Ti alzi la mattina e ti trascini al lavandino: lì c’è uno specchio. Prendi la metro e rimani in piedi col braccio alzato per tenerti e non cadere: davanti a te c’è un vetro in cui si intravede la tua immagine. Arrivi a lavoro e ti siedi davanti al computer spento: lo schermo scuro riflette il tuo volto. Ogni giorno la stessa storia, ogni giorno ti svegli e sai già che il tuo corpo sarà lì a comparire e sparire sulle superfici, ad apparire davanti alle persone.
Guardati allo specchio: quella sagoma e quel volto e quegli occhi che scrutano senza capirci granché sono tutte cose tue. Quello è il riflesso di tutto ciò che ti trascini dietro ogni giorno: pelle, mani, guance, orecchie, quel neo specifico e quella specifica attaccatura di capelli.
Cosa succede quando ti guardi? Nulla: ti aggiusti un ciuffo fuori posto, controlli di non avere il rossetto sbafato, ti allisci la camicia. Oppure potrebbe accadere qualcosa: potresti stupirti o impazzire o cadere in un burrone di domande da cui non risali più. Quella sagoma e quel volto e quegli occhi sei proprio tu, tu è nessun altro. Sei tu, o quelle centomila persone che si svelano alla gente, direbbe Vitangelo Moscarda, sbalordito dalla consapevolezza di essere niente più che un estraneo sorpreso nello specchio, o una serie di individui diversi che cozzano tra loro.
Guardarsi allo specchio non è niente, è una sciocchezza, ma prova a farlo davvero, spogliati e guardati: stai vedendo quello che ti aspettavi di vedere? Riconosci le pieghe sotto il seno, o la curva dei tuoi fianchi, o il modo in cui la pelle si aggroviglia sul ginocchio? Oggi stai vedendo una cosa, ma domani ne vedrai un’altra: lo sa bene Eleonora, il personaggio che Michela Murgia in Chirù mette davanti a uno specchio per farla sentire finalmente una donna piena di una carnalità compiuta, una donna che, quel giorno, non formula giudizi sprezzanti su se stessa. Lo sa bene anche Luciano Fleurier, il personaggio che Sartre tratteggia divinamente nel racconto Infanzia di un capo e che a un certo punto lo posiziona davanti a uno specchio per insegnargli «ad apprezzare la sua giovane grazia un po’ impacciata», cosa che lui fa perché più avanti nel racconto si sorprende a guardarsi nudo e a pensare «Un uomo ha desiderato questo corpo». Lo sa invece un po’ meno bene B, il protagonista di Bolaño in Puttane assassine, che dopo essere stato con una prostituta e aver camminato per i quartieri di Parigi senza fermarsi, quando torna nel suo albergo si guarda un poco nello specchio e in una frazione di secondo cerca, trova e schiva i suoi occhi.
Ci si guarda allo specchio per riconoscersi, allora? Questa è una di quelle domande per cui si cade nel burrone senza riuscirne più risalire, come anche: E schivare il proprio sguardo significa avere paura di riconoscersi, quindi? o Se continuassi a guardare la mia immagine riflessa, riuscirei a cogliere i cambiamenti del tempo che passa? o Sono davvero io quel volto nello specchio? Anna Maria Carpi, a quest’ultima domanda, risponde con una poesia e una consapevolezza: lo sa che il volto che abbiamo ci è stato dato dal caso, ma sa anche che se lo fissi e pensi che sei davvero tu, ti può far impazzire.
E intanto la giornata continua e a pranzo ti vedi riflesso sulla vetrina della solita paninoteca, a fine giornata esci dall’ufficio e cammini per strada per arrivare alla stazione e lì sei libero, non incorri in nessun pericolo: non ci sono superfici lucide, né specchi, né vetrine, e anche in metro, stasera hai la fortuna di trovarla piena e non c’è spazio affinché il tuo volto trovi posto sul vetro, poi arrivi a casa e ti apre la persona con cui vivi che ti guarda di sfuggita, dunque l’hai scampata, e vai in camera da letto e ti spogli e, fortunatamente o forse no, non fai caso al tuo riflesso nello specchio dell’armadio, ma non è finita perché per impazzire e per cadere nel burrone rimane ancora lo specchio in bagno sopra il lavandino, dove vai a lavarti le mani e per sbaglio tiri su la testa e incroci lo sguardo di un uomo, che guarda caso è il tuo sguardo, proprio il tuo e te ne rimani a fissarti e non ci capisci più niente.
SCROSCIA L’ACQUA sincera
fredda calda obbediente
e schizza per il bagno fino agli allegri led.
Care mensole colme di sciocchezze,
asciugamani bianchi
dove mi nascondo
a occhi chiusi
e non vedo più niente.
Sono io quel volto nello specchio?
Un sembiante il caso lo dà a ognuno,
ma se lo fissi e pensi “sono io”
ti fa impazzire.
Anna Maria Carpi
Sono una lettrice il più possibile e una bevitrice devota di caffè. Sono nata e vivo a Roma, la città più bella del mondo, dove si intrecciano tutti i temi a me cari: il tempo, la memoria, il caso.
Vorrei scrivere poesie come Wistawa Szymborska e prosa come Annie Ernaux, ma al momento la mia occupazione principale è leggerle.
Le lauree che infiocchettano il mio curriculum sono in Lettere Moderne e in Editoria e Scrittura, ma ora smetto di dirvi chi sono che tanto in così poche righe potrei dirvi tutto e niente.