Alessandro Lolli traduce dall’inglese all’italiano alcune pagine centrali di The Time of Indifference: il romanzo di Alberto Moravia nella versione inglese di Tami Calliope.
The Time of Indifference
I marciapiedi erano gremiti di persone, la strada brulicava di macchine; era l’ora di punta. Michele camminava lentamente, senza ombrello, come fosse una secca giornata di sole, guardando stancamente le vetrine dei negozi, le donne, le insegne illuminate sospese nel buio. Ma nonostante tutti i suoi sforzi, non riusciva a interessarsi allo spettacolo di questa vecchia strada. L’angoscia che lo aveva invaso senza ragione, non appena aveva attraversato il salone vuoto dell’hotel, era ancora depositata dentro di lui, e la sua immagine, l’immagine di se stesso per come era davvero e che non avrebbe potuto dimenticare, lo perseguitava; gli sembrava potesse vedersi adesso: solo, miserabile e indifferente. Sentì un improvviso desiderio di andare al cinema. C’era un cinema in quella strada, uno molto lussuoso, sulle cui porte di marmo scorreva perpetuamente un vistoso tendone elettrico. Michele si avvicinò e guardò le locandine: roba cinese fatta in America, troppo stupida. Si accese una sigaretta e riprese la sua camminata disperata nella pioggia, nel mezzo della folla; buttò la sigaretta; niente da fare. Nel frattempo l’angoscia stava aumentando, non c’era dubbio su questo, conosceva già il processo: dapprima una vaga incertezza, una mancanza di fiducia in se stessi, un senso di futilità, unito alla necessità di essere impegnato, di fare cose, di sentire chiaramente qualcosa; poi, a poco a poco, la gola secca, l’amaro in bocca, gli occhi spalancati, l’ossessivo ripetersi di certe frasi assurde nella sua mente: nel complesso una disperazione furiosa priva di illusioni. Michele viveva nel terrore di questa particolare angoscia. Non voleva pensarci, voleva vivere come tutti gli altri, minuto per minuto, senza ansie profonde, in pace con se stesso e con gli altri; voleva “essere un idiota” sospirava a volte, ma sempre quando meno se lo aspettava, una parola, un’immagine, un pensiero lo riportavano all’eterna domanda, e allora tutte le distrazioni si sgretolavano, ogni sforzo fatto si rivelava vano, doveva pensare.
Quel giorno, mentre camminava lentamente per il marciapiede affollato, guardò in basso alle centinaia di piedi che scorrevano insieme sul bagnato e fu colpito dalla futilità dei suoi stessi movimenti. “Tutte queste persone” pensò “sanno dove stanno andando e quello che vogliono, hanno uno scopo e così si affrettano, sono tormentati, tristi, felici, vivi, invece io… io non ho niente… nessuno scopo… se non stessi camminando, starei seduto; non farebbe nessuna differenza”. Non riusciva ad alzare gli occhi da terra: c’era, questo è certo, in quei piedi che avanzavano nella sporcizia, un genere di sicurezza, una fede che lui non aveva e quando li guardava, il disgusto che provava per se stesso cresceva ancora; si trovava in questa situazione dovunque andasse, insensato, indifferente; e questa strada piovosa era sul serio la sua vita, attraversata senza fede e senza entusiasmo, con gli occhi frastornati, accecati dal bagliore economico e sgargiante delle insegne elettriche. Alzò gli occhi al cielo: stupidi annunci pubblicitari anche lì, lampeggiavano senza sosta nell’oscurità sopra di lui. Uno raccomandava una marca di dentifrici, un altro un tipo di lucido da scarpe. “E io dove sto andando?” si chiese ancora, facendo correre un dito sotto il colletto. “Cosa sono io? Perché non corro, perché non scappo via come tutte queste persone? Perché non sono un uomo istintivo, un uomo sincero? Perché non ho fede?” L’angoscia lo opprimeva, lo stava trascinando giù. Voleva fermare un passante, afferrarlo per i risvolti della giacca, e chiedergli dove stesse andando, perché scorreva via per quella strada. Desiderava avere uno scopo, qualsiasi scopo, persino un autoinganno, piuttosto che trascinarsi così, da una strada all’altra, in mezzo a persone che ne avevano uno. “Dove sto andando?” C’era stato un tempo, così gli sembrava, in cui gli uomini comprendevano il cammino che percorrevano dal primo all’ultimo passo; ma non ora; la testa nel sacco; buio, oscurità, cecità; ancora bisogna andare da qualche parte; dove? Michele pensò di andare a casa.
