. I personaggi fanno questo, fanno quello, a casaccio, «nantonaku», senza sapere perché, come l’ha definito Tanaka Yasuo. Sono «nantonaku storie».
È in questa scia che si inserisce il lavoro di Murakami Haruki, ormai da qualche anno ospite fisso nelle liste dei possibili vincitori del Nobel. Murakami col tempo è diventato uno scrittore di bestsellers che conta lettori appassionati in tutto il mondo (e altrettanti detrattori) mantenendo però una sua coerenza letteraria.
Murakami Haruki nasce a Kyoto il 12 gennaio del 1949, figlio di due docenti di letteratura giapponese (il padre è il figlio di un monaco buddista dal quale erediterà il ruolo di priore del tempio). Affascinato dalla letteratura e dalla filosofia occidentale, ancora prima di finire gli studi aprirà con la moglie Yoko un jazz bar, il “Peter Cat”, dove nei momenti di vuoto si dedicherà quasi esclusivamente alla letteratura. La musica jazz, i bar e i gatti sono elementi che ricorrono spesso nell’opera di Murakami.
Immagine originale di Grant Snider qui.
Murakami inizia a scrivere a ventinove anni, dopo un lucido momento di autocoscienza avvenuto durante una partita di baseball e che per certi versi ricorda l’avventura di Bobo lo scimpanzé in un racconto di Auslander:
In April 1978, I was watching a baseball game in the Jingu Stadium in Tokyo, the sun was shining, I was drinking a beer. And when Dave Hilton of the Yakult Swallows made a perfect hit, at that instant I knew I was going to write a novel. It was a warm sensation. I can still feel it in my heart.
I primi due libri, mai pubblicati in Italia, sono Ascolta la canzone del vento e Flipper del 1973. Sono i primi capitoli di un’opera che sarà poi definita “La trilogia del ratto” a causa del nome di uno dei personaggi, e che vedrà la fine nel primo libro di Murakami pubblicato anche in Italia: Nel segno della pecora, dove la ricerca che con lo scorrere della pagine diventa simbolico-metafisica di una pecora con una stella scura sul dorso perduta nelle montagne è la metafora di un cammino di ricerca di verità sull’identità stessa del protagonista. Già cominciano a essere presenti le tematiche di mistero, alterità e dualismo che costituiranno le pietre d’angolo delle opere di Murakami.
Come dice Giorgio Amitrano, che con Antonietta Pastore traduce le opere di Murakami per Einaudi, in una lectio magistralis alla Scuola Normale Superiore di Pisa, è con il suo quarto romanzo, La fine del mondo e il paese delle meraviglie che la complessa struttura di un mondo duale in cui l’aldilà diviene specchio rovesciato di questa realtà diventa un punto fermo dello stile dello scrittore giapponese.
Per Murakami la struttura concettuale aldiqua / aldilà rappresenta l’essenza stessa del reale. La parte nascosta, per quanto sconosciuta, è descritta precisamente nel suo velo di mistero onirico e forma l’intelaiatura che ha il compito di reggere e conservare la parte che conosciamo, quella materiale, quotidiana, temporale. Il varco tra le due realtà non è chiuso da una valvola di ritegno: il passaggio è bidirezionale, in un’attestazione che in occidente definiremmo paranormale che però non avrebbe dignità nel mondo di Murakami; nella sua opera non c’è magia o esoterismo. La precisione della lingua giapponese, il suo andamento paratattico aiuta nella descrizione perfetta del surreale. La decostruzione della realtà e la sua divisione in un dualismo in cui i protagonisti vengono immersi come in fluido osmotico rappresenta una deviazione dallo standard letterario giapponese, e sarà presente in quasi tutti i suoi scritti fino al suo ultimo romanzo precisamente costruito con un’architettura evidentemente duale: 1Q84.
Ma è con un romanzo “classico” che Murakami diventa lo scrittore venerato che è oggi: è con Norwegian Wood che, in Giappone prima e nel resto del mondo poi, scoppia il caso Murakami. Norwegian wood, che a partire dal titolo rievoca le atmosfere beatlesiane, è un romanzo nel senso proprio del termine, in una delle poche opere non surreali che ha scritto, diventando una sorta di “anomalia” letteraria nella produzione di Murakami.
Il libro, pubblicato nel 1987 e che ormai conta 12 milioni di copie vendute in tutto il mondo, è diventato una sorta di malinconica opera cult post adolescenziale. Il protagonista, in un lungo flashback, ripercorre la sua vita, le esperienze dolorose come la morte del suo migliore amico, la fragile Naoko e la tempestiva Midori, in una sorta di romanzo psicologico che centra perfettamente il target cui è destinato.
E mi chiedo dove siamo andati a finire noi due. Come è potuto succedere? Dove è andato a finire tutto quello che ci sembrava così prezioso, dov’è lei e dov’è la persona che ero allora, il mio mondo?
In questo libro, staccandosi dal carattere dimesso della narrazione gli eventi attraverso una patina di crudezza, hard boiled, i personaggi di Murakami non hanno mai paura di abbandonarsi all’emotività. Anche quelli più schivi sono perfettamente in contatto con sé stessi, e soprattutto, conoscono alla perfezione le parole per dichiarare i loro stati d’animo. In una sorta di elementarismo wundtiano, come per i mondi surreali di cui sopra, anche per i sentimenti egli usa lo stesso metodo descrittivo: il rischio è quello di scambiare la chiarezza di Murakami per una banalizzazione dei sentimenti che descrive.
