1987, un giorno d’inverno. Una giovane suona al numero cinque di rue Saint Benoit, a Parigi. È una ragazza alta, con i capelli castani, gli occhi nocciola. In mano regge un vassoio di tortellini. Si chiama Leopoldina Pallotta della Torre, ha il titolo di contessa, è nata e cresciuta a Bologna, fa la giornalista a Milano. Ha avuto quell’appuntamento grazie all’interessamento di Inge Feltrinelli. Vuole incontrare la scrittrice. Vuole incontrare Marguerite Duras, di cui ha letto tutti i libri. Di cui si è innamorata, fino a esserne divorata.
Il primo appuntamento è deludente, ma Pallotta non si ferma. “Quel giorno, non mi degnò di uno sguardo – mi racconta –. Duras era inguardabile, stava seduta su un divano, era un fagotto. Appena sentii la sua voce roca e sensuale, appena vidi gli occhi blu che aveva, capii come aveva fatto a diventare Duras”.
Dagli incontri, che si rincorrono per due anni, nasce un libro intervista che brilla delle risposte schiette, dure, strafottenti e a volte disperate di Duras. Nasce un libro confessione, una raccolta di memorie, di ricordi, di pensieri, di accuse e di futuro. La passione sospesa – questo il titolo del volume, pubblicato per la prima volta in Italia dalla Tartaruga di Laura Lepetit e adesso introvabile – ancora oggi resta una fra le testimonianze più vere e brillanti di una grande scrittrice.
Sulle pagine online di Nuovi Argomenti, grazie alla gentile concessione dell’autrice e in occasione dell’anniversario della morte di Marguerite Duras, scomparsa il 3 marzo 1996 a Parigi, trovate adesso un percorso ragionato fra le parole, le ambizioni, il pensiero e la storia dell’autrice francese raccontata attraverso la sua stessa voce.
(da La passione sospesa, per gentile concessione dell’autrice)
Come si descrive da bambina?
Piccola lo sono sempre stata. Nessuno mi ha mai detto che ero graziosa, né c’erano specchi dove vedersi, in casa.
Che rapporto c’è tra questi cumuli di memoria e la sua scrittura?
Ho ricordi stupendi, così forti che lo scritto non potrà mai evocare.
L’infanzia indocinese è un referente indispensabile al suo immaginario.
Nulla potrà mai eguagliarne l’intensità. Ha ragione Stendhal, l’infanzia è interminabile.
Quali sono le ragioni che l’hanno indotta a scrivere?
Il bisogno di rendere sulla pagina qualcosa di cui sentivo l’urgenza senza avere la forza di farlo completamente. Leggevo molto, all’epoca, e inevitabilmente la fretta di scrivere era tanta che non mi rendevo conto di quanto mi stava influenzando. È solo con il secondo libro che si comincia a veder chiaro la direzione della propria scrittura nel suo lento distaccarsi dal fascino che l’idea della letteratura esercita su di noi.
Come cominciò?
A undici anni vivevo in Cocincina, trenta gradi all’ombra, ogni giorno. Scrivevo poesie – si comincia sempre da lì – sul mondo, la vita di cui non sapevo niente.
Perché secondo lei si comincia a scrivere?
Penso al mio ultimo romanzo, Emily L. Emily legge, scrive poesie: tutto, a dire il vero, è iniziato con la lettura, suggeritale dal padre, dei versi di Emily Dickinson cui il libro, da lontano, si ispira. Non so davvero che cosa spinga la gente a scrivere se non, forse, la solitudine di un’infanzia. Per me come per Emily ci sono stati un padre, o un libro, o un’insegnante, o una donna sperduta tra le risaie della Cocincina. Sa una cosa? Non penso di aver conosciuto nessuno senza pormi questa domanda: la gente, quando non scrive, cosa fa? Ho una segreta ammirazione per le persone che non lo fanno; e non so proprio come possano.
Che rapporto c’è, tra scrittura e reale?
Tutti gli scrittori, che lo vogliano o no, parlano di se stessi; di sé come dell’avvenimento principale della propria vita. Anche lì dove, apparentemente, narriamo cose estranee, sono il nostro io, le nostre ossessioni, ad essere implicati. Così come per i sogni – dice Freud – è sempre solo il nostro egoismo che trapela. Lo scrittore ha due vite: una, quella alla superficie di sé, che lo fa parlare, agire, giorno dopo giorno. E l’altra, quella vera, che lo segue ovunque, non gli dà tregua.
Scrivere per esorcizzare i propri fantasmi? Lei stessa sostiene la portata terapeutica della scrittura.
Temevo sempre, da bambina, che la lebbra mi contagiasse. Solo dopo, scrivendone da qualche parte, la lebbra ha cessato di spaventarmi, se questo le può bastare.
Io scrivo per volgarizzarmi, massacrarmi, e poi per alleggerirmi d’importanza: che il testo prenda il mio posto, in modo da farmi esistere meno. Mi accade di liberarmi da me stessa solo in due casi: l’idea del suicidio, o quella della scrittura.
L’amante ha venduto un milione e mezzo di copie solo in Francia, ed è stato tradotto in 26 lingue. Come si spiega questo enorme successo?
E pensare che Jêrome Lindon, l’editore, ne aveva tirate cinquemila! Pochi giorni dopo era già esaurito. In un mese le copie sono salite a ventimila e ho smesso di occuparmene. L’ho lasciato lì, senza più riaprirlo, come faccio di solito. L’amore, mi hanno detto, è un tema che assicura il successo, ma non era a questo, scrivendolo, che pensavo. Sicura anzi di annoiare o innervosire il lettore alle prese con argomenti che avevo comunque già trattato. Non prevedevo certo che, riconoscendomi, la gente ne facesse una specie di romanzo popolare.