Una fretta improvvisa lo afferrò. Ma le strade erano congestionate dal traffico, troppe macchine avanzavano lente, paraurti contro paraurti, al lato del marciapiede; era impossibile attraversare. Bloccate sotto la pioggia diagonale, tra le facciate delle case, alcune scure, alcune illuminate, le automobili aspettavano in due file opposte uno spazio per procedere; e anche Michele aspettava. Mentre era fermo lì, la sua attenzione fu catturata da una macchina più grande e lussuosa delle altre. All’interno sedeva un uomo, appoggiato rigidamente contro lo schienale con il volto in ombra; il braccio di una donna era appoggiato sul suo petto. Era chiaro che lei stava seduta accanto a lui e poi era scivolata sulle sue ginocchia per afferrargli le spalle con le mani, come se lo stesse supplicando senza osare guardarlo in faccia. L’uomo immobile e la donna che lo stringeva apparvero per un istante, come fossero congelati nella luce bianca dei lampioni, davanti agli occhi di Michele; poi l’automobile iniziò ad avanzare, scorrendo via come una balena tra le altre macchine; ora tutto quello che riusciva a vedere era la piccola luce rossa della targa; sembrava un’invocazione; infine scomparve anche quest’ultimo segno.
La visione lo lasciò con una nervosa infelicità che sentiva insopportabile. Non conosceva quell’uomo e quella donna – dovevano frequentare giri diversi dai suoi o potevano persino essere stranieri – e tuttavia gli sembrava che quella scena emergesse dalla sua mente, dal suo cuore; che fosse una delle sue fantasie inquietanti, fatta carne e offerta ai suoi occhi da una volontà superiore. Quello era il suo mondo, dove uno soffre sinceramente e si aggrappa a delle spalle spietate e supplica invano – non questo limbo di voci assurde e sentimenti falsi in cui sua madre, Lisa, Carla, Leo, tutti i suoi conoscenti, recitavano i loro ruoli, figure distorte lontane dalla verità. Perché, Michele dovrebbe odiare veramente quell’uomo, dovrebbe amare veramente quella donna; ma sapeva che era inutile sperare: quella terra promessa gli era proibita e non l’avrebbe mai raggiunta.
Note alla traduzione
Il primo aspetto che osservo della prosa di Time of Indifference di Tami Calliope è l’abbondanza di punti e virgola. Di fronte ad una punteggiatura tanto caratterizzata, scelgo di non intervenire e di mantenere l’uso ossessivo di quest’interpunzione sempre più rara tra i contemporanei. A traduzione finita, prendo in mano Gli Indifferenti di Moravia e trovo un uso ancora più massiccio. Infatti, in ben sei occasioni Calliope ha spezzato le frasi, sostituendo con un punto il punto e virgola di Moravia, differenza che si è riprodotta intatta nella mia traduzione. Ci sono altre manipolazioni evidenti nel lavoro di Calliope, che si riflettono nel mio, a livello sintattico e lessicale. In alcuni casi sono state aggiunte delle parole: il Michele di Moravia cammina come fosse in una semplice “giornata di sole”, quello di Calliope in un “dry, sunny day“, e quindi il mio in una “secca giornata di sole”. Moravia ci dice che i passeggeri dell’automobile grande e lussuosa appaiono davanti agli occhi di Michele “nella luce bianca dei fanali”, per Calliope sono invece “frozen in the white light of the streetlamp”, cioè “congelati nella luce bianca dei lampioni”. Una doppia aggiunta avviene traducendo “his dazed eyes dazzled by the cheap, gaudy splendor of elecrtic advertisement” cioè “con gli occhi frastornati, accecati dal bagliore economico e sgargiante delle insegne elettriche”, nell’originale più snellamente era “con gli occhi affascinati dagli splendori fallaci delle pubblicità luminose”. Ma lo stupore più grande l’ho provato quando mi sono reso conto di aver scritto un’intera frase partorita dalla mente di Tami Calliope. Moravia dice: “L’angoscia l’opprimeva: avrebbe voluto fermare uno di quei passanti”, io invece “L’angoscia lo opprimeva, lo stava trascinando giù. Voleva fermare un passante” perché ho letto questo: “The anguish oppressed him, it was bearing him down. He felt like stopping one of the passerby”; l’angoscia inglese non si limita ad opprimere Michele, lo vuole trascinare giù. C’è poi un’operazione puramente sintattica del testo inglese che scioglie una subordinata temporale in una coordinata della principale: il mio Michele “guardò in basso alle centinaia di piedi che scorrevano insieme sul bagnato e fu colpito dalla futilità dei suoi stessi movimenti.” perché: “he looked down at the hundreds of feet shuffling along in the wet and was struck by the futility of his own movement” quando nell’originale: “lo colpì, guardando in terra alle centinaia di piedi scalpiccianti nella mota, la vanità del suo movimento”. Sul piano lessicale ho trovato almeno tre tradimenti palesi: il vero Michele “aveva un timore doloroso” quello mio “viveva nel terrore di” perché “he lived in painful fear of”, in seguito il suo “animo” diventa “mind” cioè “mente” e, cosa più grave di tutte, i bellissimi “fracassi assurdi” si sono trasformati in semplici “voci assurde”, “absurd voices”. Poi ci sono quelle parole che ho tradotto in italiano corrente, allontanandomi dal vocabolario del 1927: cars, movie theater, toothpaste, macchine, cinema, dentifricio e non veicoli, cinematografo e pasta dentifricia. Infine segnalo l’uso enfatico del corsivo nel testo inglese, che ho mantenuto con la traduzione ed è assente nell’originale.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).