La fortunata singolarità di Norwegian Wood proclama Murakami Haruki come lo scrittore giapponese più apprezzato del suo tempo. Scrive Amitrano nell’introduzione al libro:
È probabile che in Murakami abbia giocato la fascinazione per una forma letteraria che non appartiene alla tradizione nipponica, il grande romanzo europeo dell’Ottocento. Egli ne fornisce, ovviamente, una versione attualizzata, ma gli infiniti riferimenti alla cultura pop non riescono a nascondere il disegno, ispirato, ispirato al grande romanzo ottocentesco, che appare in filigrana.
Murakami Haruki dietro il bancone del Peters Cat
Dopo Norwegian Wood Murakami tornerà a tematiche a lui più congeniali. In Dance Dance Dance, forse il suo libro più complesso, si vedrà di nuovo Nezumi, il ratto della sua prima trilogia e il Dolphin Hotel, apparso anch’esso in Nel segno della pecora. In L’uccello che girava le viti del mondo, in una trama da 823 pagine che ripercorre attraverso lunghe digressioni le esperienze personali dei protagonisti il ruolo del Giappone nella seconda guerra mondiale, il protagonista Toru Okada si mette alla ricerca della moglie scomparsa attraverso passaggi sotterranei e situazioni anomale guidato da personaggi poco raccomandabili.
Il “realismo magico” di Murakami si sposa con una tentazione giallistica di stampo psicologico. Il mondo surreale di Murakami è strettamente funzionale alla sua trama di ricerca (come nell’Uccello che girava le viti del mondo, A sud del confine a ovest del sole o il più recente L’incolore Tazaki Tzukuru e i suoi anni di pellegrinaggio), o di iniziazione (Kafka sulla spiaggia). Nel breve respiro dei racconti invece (l’ultimo è Uomini senza donne) il surrealismo si stempera in storie di viaggi, di incontri fugaci, sempre senza mai svelare fino in fondo la trama che li anima e li genera. Il disorientamento provocato dall’assenza di categorie reali alla quale aggrappare il fondamento della lettura si scontra con la precisione minuziosa delle descrizioni. La sospensione dell’incredulità del lettore lo fa ritrovare insomma in un mondo che non conosce, ma di cui ha tutte le informazioni per sapere com’è fatto. In 1Q84 per esempio, i due mondi (1984 / 1Q84) si offrono al lettore come due grandi palcoscenici su cui vengono recitate parallelamente le scene, differenziandosi solo per un particolare. Nel mondo del 1Q84 c’è un’altra luna, più piccola, vicino alla solita:
Anche la notte seguente le lune erano due. La più grande era quella di sempre. La sua superficie però era soffusa di un biancore strano come se fosse appena passata attraverso una montagna di cenere. A parte questo, era la solita vecchia luna di sempre, la stessa su cui, in quella calda estate del 1969, Neil Armstrong aveva mosso un passo piccolo ma enorme. E accanto ce n’era un’altra verdastra e sbilenca. Era sospesa timidamente accanto alla luna grande, come un bambino malformato.
Dopotutto, per stessa dichiarazione di Murakami, nella lista dei suoi autori di riferimento non ci sono scrittori giapponesi. Nonostante la sua produzione letteraria molto ampia (è uscito in Giappone il 10 settembre scorso il suo ultimo saggio La professione del romanziere, che racconta la sua vita da scrittore alla stregua di quanto aveva fatto con L’arte di correre in cui scriveva della sua predilezione per dimensione psicologica della corsa) è il traduttore per il Giappone delle opere di autori come Capote, Fitzgerald, Carver. E forse è stata proprio questa fascinazione a farlo considerare come il meno giapponese degli autori del Sol Levante; in una recensione di Nel segno della Pecora apparsa sul «New York Times» rievocata anche da Kenzaburō Ōe in una discussione con Kazuo Ishiguro (anche lui giapponese ma che predilige l’inglese come lingua letteraria) si proponeva addirittura Murakami come l’esempio più limpido di una letteratura che ormai si era fatta globalizzata e internazionale:
A Wild Sheep Chase by Haruki Murakami is a bold new advance in a category of international fiction that could be called the trans-Pacific novel. Youthful, slangy, political and allegorical, Mr. Murakami is a writer who seems to be aware of every current American novel and popular song.
Sarebbe dunque la “cattiva influenza” degli scrittori americani sui giovani autori giapponesi a far sì che essi si siano distaccati dalle opere della tradizione, cercando consenso e nuove ispirazioni al di là dell’oceano. È interessante notare come quest’accusa venga riproposta molto spesso, anche in Italia. È naturalmente impossibile (e forse ha anche poco senso) verificare se questo sia vero, o se sia solo il naturale processo conservatore di una cultura che cerca, definendo i suoi limiti, di salvare ciò che l’ha resa grande.
Nonostante generi attorno a sé un vasto commercio che esula dai libri e che comprende film, riviste che indagano le trame suoi romanzi, gadget e addirittura il progetto per un videogioco, Murakami Haruki è uno scrittore dalla personalità schiva, che non ama farsi vedere in pubblico o rilasciare interviste troppo spesso. Anche i temi trattati nei suoi libri, la propensione per il mistero e la narrazione dell’irreale, non hanno un riscontro nella personalità dell’autore. In una bella intervista uscita sul New Yorker, alla domanda della giornalista Deborah Treisman, Murakami risponde: «This life is plenty. I have no desire for previous or future lives. After my death, I hope to sleep in peace».
Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.