Quali potrebbero essere stati gli altri ingredienti ad aver decretato un così clamoroso successo?
Il libro, credo, trasmette quel grande piacere che, per dieci ore al giorno, ho provato scrivendolo. Di solito invece la letteratura francese confonde la serietà di un libro con il suo essere noioso. E infatti se la gente non finisce di leggere i libri è perché sono tutti colmi di pretese, la pretesa stupida di voler rimandare ad altro…
Cosa provava scrivendo L’amante?
Una certa felicità. Il libro è uscito al buio – il buio dove avevo relegato la mia infanzia – ed era privo di ordine. Una serie di episodi sconnessi che io trovavo e abbandonavo senza soste, premesse, o conclusioni.
Per L’amante lei ha parlato di “scrittura corrente”.
È quel modo di mostrare le cose sulla pagina passando da una all’altra stanza senza insistere o spiegare: dalla descrizione di mio fratello a quella della foresta tropicale, dalla profondità del desiderio a quella del blu del cielo.
Qual è secondo lei il compito della letteratura?
Quello di rappresentare l’illecito; di dire quello che la gente solitamente non dice. La letteratura deve essere scandalosa: tutte le attività dello spirito, oggi, devono avere a che fare con il rischio, l’avventura. Il poeta stesso è di per sé questo stesso rischio, qualcuno che, al contrario di noi, non si difende dalla vita. Pensi a Rimbaud, Verlaine… ma Verlaine è uno che viene dopo, il più grande resta Baudelaire: gli sono bastate venti poesie per raggiungere l’eternità.
Youcenar sostiene che uno scrittore è utile “se arricchisce la lucidità del lettore, lo libera da timidezze o pregiudizi, gli fa vedere e sentire ciò che quel lettore non avrebbe visto né sentito senza di lui”.
Sì, gli scrittori veri sono necessari. Danno forma a ciò che gli altri sentono in modo informe: per questo, i regimi totalitari li boicottano.
In Una stanza tutta per sé Virginia Woolf sostiene che la condizione normale e perfetta per ogni essere è che i principi del maschile e del femminile vivano armonicamente.
La grande mente è androgina. Puntare su certe femminizzazioni dell’arte è un grosso errore delle donne. Creandosi questa specificità, restringono la portata stessa del loro discorso.
In un lungo intervento su Libération, lei si occupò della vicenda di Christine Villemin, presunta assassina del proprio figlio in un villaggio dei Vosgi. Lei stessa raccontò di essersi recata a Lépanges e, pur senza avervi assistito, di poter immaginare l’esatto svolgimento dei fatti: appropriandosi – non troppo verosimilmente, forse – dell’intero affaire fino a fare della Villemin un’eroina “forzatamente sublime”. Emblema stesso della scrittura come processo irreversibile e totale, in quanto agita da forze estranee e oscure. Il gesto folle della donna, insomma, sarebbe stato, a suo avviso, il tentativo ultimo (e quindi, innocente e non condannabile) di ritrovare e liberare se stessa e il proprio angoscioso destino attraverso l’uccisione del figlio non desiderato.
Il crimine di Villemin mi sembrò la colpa di chi, innanzi tutto, come ogni donna, era vittima: l’essere relegata alla materialità dell’esistenza, incapace di sollevarsi da lì, condannata all’artificialità di una vita non voluta.
Questa sua incondizionata difesa della Villemin destò molto scandalo: molti intellettuali e uomini di spettacolo, tra cui Simone Signoret, si schierarono contro di lei.
La Villemin era il prototipo di una femminilità soggiogata all’uomo che stabilisce, una volta per tutte, le leggi della coppia, del sesso, del desiderio. Donne come lei sono ovunque, incapaci di dire, estenuate dal vuoto che le circonda: i bambini altro non sono che un ulteriore legame che attenta alla realizzazione del sé.
Lei accennava, in un’intervista, a precise caratteristiche che distinguerebbero lo scrivere maschile da quello femminile.
C’è un rapporto intimo e naturale che da sempre lega la donna al silenzio, quindi, alla conoscenza e all’ascolto di sé. Questo porta la sua scrittura a quella autenticità che invece manca allo scrivere maschile, la cui struttura rimanda troppo a saperi ideologici, teorici. Insomma, l’uomo sarebbe più legato al sapere inteso come bagaglio culturale.
E quindi, al potere, all’autorità che, di per sé, hanno poco a che fare con la scrittura vera. Pensi a quello che Roland Barthes ha scritto attorno all’amore. Note affascinanti, meticolose, intelligenti, letterarie: ma fredde. Di chi conosce l’amore solo per averlo letto, o visto da lontano, senza conoscere le estasi, le pulsioni, il dolore. In lui non c’è niente che non sia estrememente controllato. Solo l’omosessualità di Proust lo ha gettato nei meandri della passione riuscendo, contemporaneamente, a fare letteratura.
Cosa pensa degli uomini?
Che vivano in una specie di opacità della vita, tanto da non accorgersi di molte cose che li circondano. Presi da sé, da quello che fanno, certe volte, al punto da non sapere mai tutto quanto, senza fare rumore, accade nella testa di una donna. Esiste tutt’ora, credo, una classe fallica che si prende così sul serio…
Del femminismo cosa pensa?
Diffido di tutte quelle forme un po’ ottuse di militanza che non sempre conducono ad una vera emancipazione femminile. Ci sono controideologie più codificate dell’ideologia stessa. Certo, una donna consapevole e informata è già in sé una donna politica: a patto che non si autoghettizzi facendo del proprio corpo il luogo del martirio per antonomasia.
Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.